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Premessa: la complementarità tra localismo e olismo in Georg Northoff

body problem

4 La neurofilosofia dell’embedment

4.1 Premessa: la complementarità tra localismo e olismo in Georg Northoff

Prima di esporre l’ipotesi neurofilosofica di Northoff, vorrei focalizzare l’attenzione ancora una volta sull’approccio brain-based di Northoff. Essendo una teoria di tipo neurofilosofico, è evidente che il suo punto centrale sia il cervello stesso; tuttavia è interessante osservare anche il modo particolare in cui l’autore tratta questo genere di analisi, un metodo per nulla scontato. Pertanto, mi soffermerò ora sulla disputa tra approcci metodologici riguardanti lo studio del cervello in quanto tale, tra localismo ed olismo. La questione non ha nulla a che vedere con la relazione tra olismo e riduzionismo epistemologici, piuttosto si tratta della definizione del rapporto tra funzioni cognitive e regioni del cervello ad esse correlate. In generale,

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secondo l’impostazione localista, tra funzione e regione sussiste una relazione uno ad uno, mentre secondo quella olistica per ogni funzione sono reclutate più regioni o network neuronali. La disputa tra i due approcci si è sviluppata a partire dal XIX secolo, dalle teorie localiste di Franz Gall (1758-1828), ma in particolare dagli studi di Paul Broca (1824-1880) sulle lesioni cerebrali: si notò infatti che a determinati danni al tessuto cerebrale corrispondevano precisi disturbi mentali, legati al linguaggio, alla visione o alla capacità decisionale e così via. Altri fautori dell’impostazione localista furono: Carl Wernicke (1848-1905) con i suoi studi sulle aree dedicate in particolare al linguaggio, Korbinian Brodmann (1868-1918) che divenne famoso per la divisione anatomica del cervello a seconda della citoarchitettura delle cellule neuronali1.

Nella controparte olistica è possibile trovare nella prima metà del XIX secolo Pierre Flourens (1794-1867), che si oppose alla frenologia attraverso i suoi studi sull’attività distribuita del cervello2; è importante anche ricordare Karl Lashley (1890-1958) che attraverso le sue teorie anti-localiste sulle attività cerebrali introdusse due principi: il ‘principio di equipotenzialità’, che sostiene la capacità delle singole parti intatte del tessuto cerebrale di sostituirsi nel funzionamento cognitivo al network neuronale intero, quando danneggiato; questa potenzialità non è infinita, ma dipende dal secondo principio, detto ‘dell’azione di massa’, secondo cui il danno dipenderebbe dalla quantità e dall’ampiezza di massa neuronale lesionata e non dalla sua localizzazione precisa3. Un altro esempio di teoria olistica del cervello è ravvisabile negli studi del neuropsicologo russo Aleksandr Lurija (1902-1977), che, attraverso lo studio delle lesioni cerebrali dei suoi pazienti, giunse alla conclusione

1 Cfr. Oliverio (2010) p. 17-20. Cfr. anche Martin, G. N., Balconi, M. (2006) Neuropsicologia cognitiva, Pearson Italia, Milano-Torino 2013, p. 5-7.

2 «Flourens si impegnò quindi a ripetere gli esperimenti condotti da Gall sugli animali e riuscì a dimostrare che la lesione di un particolare sito della corteccia non comportava automaticamente la perdita delle capacità di apprendere e ricordare: perciò il comportamento poteva, anzi doveva, essere inquadrato in termini olistici». Oliverio (2010) p. 17. Cfr. anche Martin, Balconi (2006) p. 5.

3 Nieuwenhuys, R., Voogd, J. D., Van Huijzen, C. (a cura di) (2010) Il sistema nervoso centrale, Springer-Verlag Italia, Milano, p. 521. Lesioni più vaste impediscono ai collegamenti neuronali di passare da un’area cerebrale all’altra, distruggono più massa cellulare e ostacolano il trasporto delle informazioni attraverso il tessuto nervoso.

153 che per ogni singola regione del cervello possono essere coinvolte diverse attività funzionali e che, al contempo, differenti funzioni cognitive possono reclutare differenti regioni del cervello (dynamic localization)4. Ad ogni modo, è difficile offrire qui una soluzione definitiva alla dialettica tra i due approcci, anche perché, per fare un esempio esplicativo, spesso i dati rilevabili dagli studi sulle lesioni cerebrali offrono potenzialmente materiale per entrambe le interpretazioni, sia per il localismo che per l’olismo5. Inoltre, non è possibile sviluppare in queste pagine la storia della dialettica tra localismo e olismo all’interno del contesto storico delle neuroscienze6, basti sapere che ancor oggi la ricerca oscilla tra un cauto interesse per la localizzazione delle specificità ‘modulari’ delle singole aree cerebrali e un’attenzione a più ampio raggio verso le necessarie interconnessioni tra funzioni, che permettono l’emersione dei processi cognitivi di ordine superiore7.

Proseguendo oltre le particolari dispute tra singole teorie che si sono susseguite nella storia della neuroscienza, vorrei far notare che lo sviluppo delle tecnologie di scansione cerebrale avvenuto negli ultimi trenta quarant’anni sembra aver contribuito ad una maggiore propagazione delle teorie localiste, almeno in parte;

4 Cfr. Northoff (2014b) p. 311. Lurija stesso formulò un principio olistico, chiamato ‘principio dell’olismo sistemico’: «The structure of the organism presupposes not an accidental mosaic, but a complex organization of separate systems […] [that] unite as very definite parts into an integrated functional structure». Cfr. Cole, M. (2005) A. R. Luria and the Cultural Historical Approach in Psychology, in T. Akhutina, et al. (Eds.), A. R. Luria and contemporary psychology: Festschrift celebrating the centennial of the birth of A. R. Luria, New York: Nova Science Publishers, pp. 35-41.

5 «The difference between the two approaches [localismo e olismo] is most evident in the interpretation of behavioral changes after focal brain damage. From an associationist-localizationist perspective the loss of brain tissue is expected to be correlated with either the loss of a specific function or the interruption of the interactions between intact functions--disconnection. From a holistic-antilocalizationist point of view the total amount of damaged tissue is more critical than its exact location. The greater the loss of brain tissue the more disturbed all cognitive functions become. Because each cognitive act is the product of a process encompassing the whole brain, the coherence of every motor act and every perceptual process is expected to be degraded by the damage». Deacon, T. W. (1989) Holism and Associationism in Neuropsychology: An Anatomical Synthesis, in E. Perecman (Ed.), Integrating Theory and Practice in Clinical Neuropsychology. Erlbaum. Hilsdale, NJ., p. 4.

6 Per una breve storia del rapporto tra localismo e olismo nelle neuroscienze cfr. ivi, pp. 3-12.

7 «Il sistema è modulare: esso è composto da moduli “incapsulati” e semi-indipendenti, che eseguono funzioni discrete […] Ciononostante tali funzioni tra loro interconnesse si scambiano input e output secondo un’organizzazione molto articolata. […] le associazioni tra il piano funzionale e quello anatomico sono spesso non ben definibili. Per esempio, affermare che una determinata struttura sia responsabile del linguaggio non è del tutto appropriato, poiché i processi linguistici sono molto articolati e chiamano in causa componenti differenti». Martin, Balconi (2006) p. 109-110.

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infatti, la visualizzazione “in immagine”, ad esempio tramite fMRI, dell’attivazione di determinate aree cerebrali rispetto ad altre offre la sensazione di poter definire puntualmente i compiti cognitivi legati ad ogni specifica regione del cervello. Tuttavia, c’è da dire che se si considerano anche altri strumenti di rilevamento, come il DTI (Diffusor Tensor Imaging), è possibile riconoscere che non esiste una sola attività cerebrale specifica che non sia collegata con altre aree. Inoltre, riguardo alla risonanza magnetica funzionale, può succedere che il processo di ‘sottrazione cognitiva’ giochi brutti scherzi a livello di rappresentazione grafica a chi non è un esperto del settore (ai giornalisti scientifici in primis): nei processi di scansione cerebrale avviene un confronto tra diverse neuroimmagini; quelle rilevate durante il

resting state (stato a riposo del cervello) o in un ‘compito di controllo’ e quelle

riscontrate durante il ‘compito sperimentale’ specifico che si vuole analizzare (ad esempio, l’orientamento spaziale); interviene dunque la sottrazione cognitiva, intesa come l’oscuramento delle zone attive in comune tra resting state/compito comune e compito sperimentale, in modo tale da lasciare nella neuroimmagine finale solo le aree che si sono attivate specificamente durante la particolare attività cognitiva. Da qui, derivano le famose immagini del cervello grigio con alcuni “fuochi” colorati, che rappresenterebbero i livelli di attività sparsi nella struttura anatomica dell’organo. Bisogna sempre considerare che l’interpretazione di quelle immagini deve tener conto di molti dettagli: ad esempio, dei livelli di precisione (spatial smoothing) o di soglia impostati, ma anche del fatto che le zone grigie non sono realmente inattive, sono solamente oscurate da un ‘artificio grafico’ e inoltre che queste rappresentazioni dipendono dai compiti di controllo selezionati in relazione a quelli sperimentali8.

Per Northoff, localismo e olismo non devono essere intesi come necessariamente opposti e in contraddizione reciproca, piuttosto possono essere elaborati all’interno di un sistema di metodo complementare. Dopo aver brevemente presentato alcuni esempi in cui l’utilizzo degli strumenti di ricerca neuroscientifica possono far propendere per una visione localista o olistica (a seconda dell’interpretazione dei

8 Cfr. Stelzer J., et al. (2014) Deficient approaches to human neuroimaging, in Front. Hum. Neurosci. 8:462. Per la sottrazione cognitiva in particolare cfr. Legrenzi, Umiltà (2009) pp. 38-41.

155 dati), l’autore si chiede se abbia senso proseguire su un tal genere di movimento oscillatorio e ridondante tra i due approcci, sviluppando alcune riflessioni a riguardo. È vero che al giorno d’oggi possiamo affermare con certezza che alcune aree del cervello sono specializzate più di altre nello svolgere determinati compiti9; ad esempio, l’attivazione della corteccia striata, corrispondente all’area di Brodmann 17, indica un possibile processo di visione in atto, così come “l’accensione” dell’area di Wernicke è correlata molto probabilmente ad un compito di comprensione linguistica. Tuttavia, Northoff fa notare che solitamente si è fin troppo attenti alle aree di attivazione, in particolare secondo il localismo, mentre quelle “non-attivate” durante il compito cognitivo non vengono concretamente prese in considerazione, quando invece potrebbero essere molto utili allo scopo esplicativo10. Infatti, ci sono molte aree del cervello che durante precisi compiti sperimentali non si attivano, eppure rimangono attive in resting state; sembra sussistere dunque una differenza tra ‘activated’ e ‘active’ regions11. Per di più, può accadere che determinate aree si inibiscano durante lo svolgimento di un compito particolare; secondo Northoff, un tale fatto non deve essere considerato un evento di minore importanza rispetto alle “attivazioni”. Pertanto, in contrasto all’approccio localization-based, o activation-based direi, Northoff propone l’ipotesi che le regioni attive o inibite possano svolgere un ruolo chiave all’interno della definizione dei processi neuronali sottostanti ai compiti

9 Con il termine ‘lateralizzazione’ si fa riferimento «all’utilizzo preferenziale o al funzionamento di una struttura (un organo, una formazione, un arto o altro) in modo più efficiente rispetto all’area omologa controlaterale. […] La lateralizzazione funzionale aumenta la flessibilità e la complessità del sistema: se una funzione può essere eseguita meglio da una struttura di un solo lato del corpo (e questo vale anche per le strutture cerebrali), la struttura omologa sarà libera di svolgere altre funzioni, senza ridondanze poco funzionali». Martin, Balconi (2006) p. 110.

10 Questa non è effettivamente un’intuizione originale di Northoff, in quanto i rischi legati ad un localismo estremo sono ben chiari da tempo. Riguardo alla creazione di una “cartografia funzionale del cervello”, Oliverio afferma: «[…] ciò non significa, come vedremo in seguito, che queste aree siano le uniche sedi in cui si svolge una particolare funzione né che la descrizione della sede – cioè del dove – possa prescindere da una teoria che spieghi nel suo insieme come quell’area o il cervello siano coinvolti in un’attività particolare. La crescente disponibilità di carte funzionali del cervello deve anzi renderci cauti rispetto a una lettura piattamente fisicalista della mente umana, una lettura che cioè si esaurisca alla descrizione del “dove” senza tener conto del “come” e del “perché”». Oliverio (2010) p. 33.

11 «Accordingly, the regions/networks remaining silent in response to our task, that is, “non-activated”, may nevertheless be “active” (rather than “non-active”) and may therefore have an important role in processing the function in question». Northoff (2014b) p. 312.

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cognitivi: infatti, potrebbero partecipare all’emergere dei cambiamenti neuronali nelle regioni attivate, generando inoltre un’amplificazione della differenza di attivazione tra le aree (amplification hypothesis e condensation hypothesis)12. Da tale prospettiva, per fare un esempio, non è così automatico definire il compito di riconoscimento facciale identificando meramente il processo cognitivo con l’attivazione dell’area fusiforme facciale (FFA), bisognerebbe piuttosto concentrarsi anche su eventuali aree inibite o attive in RS (resting state), evidenziando eventuali connessioni neurali con la regione specifica. Inoltre, bisogna ricordare che non è assolutamente certo che l’area lesionata sia direttamente interessata con il deficit cognitivo riscontrato e perciò è necessario procedere con cautela nell’assegnazione dell’attività mentale alla determinata regione cerebrale13; in effetti, non si può eliminare il fatto che sia riconoscibile un ruolo predominante dell’area fusiforme facciale durante il compito di riconoscimento dei volti, tuttavia è necessario non confondere il risultato dell’attività neuronale con i processo14.

A questo punto, secondo Northoff, è necessario sviluppare le caratteristiche di entrambi gli approcci, sia l’implicazione del cervello intero durante le attività cognitive sia l’evidente localizzazione di determinate attivazioni neuronali. Ciò è possibile solamente attraverso il riconoscimento dell’interdipendenza e dell’integrazione di entrambi i modelli: se è vero che il processo neuronale sottostante ai compiti cognitivi è riconoscibile in una struttura neuronale ben articolata e formata non solo da aree attivate, ma anche da regioni attive in RS o addirittura inibite, allo stesso tempo è vero che il risultato stesso dell’attivazione neuronale è necessariamente localizzato, proprio in virtù della processualità olistica:

12 «This, however, makes localization of the function in the activated regions impossible, since that would neglect the role of the active regions in generating the neural activity changes in the activated region. […] Instead, the function may be associated with both “activated” and “active” regions/networks as distinguished from “non-activated” and “non-active” ones». Cfr. ivi, p. 311-312.

13 «[…] il sito lesionato potrebbe non essere direttamente necessario per la funzione danneggiata. È cioè possibile che una regione adiacente connessa a quella danneggiata sia in realtà più importante per quella funzione, ma, a causa dell’interruzione delle connessioni tra le due aree, quella rimasta intatta non possa più funzionare normalmente». Martin, Balconi (2006) p. 17.

14 «However, to infer from such localization (or better, condensation) of neural activity to the localization of the function in question in that particular region/network is to confuse outcome and processes». Northoff (2014b) p. 313.

157 infatti, più il cervello nella sua interezza sviluppa processi e network di amplificazione delle differenze di attivazione tra aree cerebrali (ad esempio, per via inibitoria), più la localizzazione della regione specifica sarà efficace15.

Dunque, a partire dall’analisi del metodo di studio del cervello proprio di Northoff, è possibile comprendere come il suo approccio non sia improntato solamente verso la ricerca del “dove”, ma anche verso il “come” e il “perché”, senza rinunciare né allo studio delle singole aree di attivazione, né all’attenzione verso il cervello come un sistema costantemente attivo. Come sarà possibile constatare, il metodo si ripercuote in tutti gli altri suoi ambiti di ricerca, estendendosi oltre il cervello, nel rapporto con il corpo e l’ambiente.