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Giuseppe Penno 7 , Vincenzo Trischitta 8

Nel documento Consulenza genetica e diabete (pagine 128-136)

Dipartimento di Medicina Sperimentale e Chirurgia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Roma1; Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma2; Dipartimento di Medicina Sperimentale, Diabetologia, Polo Pontino,

“Sapienza”Università di Roma3; Dipartimento di Pediatria, Università di Torino, Torino4; Unità di Biostatistica, IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo, Foggia5; Endocrinologia, Diabetologia e Malattie del Metabolismo, Università e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona6; Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa, Pisa7; Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università di Roma,

Roma8; Laboratorio di Ricerca di Diabetologia ed Endocrinologia, IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo, Foggia9; Laboratorio IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza-Mendel, San Giovanni Rotondo, Foggia10

FORME COMUNI DI DIABETE E LORO COMPLICANZE CRONICHE Introduzione

Come già evidenziato nei precedenti capitoli di questo testo, le forme comuni di diabete mellito (DM) sono primaria- mente rappresentate da DM tipo 1 (DMT1) e tipo 2 (DMT2), e costituiscono, insieme ad altri fattori di rischio, uno dei principali determinanti di mortalità precoce, malattie cardiovascolari, cecità, amputazioni degli arti inferiori e alte- rata funzione renale (nei casi più gravi sino alla dialisi). Non a caso dunque, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha recentemente riconosciuto il DM come un’emergenza sanitaria globale che merita attenzione prioritaria. Pertanto, poichè il DM ha raggiunto proporzioni pandemiche, è indispensabile migliorare gli strumenti che permettono di pre- dirne precocemente l’insorgenza nella popolazione generale, in modo da consentire la messa in opera di programmi di prevenzione adeguati per efficacia, precocità diagnostica e sostenibilità economica. Analogamente, tali strumenti potrebbero dimostrarsi particolarmente utili nei pazienti che sono già diabetici per quantificare il rischio individuale di sviluppare le complicanze croniche legate alla malattia. Ciò permetterebbe di utilizzare al meglio le non infinite risorse del Sistema Sanitario Nazionale, concentrandole così nella prevenzione e cura dei soggetti a maggior rischio con stra- tegie di monitoraggio e terapia più efficaci e necessariamente più costose e quindi non disponibili e probabilmente non sempre utili per tutti i pazienti diabetici.

Allo stato attuale, gli strumenti comunemente in uso per la comprensione del rischio individuale di sviluppare molte delle malattie non infettive si basano su elementi e misure di tipo clinico-demografico. Tuttavia, tali marcatori sono soggetti a modificazioni durante l’arco della vita e pertanto sono relativamente poco efficaci per una diagnosi precoce. Al contrario, l’informazione genetica contenuta nel nostro DNA rimane immutata nel corso della vita e pertanto i mar- catori genetici rappresentano i candidati ideali per predire precocemente il rischio individuale di malattia, in alcuni casi con alcune decadi di anticipo rispetto all’esordio clinico della stessa. Non è quindi strano che negli ultimi 6-7 anni si siano moltiplicati gli sforzi per commercializzare l’uso nella pratica clinica e preclinica dei numerosi marcatori genetici sinora identificati per molti disordini cronico-degenerativi, non ultimi quelli di interesse metabolico e diabetologico. Tuttavia, come risulterà chiaro più avanti, l’inclusione delle informazioni genetiche finora acquisite non è ancora in grado, se non in rari casi, di migliorare significativamente le comprovate capacità dei marcatori non genetici (clinico- demografici) nella predizione del rischio individuale di sviluppare il DM (sia che si tratti di DMT1 o DMT2) e le complican-

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ze croniche ad esso associate. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che le attuali conoscenze relative alla componente genetica di queste alterazioni, pur se più numerose rispetto al recente passato, sono ancora modeste e non ancora suf- ficienti per una loro utilizzazione in campo clinico. Inoltre, va considerato anche che gli strumenti statistici classici in uso sino ad oggi si sono dimostrati parzialmente inadeguati, e rimangono ancora piuttosto primitivi nell’analizzare la complessa interazione fra le componenti genetica e ambientale che sottendono i meccanismi di malattia del diabete e delle sue complicanze, così come pure della stragrande maggioranza delle malattie multifattoriali cronico-degenerative ad alto impatto socio-economico.

In particolare, se si considera il solo versante della predicibilità, ci si avvale ancora in gran parte dell’utilizzo del test statistico “di concordanza di sopravvivenza” (nota anche come “statistica C”), definita come la probabilità che, per ogni coppia composta da un “caso” (soggetto che ha sviluppato la malattia) e da un “controllo” (soggetto che non ha sviluppato la malattia), il rischio di evento predetto al momento dell’applicazione del test sia stato superiore per il “caso”; e così pure che per ogni coppia di “casi”, il rischio di evento predetto sia stato superiore per l’individuo che abbia poi sviluppato l’evento in tempi più brevi (1). La statistica C varia da un valore minimo di 0.5 (50% di probabilità che siano vere le ipotesi sopra descritte), che in temini di capacità predittiva equivale ad un “testa o croce” nel lancio di una moneta (quindi una capacità predittiva nulla), a un valore massimo pari a 1 (100% di probabilità che siano vere le ipotesi sopra descritte), che equivale ad una capacità predittiva assoluta. Per convenzione, quando il test preditti- vo presenta una statistica C che si avvicina o supera il valore di 0.8 (80% di probabilità che siano vere le ipotesi sopra descritte) si definisce buono o ottimo. In definitiva, quindi, la statistica C fornisce solo informazioni generali sulla validità del test, piuttosto che informazioni specifiche sul rischio dei singoli individui. Inoltre, essa è poco sensibile nel registrare modifiche della performance di un test già in uso quando vi si aggiunge un nuovo marcatore (nel nostro caso di origine genetica).

È per tali intriseci limiti che più recentemente si è tentato di arricchire lo studio della performance di un modello pre- dittivo con l’analisi della capacità di “riclassificazione” (2), termine col quale si intende la capacità di ridefinire le pro- babilità di rischio di un dato individuo quando ad un modello già in uso si aggiunge un nuovo marcatore. Per i soggetti che avranno sviluppato l’evento, l‘incremento o il decremento della riclassificazione del rischio ottenuta grazie al nuovo marcatore implicano, rispettivamente, una migliore o peggiore riclassificazione. L‘interpretazione è, ovviamente, op- posta per i soggetti che non hanno sviluppato l’evento.

Come si vedrà in seguito, alcuni degli studi più importanti nella valutazione del ruolo delle informazioni genetiche per la predizione del diabete e delle sue complicanze, si sono avvalsi proprio della statistica C e della riclassificazione del rischio. Diabete mellito tipo 1 (DMT1)

Il rischio di sviluppare il DMT1 è determinato da una complessa interazione tra fattori genetici e ambientali, come indi- cato, per esempio, dal rischio di sviluppare la malattia dei fratelli di pazienti con DMT1 rispetto a quello della popolazio- ne generale (6% nei primi contro 0,4% nei secondi) o di svilupparla prima dei 20 anni in individui di una famiglia con un membro affetto (5%) rispetto ad individui di famiglie senza DMT1 (0,3%).

La regione degli antigeni leucocitari umani (HLA), un gruppo di più di 200 geni situati all‘interno del complesso mag- giore d’istocompatibilità (MHC) sul cromosoma 6p21, i cui prodotti proteici sono coinvolti nella risposta immunitaria, è responsabile di circa il 50% della suscettibilità genetica al DMT1 (3).

Numerose evidenze mostrano come alcuni alleli dei geni HLA presentino una forte associazione con l’insorgenza del DMT1, mentre altri possiedano una debole associazione o conferiscano protezione (4). Tuttavia, poiché la prevalenza di questi alleli è elevata, la loro utilità è modesta nello screening della popolazione generale ma migliore per la predizione all’interno di famiglie con uno o più membri affetti (5).

Più recentemente, accanto ai geni HLA, che restano di gran lunga i più predittivi, gli studi di associazione sull’intero ge- noma (genome-wide association studies; GWAS) hanno portato all’identificazione di altri 60 loci associati con il DMT1 (6). Nonostante il notevole miglioramento della conoscenze relative alla componente genetica del DMT1, i marcatori gene- tici, se utilizzati da soli, non hanno sufficiente sensibilità e specificità per predire adeguatamente la malattia. Lo stesso si può dire per il ruolo del pannello anticorpale che caratterizza la componente autoimmune del DMT1 (anticorpi anti- insulina, anti-GAD, anti -IA-2 e anti-ZnT8).

Oggi, perciò, può ben dirsi che solo la combinazione della tipizzazione dei geni HLA, della storia familiare di malattia e dell’eventuale presenza di autoanticorpi rappresenta l’approccio ideale per la predizione del DMT1, che diventa imple- mentabile nella pratica clinica prevalentemente all’interno di nuclei familiari affetti dalla malattia (7).

Nonostante la buona performance predittiva di quest’approccio combinato, è da sottolineare che non è stata ancora identificata alcuna strategia di successo per la prevenzione del DMT1; la questione chiave è quindi se, allo stato attuale delle conoscenze, i tentativi di predizione di DMT1 siano veramente utili ed eticamente giustificati.

Resta infine da sottolineare come, oltre che a fini predittivi, la genotipizzazione dell’HLA può essere utile per discri- minare il DMT1 dalle altre forme di diabete ad insorgenza precoce (come il “Maturity Onset Diabetes (of the) Young”, MODY, di cui si parlerà appresso o il diabete neonatale) nei pazienti negativi agli autoanticorpi e in cui l’iperglicemia sia di difficile inquadramento.

Molto recentemente è stato sviluppato un punteggio di rischio genetico, calcolato su polimorfismi genetici noti di su- scettibilità al DMT1 (inclusi quelli dei geni HLA) e al DMT2, al fine di differenziare le due forme più comuni di DM in pazienti con diagnosi di malattia tra i 20 ed i 40 anni, in cui tale differenziazione è più difficile. Livelli soglia diversi del punteggio di rischio hanno, ovviamente, performance diverse; la soglia che gli autori hanno definito come migliore garantisce una sensibilità del 50% e una specificità del 95% nell’identificare i pazienti con DMT1 (8).

Diabete mellito tipo 2 (DMT2)

Numerose evidenze hanno dimostrato come il DMT2 sia una malattia caratterizzata da una forte componente genetica che interagisce con un vasto e variegato contesto di fattori ambientali di cui si è precedentemente discusso (9). Il nu- mero delle varianti genetiche comuni individuate per essere associate al rischio di DMT2 è in costante aumento, ed at- tualmente sono stati identificati nell’intero genoma umano circa 80 loci indipendenti associati alla malattia. Tuttavia, nonostante i considerevoli risultati ottenuti dai recenti GWAS, l’architettura genetica del DMT2 è ancora in gran parte elusiva. Infatti, la variabilità genetica complessiva rappresentata da questi polimorfismi spiega solo una frazione limi- tata - pari a circa il 10-15% - della ereditabilità del DMT2; inoltre, la maggior parte di tali varianti genetiche di rischio si trova in regioni non codificanti del genoma umano, la cui caratterizzazione funzionale è attualmente imperfetta. È pertanto chiaro che la vasta maggioranza delle informazioni relative alla componente genetica della malattia è ancora sconosciuta e, di conseguenza, rimangono inevitabilmente inesplorati i possibili meccanismi alla base della relazione tra le componenti genetica e ambientale.

Considerato inoltre che i fattori ambientali svolgono un ruolo determinante nella patogenesi del DMT2 e sono lar- gamente implicati nella sua diffusione a livello globale, non stupisce che tutti gli studi prospettici finora effettuati abbiano mostrato miglioramenti molto modesti nella capacità discriminativa dei test basati sui marcatori genetici, rispetto ai modelli basati sulle sole caratteristiche cliniche e demografiche. Nel più grande studio di coorte sinora realizzato, è stata verificata la capacità di un punteggio di rischio genetico composto da 65 polimorfismi associati a DMT2, nel determinare il rischio di sviluppare nuovi casi di diabete nella popolazione adulta durante un arco tem- porale lungo 10 anni (10). Purtroppo, come per tutti gli studi precedenti, l’aggiunta delle informazioni genetiche migliorava solo modestamente la capacità predittiva dei marcatori non genetici (in questo specifico caso il Framing- ham Diabetes Risk Score), con un incremento modesto della statistica C, da 0.75 a 0.76. D’altra parte come elemento positivo, lo studio sottolinea come l’uso delle informazioni genetiche sia particolarmente efficace nel riclassificare correttamente il livello di rischio soprattutto negli individui con indice di massa corporea normale (≤24.5 Kg/m2),

permettendo in quest’ultimo gruppo di riclassificare correttamente circa un quarto dei soggetti. Questi ultimi inco- raggianti dati necessitano conferme in studi successivi.

In sintesi, benché nell’ultimo decennio la comprensione delle basi genetiche del DMT2 si sia notevolmente ampliata, le conoscenze attuali suggeriscono che l’inclusione delle informazioni genetiche in modelli clinici e socio-demografici aggiunga poco alla capacità predittiva del rischio di DMT2 (11). È ragionevole ipotizzare che con il miglioramento della comprensione del substrato genetico del DMT2 e con il miglioramento degli approcci statistici, i marcatori genetici pos- sano essere soprattutto utili, in un futuro non lontano, per la predizione del rischio di malattia in alcuni sottogruppi di individui, ad esempio quelli normopeso, in cui la componente diabetogena ambientale appare esercitare un effetto meno pressante sui parametri clinici usuali.

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Complicanze croniche dei DM

L’analisi di pedigree ha documentato l’esistenza di una forte aggregazione familiare per tutte complicazioni micro- e macro-vascolari del DM che a pieno titolo appartengono alla categoria dei disordini multifattoriali e poligenici. L’eredi- tabilità, cioè la porzione della varianza fenotipica dovuta alla variabilità genetica, è stata stimata tra il tra il 20% e il 60% per tutte le complicanze croniche.

Tra queste, solo la malattia coronarica (MC) nei pazienti con DMT2 è stata oggetto di ripetuti ed approfonditi studi di genetica e della possibilità che le informazioni ottenute fossero implementabili nella pratica clinica. Infatti, i dati di- sponibili sulle altre complicanze croniche del diabete come la nefropatia, la retinopatia e la neuropatia sono talmente iniziali che siamo ancora lontani dal poter immaginare un loro utilizzo nella pratica clinica o preclinica.

Al contrario, diversi GWAS hanno identificato numerosi loci associati alla MC nella popolazione generale. Quindici di tali marcatori identificati nella popolazione generale, sono stati analizzati anche in pazienti con DMT2. Cinque di essi hanno mostrato associazioni con la MC anche nella popolazione diabetica. Tuttavia, nonostante l’importanza di queste informazioni in ambito fisiopatologico, il loro impiego non si è, finora, tradotto in un miglioramento sostanziale nella definizione del rischio di MC in pazienti diabetici, rispetto a quella ottenuta con i tradizionali marcatori non genetici (12). Un solo GWAS, invece, è stato specificamente condotto in cinque casistiche indipendenti di pazienti con DMT2. Lo stu- dio ha individuato un nuovo polimorfismo sul gene GLUL (glutamate-ammonia ligase sul cromosoma 1q25), che associa fortemente al rischio di MC ma solo in individui diabetici, suggerendo un sinergismo gene-diabete nel modulare il rischio di MC (13). Recentemente, è stato dimostrato che lo stesso polimorfismo genetico è in grado di predire anche la mortalità generale e cardiovascolare in pazienti con DMT2 (14), confermando quindi il potenziale ruolo patogenetico del metabolismo del glutammato in questa specifica popolazione. Studi futuri verificheranno se l’impiego di queste infor- mazioni potrà avere anche un riscontro pratico nella predizione della MC in pazienti con DMT2.

Conclusioni

La predizione genetica del DMT1 è perseguibile all’interno del nucleo familiare solo quando sono disponibili anche le informazioni sul profilo anticorpale (15). Resta però inevaso il problema di natura etica se sia o meno il caso di imple- mentare strategie di predizione quando, ad oggi, non esistono evidenze sulla possibilità di prevenire questa forma di diabete. Predire per far poi cosa?

Al contrario, mentre siamo in grado di prevenire sia il DMT2 che le complicanze croniche del diabete, i testi genetici non aiutano ad identificare gli individui a maggior rischio meglio di quanto già non facciano informazioni non genetiche che sono ben performanti e poco costose (11).

È necessario, quindi, continuare ad acquisire conoscenze sull’architettura genetica di queste alterazioni fino ad arrivare a svelarne i più intimi meccanismi che ci permetteranno, auspicabilmente in un futuro vicino, di trasferire le nuove conoscenze nella pratica clinica quotidiana sia in termini di prevenzione e diagnosi che in termini di terapia.

FORME DI DIABETE AD EREDITARIETÀ MENDELIANA Introduzione

Nell’arco degli ultimi 25 anni si è venuta definendo una ormai lunga lista di forme di diabete in cui è possibile indivi- duare il difetto in un singolo gene quale responsabile della alterazione della glicemia. Come accennato in precedenza e vedremo più avanti, alcune di queste forme possono essere confuse sul piano puramente clinico sia con il DMT1 che con il DMT2, mentre altre dal carattere sindromico – in cui al diabete si associano patologie a carico di vari organi/apparati (ad esempio il cuore o l’apparato genito-urinario) sono di solito più facilmente identificabili. In altre parole per queste forme di diabete è possibile stabilire le modalità con cui vengono trasmesse da una generazione all’altra disegnando un albero famigliare, come avviene per note malattie genetiche, come ad esempio la fibrosi cistica, la fenilchetonuria o la distrofia muscolare di Duchenne. L’identificazione di queste forme prima sul piano clinico e successivamente il riscon- tro della mutazione genetica responsabile riveste una notevole importanza perché non solo consente di poter offrire una consulenza genetica alla famiglia, ma ha quasi sempre un impatto sulla impostazione della terapia e sulla valutazione – con buon margine di probabilità – del rischio di complicanze a lungo termine.

La forma più comune di diabete monogenico: il “MODY”

La forma di diabete mendeliano di gran lunga più frequente è senz’altro quella che tra i diabetologi è nota come “MODY”, l’acronimo di “Maturity Onset Diabetes (of the) Young”. Il MODY ha come caratteristica peculiare di insorgere in sog- getti giovani (di solito al di sotto dei 25 anni di età) e di riconoscere una trasmissione autosomica dominante, che può essere sospettata nel momento in cui si riscontrano in una stessa famiglia tre generazioni consecutive con diabete: per intendersi – a titolo d’esempio – il paziente, suo padre e la nonna paterna. Il sospetto è di solito rafforzato dal fatto che il paziente, che molto frequentemente è riferito ai Centri di diabetologia pediatrica, è negativo per gli autoanticorpi del DMT1 (anticorpi anti-insulina, anti-GAD, anti-IA-2 e anti-ZnT8), la cui positività è al contrario considerata probatoria della diagnosi clinica di DMT1. Il MODY può essere causato da mutazioni in numerosi geni (17), ma se ci si sofferma sui geni in cui – al momento in cui scriviamo – le mutazioni vengono più frequentemente riscontrate il numero può essere ristretto a 7: GCK, HNF1A, HNF4A, HNF1B, INS, ABCC8 e KCNJ11 con i primi quattro a rappresentare da soli oltre il 70% dei casi pediatrici in Italia. Tra questi 7, il gene GCK è di gran lunga quello di maggior rilevanza tra i pazienti riferiti ai Centri pediatrici (18) oltrepassando da solo il 60% dei casi (19) ed annoverando centinaia di diagnosi molecolari nel no- stro paese. L’importanza della corretta identificazione di questi soggetti risiede – paradossalmente – nell’evitare terapie farmacologiche (sia insulina che antidiabetici orali) in quanto assolutamente inappropriate (20) e nel poter fornire al paziente ed ai suoi familiari portatori della mutazione l’informazione che non andranno incontro ad alcuna complican- za cronica del diabete (21). Queste indicazioni possono essere fornite con assoluta tranquillità in quanto l’iperglicemia nei soggetti portatori di mutazioni nel gene GCK è estremamente modesta e stabile. Al contrario, i pazienti portatori di mutazioni HNF1A, la seconda causa di MODY in Italia, hanno delle manifestazioni cliniche spesso importanti, che possono facilmente essere confuse sia con il DMT1 che – più raramente – con il DMT2. L’importanza di arrivare ad una diagnosi molecolare della mutazione HNF1A risiede nel fatto che la maggior parte dei pazienti inizialmente trattati con insulina possono rispondere favorevolmente ad una terapia con antidiabetici orali della classe delle sulfaniluree o delle glinidi, con evidente miglioramento della qualità di vita del paziente. I portatori di mutazioni HNF1A sembrano andare incontro a complicanze del diabete nella stessa misura dei pazienti con DMT1 e DMT2. Queste considerazioni valgono anche per il gene HNF4A, stretto “parente” di HNF1A. Le mutazioni HNF1A e HNF4A sono riscontrate in Italia più rara- mente che nel nord Europa (22).

Una piccola rivoluzione: il diabete neonatale

La diagnosi clinica di diabete neonatale (DMN) viene effettuata in pazienti con esordio del diabete entro i primi sei mesi di vita e riconosce nella quasi totalità dei casi una origine genetica. Nell’ambito del DMN si riconoscono una forma per- manente ed una forma transitoria, che recede in media tre-sei mesi dopo l’esordio. Il DMN è causato nella maggior parte dei casi italiani da mutazioni spontanee, che possono essere trasmesse dal soggetto affetto alle generazioni successive, ma sono stati anche riscontrati casi ad andamento famigliare. Il numero dei geni implicati nel diabete neonatale ha su-

Nel documento Consulenza genetica e diabete (pagine 128-136)