• Non ci sono risultati.

Giuseppe Pugliese 1 , Gabriella Gruden

Nel documento Consulenza genetica e diabete (pagine 194-200)

Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Università di Roma “La Sapienza” e Diabetologia, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Roma1; Laboratorio di Nefropatia Diabetica, Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Torino2

INTRODUZIONE

La nefropatia diabetica è una delle principali cause di insufficienza renale terminale (End-Stage Renal Disease, ESRD) ed un importante fattore di rischio cardiovascolare (CV) fin dalle sue fasi iniziali, tanto che una parte dei pazienti affetti da questa complicanza muore per cause cardiovascolari prima di giungere allo stadio di ESRD.

Studi epidemiologici e di intervento hanno dimostrato il ruolo centrale dell’iperglicemia e dell’ipertensione arteriosa nel suo sviluppo e nella sua progressione. Nel paziente affetto da diabete di tipo 1, l’insulto metabolico e quello emodi- namico determinano un danno prevalentemente glomerulare, caratterizzato da ispessimento della membrana basale glomerulare con perdita di podociti ed espansione dell’area mesangiale per accumulo di matrice extracellulare. Tali alte- razioni possono evolvere in glomerulo sclerosi nodulare o diffusa ed associarsi a lesioni arteriolari e tubulo-interstiziali. Nel paziente con diabete di tipo 2, il quadro anatomo-patologico è più eterogeneo, con predominanza in alcuni casi di lesioni glomerulari e in altri casi di lesioni vascolari e/o del tubulo-interstizio.

Dal punto di vista clinico la nefropatia diabetica è caratterizzata da un aumento della permeabilità glomerulare all’al- bumina, con conseguente sviluppo di micro/macro-albuminuria e progressivo declino della velocità di filtrazione glo- merulare (Glomerular Filtration Rate, GFR) sino allo sviluppo di ESRD, che rende necessario il trattamento sostitutivo con dialisi o trapianto. La microalbuminuria è considerata un marcatore del successivo sviluppo di nefropatia diabetica conclamata, sebbene essa sottintenda alterazioni strutturali già al momento del suo esordio, a suggerire che la micro- albuminuria sia una manifestazione precoce di malattia piuttosto che un biomarcatore. La progressione a macroalbu- minuria si associa ad alto rischio di sviluppare ESRD. Inoltre, un aumento dell’albuminuria, già nel range normale e ancor di più in quello micro o macroalbuminurico, comporta un aumentato rischio di malattia CV, che rappresenta la principale causa di morbilità e mortalità del paziente affetto da nefropatia. Il declino della funzionalità renale viene valutato in base al GFR, che viene stimato a partire dai valori di creatininemia utilizzando l’equazione dello studio Modification of Diet in Renal Disease (MDRD) o della Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration (CKD-EPI), che presenta una maggiore accuratezza nei soggetti con valori di GFR >60 ml/min/1,73 m2. In base ai valori di albuminuria ed eGFR, è

possibile stadiare la malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) secondo la classificazione della National Kidney Foundation’s (NKF’s) Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (KDOQI) (1) o quella più recente della Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO) (2). Mentre nella prima, gli stadi 1 e 2 sono identificati dalla presenza di micro o macroalbumi- nuria, con eGFR >90 e 60 ml/min/1,73 m2, rispettivamente, e i successivi stadi 3-5 da livelli progressivamente più bassi

di eGFR, indipendentemente dalla presenza o meno di albuminuria, (1) la seconda stratifica il rischio di progressione verso l’ESRD in base alla presenza e al grado di entrambe le alterazioni (2). L’impiego di queste classificazioni ha avuto un profondo impatto sulla gestione della CKD, promuovendo la valutazione dell’albuminuria e dell’eGFR e, di con-

N E F RO PAT I A E A S S I S T E N Z A A L D I A B E T I C O

seguenza, favorendo il riconoscimento della CKD fin dai suoi stadi iniziali e il suo trattamento al fine di prevenirne l’ulteriore evoluzione vero l’ESRD.

Nelle ultime decadi, la storia naturale della nefropatia diabetica è profondamente cambiata (3). La classica sequenza a 5 stadi, descritta originariamente in base a studi condotti prevalentemente su pazienti con diabete di tipo 1, inizia con l’i- perfiltrazione, il cui ruolo indipendente nel successivo sviluppo di danno renale rimane controverso. Il secondo stadio, detto di “nefropatia silente”, è caratterizzato da normoalbuminuria o da episodi intermittenti di microalbuminuria. Mentre la maggior parte dei diabetici rimane in questo stadio per tutta la vita, circa un terzo progredisce allo stadio successivo, detto di “nefropatia incipiente” e caratterizzato da microalbuminuria persistente. Questo stadio è seguito da un quarto, detto di “nefropatia manifesta” e caratterizzato da macroalbuminuria o proteinuria, riduzione del GFR e incremento dei livelli pressori. In ultimo, la caduta del GFR progredisce a velocità variabile fino all’ESRD, che rappre- senta il quinto e ultimo stadio. L’aumento dell’albuminuria è usualmente accompagnato da una parallela progressione della retinopatia, l’altra principale complicanza microvascolare del diabete. Rispetto a questo andamento, almeno due paradigmi sono stati messi in discussione, ovvero che la microalbuminuria progredisca invariabilmente a macroalbu- minuria e che il GFR inizi a declinare solo dopo che la comparsa della macroalbuminuria.

Riguardo all’albuminuria, se in passato oltre l’80% dei pazienti con diabete di tipo 1 e microalbuminuria progredivano a nefropatia diabetica conclamata, oggi solo un terzo progredisce a macroalbuminuria, mentre i restanti pazienti riman- gono microalbuminurici o addirittura regrediscono a normoalbuminuria; lo stesso andamento si osserva nel diabete di tipo 2 (3). Ciò è dovuto all’implementazione di efficaci strategie terapeutiche, come l’ottimizzazione del compenso glicemico e l’uso dei bloccanti del sistema renina angiotensina (RAS). Pertanto, il valore predittivo della microalbumi- nuria per la sviluppo di macroalbuminuria è minore che in passato e, di conseguenza, è auspicabile individuare nuovi biomarcatori al fine di identificare meglio il sottogruppo di soggetti a maggior rischio di progressione.

Riguardo all’eGFR, è sempre più evidente che una considerevole percentuale di pazienti diabetici sviluppa CKD con riduzione dell’eGFR in assenza di albuminuria (nefropatia diabetica non albuminurica) (3). Inoltre, il monitoraggio dell’eGFR a partire dai livelli di cistatina C ha consentito di identificare un sottogruppo di soggetti con diabete di tipo 1 che vanno incontro a rapida caduta del GFR, indipendentemente dalla presenza e dalla progressione della microalbumi- nuria, fin dalle fasi iniziali in cui l’eGFR è ancora nei limiti della norma (3). Queste evidenze hanno portato a ritenere che l’albuminuria e il GFR ridotto siano manifestazioni spesso, ma non necessariamente associate, che differiscono nella patogenesi così come nelle implicazioni prognostiche e probabilmente nell’approccio terapeutico. Ciò ha indotto a raccomandare la valutazione dell’eGFR in tutti i pazienti con diabete, indipendentemente dal livello di escrezione uri- naria di albumina, e ha promosso studi finalizzati ad identificare i fattori di rischio e di progressione specifici di questa nuova entità nosografica.

Disporre di dati epidemiologici aggiornati che fotografino lo stato attuale della complicanza renale sul territorio nazio- nale é di fondamentale importanza al fine di adeguare le procedure di screening, diagnosi, stadiazione e trattamento ad una realtà in continua evoluzione. Di recente, il Renal Insufficiency And Cardiovascular Events (RIACE) Italian Multicenter Study, uno studio osservazionale, prospettico, di coorte sull’eGFR come predittore indipendente di morbilità e mortalità CV ed outcome renale, ha raccolto negli anni 2007-2008 i dati di 15.773 pazienti con diabete di tipo 2 (età 66.0±10.3 anni, dura- ta di malattia 13.2±10.2 anni, rapporto maschi/femmine di 57/43) afferenti consecutivamente a 19 centri diabetologici universitari o ospedalieri (4). Ciò ha consentito di ottenere un quadro aggiornato della nefropatia diabetica in Italia e di effettuare confronti con casistiche precedentemente raccolte sia nazionali che internazionali.

ALBUMINURIA

Studi osservazionali condotti in Italia su soggetti con diabete tipo 2 riportano una prevalenza di micro/macroalbuminu- ria di circa il 27-34%. Nello studio RIACE, la prevalenza di normo, micro, e macro albuminuria era rispettivamente del 73.1%, 22.2%, e 4.7% (Figura 1A). Tra i soggetti con normo albuminuria, il 47.8% aveva livelli di albuminuria compresi nel range 10-29 mg/die (cosiddetta “low albuminuria”) e il 52.2% al di sotto di 10 mg/die (cosiddetta “normal albuminuria”) (5). La prevalenza della microalbuminuria nella coorte del RIACE era sovrapponibile a quella dello studio Diabetes and Informatics (DAI) (6) e dello studio Qualità della cura ed Esiti nel Diabete di tipo 2 (QuED) (7), ma inferiore a quella osservata nello

studio di Casale Monferrato, che risale agli anni ’90, (8) a conferma di un trend verso un decremento della prevalenza di microalbuminuria nel tempo. La prevalenza della macroalbuminuria era anch’essa inferiore a quella osservata nello studio di Casale Monferrato, ma paragonabile a quella del sottogruppo diabetico del Third National Health and Nutrition Exa- mination Survey (NHANES III) (9) e di poco inferiore a quella osservata nello studio National Evaluation of the Frequency of Renal Impairment cOexisting with NIDDM (NEFRON) (10). Percentuali più elevate di micro/macroalbuminurici (36%) sono state re- centemente riportate dagli Annali AMD su una coorte di 120.903 di pazienti diabetici di tipo 2 afferenti a 236 Ambulatori di Diabetologia sparsi sul territorio nazionale (11).

Sempre i dati del RIACE, riguardanti 11.959 pazienti rivalutati dopo un follow-up di circa 4 anni, hanno mostrato che i normoalbuminurici scendevano da 8,892 (74.4%) a 8,612 (72.0%), i microalbuminurici salivano da 2,567 (21.5%) a 2,738 (22.9%) e i macroalbuminurici passavano da 498 (4.2%) a 607 (5.08%). Tuttavia, tra i microalbuminurici, circa la metà rimaneva tale, mentre il resto progrediva o regrediva e, tra i e macroalbuminurici, sempre la metà rimaneva tale, ma il resto diventava micro o addirittura normoalbuminurico, a conferma del fatto che l’albuminuria non evolve necessaria- mente in una sola direzione.

Sebbene tutte le linee guida internazionali, inclusi gli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito (12), raccomandi- no di eseguire annualmente lo screening per la microalbuminuria nei pazienti con diabete di tipo 1 dopo 5 anni di malattia ed in tutti i pazienti con diabete di tipo 2, l’attenzione del medico per questo importante parametro di rischio non solo di nefropatia, ma anche di malattia CV, appare ancora insufficiente. Infatti, i dati degli Annali AMD riportano che la determinazione dell’escrezione urinaria di albumina a scopo di screening viene eseguita annualmente solo nel 41.3% dei pazienti diabetici (13). Inoltre, l’Osservatorio ARNO, che nasce da una collaborazione tra il CINECA e i servizi farmaceu- tici di 30 ASL sparse su tutto il territorio nazionale, ha evidenziato nel suo Rapporto 2015 (riferito all’anno 2014) che il

Figura 1 X Prevalenza delle categorie di albuminuria (A) e di eGFR (B) e degli stadi di CKD (C) nella coorte di pazienti italiani con diabete di tipo 2 dello studio RIACE [modificato da 5].

N E F RO PAT I A E A S S I S T E N Z A A L D I A B E T I C O

dosaggio della microalbuminuria era stato eseguito almeno una volta soltanto nel 31% degli oltre 500.000 pazienti dia- betici analizzati (13). Le linee guida raccomandano, peraltro, di eseguire almeno 3 dosaggi di albuminuria nell’arco di 3-6 mesi e indicano che almeno 2 di questi debbano risultare positivi per poter considerare il paziente come micro albu- minurico. Queste raccomandazioni, che peraltro sono per lo più basate sull’opinione di esperti, sono ancor più disattese nella pratica clinica, per la difficoltà di eseguire determinazioni multiple dell’albuminuria. Tuttavia, lo studio RIACE ha dimostrato che, nonostante l’elevato coefficiente di variazione, la performance di un singolo dosaggio nel predire lo stadio di albuminuria è superiore all’80%, a suggerire che misurazioni multiple potrebbero non essere necessarie per stadiare i pazienti in ambito sia clinico sia epidemiologico (4).

Va infine sottolineato che, nonostante la provata efficacia dei farmaci che bloccano il RAS nel ridurre/stabilizzare la micro/macroalbuminuria e l’indicazione concorde di tutte le linee guida, inclusi gli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito (12), nel raccomandarne l’utilizzo, i dati degli Annali AMD riportano che circa un terzo dei pazienti con diabete e micro/macroalbuminuria non è in trattamento con un farmaco attivo sul RAS (13).

RIDUZIONE DELL’EGFR

Nello studio RIACE (5), la prevalenza delle classi di eGFR 1, 2, 3, e 4-5, calcolata secondo l’equazione dello studio MDRD, era rispettivamente del 29.6%, 51.7%, 17.1% e 1.6% (Figura 1B). Combinando i valori di albuminuria ed eGFR, secondo la classificazione NKF/KDOQI, il 62.5% dei pazienti non aveva CKD, mentre il 6.8%, 12.0%, 17.1% e 1.6% aveva una CKD in stadio 1, 2, 3, e 4-5, rispettivamente (Figura 1C). La prevalenza complessiva degli stadi 3-5 di CKD scendeva dal 18.8% al 17.2% se il GFR veniva stimato con la formula della CKD-EPI anziché con quella dello studio MDRD. Sebbene la quota di pazienti in stadio 4-5 di CKD nello studio RIACE fosse relativamente modesta, il quadro è probabilmente destinato a peggiorare. Infatti, un recente studio ha stimato per il periodo 2012-2025 un aumento annuale del 3.2% della prevalenza di CKD stadio 5 nei paesi europei, inclusa l’Italia (15).

Come atteso, la prevalenza di albuminuria e retinopatia aumentava al ridursi dell’eGFR. Tuttavia, tra i pazienti con eGFR ridotto (<60 mL/min/1.73m2), ben il 56.6% non aveva albuminuria e il 43.2% non aveva né albuminuria né retinopa-

tia, tanto che solo il 30% dei soggetti con CKD aveva la retinopatia e solo il 15% aveva una retinopatia avanzata (4). Questo dato conferma l’esistenza di una nefropatia diabetica non albuminurica ed evidenzia come, a livello nazionale, questo fenomeno sia rilevante tra i soggetti con diabete di tipo 2, soprattutto di sesso femminile. Analogamente, il follow-up dello UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) (16) e gli studi NEFRON-11 (17) e Action in Diabetes and Vascular disease: preterAx and diamicroN-MR Controlled Evaluation (ADVANCE) (18) hanno riportato che più della metà (rispettivamente 51%, 55% e 62%) dei soggetti con eGFR ridotto aveva valori normali di escrezione renale di albumina. Percentuali lievemente inferiori sono state riportate nella coorte di 120.903 pazienti diabetici di tipo 2 degli Annali AMD in cui il 23.5% dei pazienti aveva un ridotto eGFR e di questi il 48% aveva normali valori di albuminuria (11). Una perdita di GFR indicativa di danno renale in assenza di albuminuria, è stata dimostrata anche in una significativa percentuale di soggetti con diabete di tipo 1 nel Diabetes Control and Complications Trial/Epidemiology of Diabetes Interventions and Complications (DCCT/EDIC) (19).

È probabile che l’incremento nel tempo della prevalenza della CKD non albuminurica sia da attribuire ai cambiamenti nel frattempo intervenuti nella terapia della nefropatia diabetica. In particolare, si è assistito ad un uso crescente di farmaci bloccanti il RAS, che, come è noto, sono molto più efficaci nel ridurre l’albuminuria che il declino del GFR, per lo meno nel breve periodo. Nello studio RIACE, il 70.7% dei pazienti era in terapia anti-ipertensiva e il 58.8% assumeva bloccanti del RAS. È quindi possibile che una parte dei pazienti normoalbuminurici con eGFR ridotto abbiano presentato in precedenza livelli elevati di albuminuria, successivamente regrediti grazie al trattamento con inibitori dell’enzima di conversione o con sartani. Sebbene questa ipotesi sia plausibile, nello studio RIACE (5), la percentuale dei soggetti in trattamento con questi farmaci era maggiore nei pazienti albuminurici che in quelli non albuminurici con CKD, per quanto questo possa rappresentare un effetto di indicazione. Più in generale, è possibile che un miglior controllo dei fattori di progressione del danno renale, sulla scorta dei risultati degli studi di intervento intensivo, abbia prodotto dei cambiamenti nella prevalenza delle diverse forme anatomiche che sottintendono la nefropatia diabetica nel diabete di tipo 2, con preponderanza della macroangiopatia rispetto alla microangiopatia. Ciò è in linea con il fatto che, nello studio RIACE, i livelli di HbA1c e la prevalenza di retinopatia correlassero in maniera indipendente con la forma albumi-

nurica, ma non o in misura minore, rispettivamente, con quella non albuminurica di CKD.

In considerazione della elevata prevalenza di nefropatia diabetica non albuminurica nei pazienti diabetici di tipo 2 in Italia, è di fondamentale importanza stimare l’eGFR, usando una formula basata sulla creatininemia, in tutti i pazienti diabetici a prescindere dai livelli di albuminuria, come raccomandato dagli Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito. Nonostante ciò, il rapporto 2015 dell’Osservatorio ARNO ha rivelato che, nel 2014, il dosaggio della creatinine- mia era stato eseguito solo nel 63% degli oltre 500.000 pazienti diabetici studiati (14).

NEFROPATIA DIABETICA E MALATTIA CARDIOVASCOLARE

Riguardo alla relazione tra CKD e malattia CV, lo studio RIACE (20) ha evidenziato un’associazione indipendente degli eventi cardiovascolari con il solo eGFR ridotto (CKD di stadio >3 non albuminurica); tale associazione era maggiore ri- spetto a quella con la sola albuminuria (CKD di stadio 1-2), e minore rispetto a quella con entrambe le alterazioni (CKD di stadio >3 albuminurica), a indicare un rischio CV significativo associato al fenotipo clinico non albuminurico (Figura 2). Peraltro, è interessante notare come la riclassificazione dei pazienti diabetici mediante l’equazione CKD-EPI rispetto alla formula dello studio MDRD abbia portato ad una migliore definizione del rischio CV associato alla CKD in questi sog- getti, in quanto gli individui che passavano dallo stadio 3 allo stadio 2 oppure 0 (eGFR >60 mL/min/1,73 m2, con o senza

albuminuria, rispettivamente) avevano un rischio più basso e quelli che passavano dallo stadio 3 allo stadio 4 (eGFR <30 mL/min/1,73 m2) avevano un rischio più alto, rispettivamente, dei soggetti che risultavano in stadio 3 con entrambe le

formule (eGFR 30-59 mL/min/1,73 m2) (4).

Inoltre, gli eventi cardiovascolari sono risultati significativamente associati con la CKD di stadio >3 e con la micro o la macroalbuminuria, ma non con l’eGFR “subnormale” (60-89 mL/min/1,73 m2) o la cosiddetta “low albuminuria” (10-29

mg/die), sebbene la soglia sia risultata essere a valori di eGFR (eGFR <78 mL/min/1,73 m2) e albuminuria (>10.5 mg/die)

compresi in questi range (20). Questi risultati sono in accordo con i dati della coorte del NHANES III, che mostrano come

Figura 2 X Prevalenza di eventi cardiovascolari acuti maggiori in base al fenotipo di CKD nella coorte di pazienti italiani con diabete di tipo 2 dello studio RIACE [modificato da 5].

N E F RO PAT I A E A S S I S T E N Z A A L D I A B E T I C O

sia l’incremento dell’albuminuria che la riduzione dell’eGFR siano associati con un aumentato rischio di malattia CV e con la mortalità in generale (21). Una recente meta-analisi ha confermato che sia l’albuminuria sia l’eGFR <60 mL/ min/1,73 m2 sono predittori indipendenti di mortalità, indicando, inoltre, che queste due anomalie esercitano un effetto

moltiplicativo sul rischio di morte, senza evidenza di interazione (22). Nello studio Casale di Monferrato gli individui con un ridotto eGFR e senza albuminuria avevano un rischio di malattia CV minore rispetto ai soggetti albuminurici con eGFR conservato (23). Tuttavia, i pazienti con diabete di tipo 2 ed una modesta riduzione del GFR (45-89 ml/min/1.73m2)

mostravano un aumento della mortalità CV dopo 6 anni di follow-up che risultava indipendente dalla albuminuria (24). Infine, l’analisi combinata degli studi prospettici “Gargano Mortality Study’’ e ‘‘Foggia Mortality Study”, su un totale di 1.758 pazienti diabetici di tipo 2, ha confermato un più elevato rischio di mortalità nei pazienti con eGFR ridotto, albu- minurici e non (25).

Nello studio RIACE (20), gli eventi coronarici sono risultati associati in maniera predominante con l’eGFR ridotto, men- tre gli eventi cerebrovascolari e gli eventi periferici mostravano una più significativa associazione con i fenotipi albu- minurici di CKD, a indicare che la relazione tra disfunzione renale e malattia CV presenta una specificità di distretto vascolare. In particolare, la stretta relazione tra eventi coronarici ed eGFR ridotto, in un’analisi trasversale quale è lo studio RIACE, può anche riflettere la natura bidirezionale delle interazioni tra cuore e rene nel contesto della sindrome cardiorenale, per cui una disfunzione cardiaca può causare un progressivo deterioramento dell’eGFR, oltre che, ovvia- mente, una disfunzione renale favorire l’aterosclerosi coronarica. Quest’ultimo scenario è in accordo con l’ipotesi che il fenotipo non albuminurico sottenda un quadro più macroangiopatico che microangiopatico ed anche con il ruolo della disfunzione renale nel promuovere la calcificazione vascolare.

Infine, sempre nello studio RIACE (26), l’ipertensione resistente, definita come valori pressori non a target (>130/80 mmHg) con 3 agenti anti-ipertensivi è stata riscontrata in 2.363 individui, ovvero il 15% dell’intera coorte, il 17.4% dei pazienti ipertesi e il 21.2% di quelli in trattamento.

ESRD

I dati del Registro Italiano di Dialisi e Trapianto (27) riferiti all’anno 2013 e precedenti dimostrano che, dopo una flessione nel periodo 2005-2008, si è osservato un nuovo incremento di incidenza di ESRD a livello nazionale probabilmente per effetto dell’aumento di alcune delle cause principali di CKD/ESRD, tra cui il diabete. Il tasso di incidenza della ESRD in Italia (160 per milione di popolazione, pmp) è, peraltro, inferiore a quello di altri paesi occidentali. L’incidenza varia fra le regioni d’Italia da un minimo di 130 pmp in Alto Adige ad un massimo di 213 pmp in Sicilia. La fascia d’età maggior- mente colpita è quella oltre i 70 anni.

I dati del Registro Italiano di Dialisi e Trapianto (27) riferiti all’anno 2010 mostrano come tra le cause primarie di ESRD incidente in Italia, il diabete sia la terza (20.08%, con un picco tra i 60 e i 69 anni) dopo le patologie vascolari (21.6%) e le cause ignote (24.93%) che nel nostro paese sono ancora indicate in un’elevata percentuale di casi e probabilmente com- prendono una quota elevata di pazienti diabetici, soprattutto di tipo 2, nei quali è più difficile attribuire il danno renale al diabete piuttosto che alla coesistente ipertensione. Inoltre, il contributo del diabete alla ESRD in Italia è in aumento e la percentuale di pazienti con nefropatia diabetica o con diabete come co-morbilità che hanno iniziato un trattamento dialitico per ESRD è cresciuta dal 19% nel 1999 al 27% nel 2009. I dati del Registro indicano, pertanto, che l’Italia si sta progressivamente allineando ad altri paesi dove il diabete è già da anni la prima causa di ERSD (27).

In Italia, circa l’86% dei pazienti con ESRD viene trattato con emodialisi e solo il restante 14% con dialisi peritoneale. Il trapianto di rene viene effettuato soprattutto nei pazienti tra 25 e 44 anni e tra 45 e 64 anni, mentre non viene impiegato nei soggetti con età <25 o >75 anni di età. Nei diabetici, l’emodialisi rimane l’opzione preferita, ma si riscontra un mag-

Nel documento Consulenza genetica e diabete (pagine 194-200)