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Talk show e arte

Nel documento Schermi di carta (pagine 131-136)

Siti ha partecipato come coautore al talk show condotto da Alda D'Eusanio Al posto tuo ribattezzato nel romanzo col titolo Se io fossi in te. L’autore muta il proprio punto di osservazione parlando del talk show dall’interno come «uno che si sente coinvolto nel male che descrive»105.

La collaborazione televisiva garantisce a Walter cospicue entrate finanziarie, ma il conto da pagare è la riduzione dell’arte «a un artigianato che ha per obiettivo il degrado dell’ispirazione stessa» [TP 982].

Certe volte, mentre sto per mettermi al computer e confezionare una storia, mi assale lo scoramento e preferirei sbattere la testa contro il muro. Sto distruggendo con le mie mani quel che ho di più caro al mondo: l’arte, quella vera – quella in cui si entra come in religione. [TP 981]

Il ruolo di autore televisivo crea in Walter una spaccatura con se stesso e con la sua arte, un cortocircuito che cerca di ricollegare confrontando la scrittura letteraria con quella televisiva.

Il talk show, e il reality, fanno con l’arte narrativa qualcosa di più e di qualitativamente diverso che “sfruttarla”, come invece fanno gli altri generi televisivi

104 PANARARI 2013, p. 247. 105 SITI 2005, p. 73.

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che comunque alla letteratura si richiamano, come i programmi culturali sui libri o i romanzi sceneggiati. Che cosa fanno, dunque? Per prima cosa, la fanno entrare in corto circuito con la vita reale; questa è stata da sempre, d’accordo, l’ambizione dell’arte realistica, narrativa o figurativa che fosse: sembrare vero, apparire spontaneo. Ma nell’opera d’arte il paradosso logico (fingi di non essere finto) crea uno spazio magico e alternativo, l’illusione di un mondo naturale dove tutto è calcolato e coerente, e in cui anche i significati più trasgressivi e inaccettabili appaiono per un attimo ammissibili. [TP 891]

Il programma televisivo svela le proprie contraddizioni nel porsi in confronto con l’arte: il talk show non fornisce alla realtà una «chance inaspettata», ma solo realtà drogate e fittizie che si afflosciano su loro stesse per mancanza di una coerenza interna che le sostenga. L’arte, invece, cerca di creare un cortocircuito con la realtà fornendole una potenzialità che va al di là del saccheggio, in quest’ottica le finzioni letterarie e artistiche sono un mezzo per amplificare l’impatto e la potenza espressiva del reale. L’arte non cerca di confondere i piani, non cerca di occultare le modificazioni che opera sulla materia inerte della realtà perché è proprio nella riconoscibilità della finzione che la potenzialità del reale viene fatta deflagrare. Il talk show invece opera dei cambiamenti non svelandone la modifica, anzi occultandola sapientemente perché non siano riconoscibili e si confondano in un miscuglio indistinguibile che possa essere spacciato per realtà. La comunicazione televisiva si ritrova davvero a essere il «contrario della verità» proprio per questa sua volontà di occultamento dell’intervento autoriale, ma del resto in tv non è importante la verità, ma l’emotività che la narrazione riesce a smuovere negli spettatori.

Siti nota però come la realtà alla fine si prenda la propria rivincita e faccia valere i propri diritti riemergendo tra le pieghe delle contraddizioni narrative in cui il talk show cade:

Nel talk invece, e nel reality, la realtà-realtà fa valere tutti i propri diritti di interdizione e di inibizione: chiede ai protagonisti (o “ospiti”, gente comunque in carne e ossa) di “essere come tutti” ma contemporaneamente di fare audience, cioè di incarnare l’eccezione, il mostro che il pubblico vuole vedere. Naturalmente nessuno ci sta a fare la parte del mostro: se l’attore che interpreta Jago fosse responsabile in solido, tra amici e parenti, di quel che ha combinato sulla scena, certo non darebbe la liberatoria per andare in onda. «Di questo non vuole parlare» è il ritornello tipico delle schede che mi danno. I personaggi si sottraggono alla loro coerenza di personaggi: non vogliono sentire ragioni – per loro, quando tornano a casa, conta la vita non la bellezza. Stare a una spanna di distanza dall’empiria è condizione necessaria per poterla esprimere compiutamente. Nelle storie che racconto non c’è più differenza di potenziale: sono soltanto vita, senza le sorprese e le oltranze della vita. Vita castrata. L’ambivalenza, che è uno dei punti di forza

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dell’arte, se viene fatta indossare a una “persona vera” diventa spregevole ambiguità morale. [TP 981]

Gli ospiti del talk show si sottraggono all’eccezionalità dei loro personaggi televisivi riducendosi a personalità abbozzate. Il talk show si svela come un «magma intermedio»106 sospeso nelle proprie contraddizioni. Alla verità vengono aggiunte protesi autoriali che nascondono la propria artificialità rendendo indistricabile la separazione. Walter si rivela egli stesso un personaggio da talk show incapace di sottrarsi alle proprie contraddizioni perché sospeso nel magma intermedio tra finzione e realtà biografica.

Ogni autore del talk show ha potere anche sulle reazioni degli ospiti trasformati in personaggi di una storia che non conoscono.

Gli autori scrivono sulle lavagnette, a registrazione in corso, il sentimento che il personaggio deve provare («dàgli addosso», «bacialo», «indignati ed esci») – e non si rivolgono ad attori avvezzi a simulare ma a non-attori smarriti che non sanno più se quelle che provano sono le loro emozioni, dato che così indottrinate e sopra le righe non le riconoscono più. Il risultato è quello di emozioni prêt-à-porter, di sentimenti liofilizzati. [TP 982]

Il talk show, come già visto da Doninelli, si rivela ancora più fortemente in Troppi paradisi come la parodia di una tragedia, di uno spettacolo teatrale che si realizza grazie ai macchinisti dietro al palcoscenico. Una tragedia senza l’elemento tragico, senza una morale, e senza una catarsi.

5.15.1 Ospiti, autori e pubblico del talk show

Un’analisi a parte meritano sia gli ospiti sia gli autori dei talk show. I primi sono le creature mitologiche mezze vere e mezze finte che affollano i salotti della televisione, i secondi sono coloro che operano la mitologizzazione dei primi trasformandoli in ibridi più adatti ai diversi pubblici dei programmi. Gli ospiti sono la materia grezza da cui partono gli autori per creare i propri personaggi. Sono degli indossatori di «emozioni, o sentimenti, prêts à porter, che scoppiano non motivati e non motivati si esauriscono: sentimenti come oggetti di cui si esalta il valore di scambio, sentimenti-merce, da

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indossare»107 e di cui spogliarsi una volta terminata la registrazione della puntata. Il talk show produce una spersonalizzazione degli ospiti costretti a caricare le loro emozioni, a estremizzarle per rendersi più “televisionabili”. Gli autori analizzano lo share cercando di adattare al pubblico il taglio dei sentimenti da far indossare all’ospite-personaggio. Gli spettatori non cercano modelli nuovi e impegnativi, ma vogliono solo vedere confermate le proprie attese: per questo i personaggi dei talk show finiscono per assumere sempre tratti comuni e stereotipati.

Gli autori hanno una conoscenza molto superficiale degli ospiti. Il loro lavoro inizia dalla lettura da una scheda riassuntiva fornita dagli addetti al casting in cui sono riportati la biografia e gli interessi di ciascun partecipante. Da questa sintesi si avvia la rielaborazione dei volti del talk show. Ed è proprio questo il lavoro di Walter.

Esempi tratti dalle prime schede. Una folla di decerebrati: gente che considera l’amore una delle tante prestazioni in cui mostrarsi efficienti, intercambiabile come un optional; l’immagine di sé che arriva agli altri come unico obiettivo della vita; probabilmente realisti, se la realtà fosse soltanto un concorso. Stereotipi asfissianti che si annidano o nei soggetti schedati (i casting sono fatti per lo più in discoteca, e forse raschiano lo strato più irreale della popolazione: d’altra parte al miserabile compenso di centocinquanta euro nessuno verrebbe a sputtanarsi se non quelli che hanno già venduto l’anima a un quarto d’ora di notorietà), o nel colloquio coi redattori (via cellulare, con l’assillo di fare buona impressione tramite frasi a effetto, autoconsolatorie e lette da qualche parte, a scapito di una personale eventuale intelligenza), o nella cultura deforme dei redattori stessi (laureati che non ce l’hanno fatta ad avere un posto in dipartimento, praticoni invidiosi e lettori di «Repubblica», rassegnati a trasformare la frustrazione in superiorità e in disprezzo del proprio lavoro). [TP 967-968]

Gli ospiti, nel tentativo di compiacere i selezionatori, snaturano se stessi prima ancora che lo facciano le penne degli autori. I partecipanti tentano di rendersi più “televisivi” fingendo o esasperando tratti reali come accenti, tic, atteggiamenti. Essi tentano di adattarsi alle attese di autori e pubblico trasformandosi da soli in stereotipi, in maschere senza personalità.

L’insoddisfazione degli autori e l’approssimazione che mettono nel loro lavoro deriva, secondo Walter, dalla consapevolezza di fare un mestiere che mortifica e frustra le loro capacità riducendoli ad artigiani della narrazione.

Ciò non toglie che quando entro nella stanza dei briefing, a vedere quelle biondezze rosate, quegli eccessi di trucco, quelle camicie aperte e quei toppini esibiti, mi prenda

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una pena verticale – temono di non andar bene per la tivù, ostentano le inflessioni dialettali con un troppo di disinvoltura. Lasciano che la loro vita venga fatta a pezzi, rovesciata come un calzino, involgarita dagli autori che usano il verbo «trombare» come un’audacia spiritosa («a lui gli hai raccontato che eri al congresso, invece sei andata a trovare il bagnino e te lo sei trombato»), o che dicono cose come «venti centimetri di cazzo, scusate il francesismo». Bisogna anche capirli, gli autori: hanno cinquant’anni e si considerano dei falliti ma nella stanza dei briefing esercitano sadicamente il potere, nello sforzo di dimostrare a se stessi che le vite che in quel momento stanno manipolando sono ancora più merdose delle loro. I “protagonisti” (qualcuno li chiama “concorrenti”, qualcuno “ospiti”) hanno periodicamente degli attacchi isterici, si concentrano su minuzie e le difendono con irrazionale ferocia; minacciano denunce ma si spaventano alla prima urlata di un qualunque elettricista. Negli specchi del trucco appaiono come in trance, annichiliti dal dubbio che l’oscena recita che stanno perpetrando sia in realtà uno dei punti alti del loro profilo esistenziale: una delle cose che ricorderanno, una delle poche forme che saranno loro concesse. [TP 968-969]

Con la mutazione del punto di vista di Walter muta anche l’immagine della televisione. Essa non si presenta più come una macchina seducente, ma come una fabbrica, un luogo di produzione in cui le zone d’ombra risultano maggiormente scure proprio perché in contrasto con le luci dei riflettori. I ritmi di lavoro sono sostenuti, prevale la necessità egoistica di preservare il proprio posto anche a costo di scavalcare gli altri. Il fascino della «scatola magica» si dissolve nella realtà del sistema produttivo.

Patita da dentro, la fabbrica televisiva è molto diversa da come appariva nei pettegolezzi e nei cazzeggi durante le cene; lì si evidenziavano gli aspetti pittoreschi o disgustosi, aneddotici comunque, in stile “vivace” – il meraviglioso, o mostruoso, contemporaneo raccontato da chi non rinuncia a magnificare il proprio ruolo. Qui, nei corridoi, prevale il grigiore burocratico, l’attenzione a non sforare sugli orari di lavoro o sulle competenze da contratto, brandelli di storie appesi come in macelleria; la competizione sordida tra pari livello a colpi di leccaculismo standard, la prontezza nel chiamarsi fuori alla prima seria gatta da pelare, questo non toccava a me non sono io che devo decidere; tutti pensano a come galleggiare per confermare l’ingaggio. [TP 970]

Il talk show (e la televisione in generale) si rivela come un prodotto industriale altamente lavorato. Il pubblico non vede questa trasformazione e presume che la narrazione televisiva sia genuina. È attraverso questa illusione di realtà che la televisione diviene un modello comportamentale a cui gli spettatori si uniformano.

In televisione la realtà è tutta in posa, tutta “immagine”, pur senza essere opera d’arte. Gli spettatori che si appassionano ai talks e ai realities si abituano a credere

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che le reazioni e le emozioni di quelle “persone vere” che stanno sullo schermo siano i modelli a cui conformarsi. Salvo che quelle “persone vere” si sono conformate a loro volta ha una “forma estetica” che non riesce ad essere arte ma è soltanto vita depotenziata. Quindi non è la vita che imita l’arte, ma la vita che imita il depotenziamento di se stessa. Così funziona la “post-realtà”.108

In tv gli spettatori non cercano necessariamente la realtà, ma qualcosa che sembri reale. Per questo diventa fondamentale per i produttori televisivi confezionare programmi che non dichiarino esplicitamente la propria finzione. Gli spettatori vogliono continuare a illudersi che esista una vita migliore (o peggiore) della propria, che ci sia la possibilità di una fuga (anche solo immaginativa) da una realtà profondamente insoddisfacente. Quello che ciascuno spettatore cerca è la possibilità di un’alternativa, per questo parole come “arte”, “verità”, “realtà” suonano al suo orecchio come gusci vuoti, come sintagmi privi di significato. L’unica realtà che cerca ciascuno è una vita che vada al di là della propria, uno spazio in cui riversare e alleviare la frustrazione per le proprie reali mancanze.

Anche il narratore cerca un’alternativa e la trova in Marcello. L’ironia di Siti emerge nel momento in cui Walter compra un corpo irreale pagandolo con soldi guadagnati scrivendo storie altrettanto irreali.

Sto svilendo e infangando l’unica cosa che mi dia una gioia non incrinata, la scrittura. Il destino è ironico: per continuare a vedere Marcello, che è la mia ispirazione, devo adattarmi a un artigianato che ha per obiettivo il degrado dell’ispirazione stessa. Storditamente ma fatalmente sono andato a guadagnarmi i soldi che mi servono proprio nella centrale operativa in cui si elabora l’irrealtà. Che cosa c’è di più irreale, d’altra parte, del corpo di Marcello scolpito dai testosteronici e dai miraggi – quel corpo da cui tutto è partito? [TP 982]

Nel documento Schermi di carta (pagine 131-136)