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Il pastore del gregge mediatico

Nel documento Schermi di carta (pagine 121-125)

La televisione non è persuasiva solo in quanto principale e più potente voce delle promesse consumistiche occidentali, ma anche come promotrice di una virtuale aggregazione. Il medium regala ai suoi fruitori un profondo senso di appartenenza garantito dalla sua poderosa e capillare diffusione in tutti gli ambienti senza operare distinzioni aprioristiche. Questa consapevolezza sociale e culturale permette ai telespettatori di riconoscersi membri di un’unica comunità priva di barriere, nella quale anche la fruizione solitaria della tv trova una sua significazione. Tutti i membri di questa società condividono gli stessi valori e lo stesso immaginario finendo per avvicinarsi anche se distanti fisicamente, socialmente ed economicamente. La democraticità della televisione ne garantisce il successo permettendo a tutti gli spettatori di sentirsi come una piccola parte di un unico grande organismo collettivo.

Mi piace la televisione, anche come elettrodomestico; il fruscio di quando si accende e lo sfrigolio con cui si spegne dopo che è stata accesa parecchio. Come una cenere elettronica che si posa sullo schermo, o come un glande che appassisce dopo aver fatto il suo dovere. La guardo in media per cinque-sei ore al giorno; filtrati dalle pareti di questa casa scatolare, sento gli altri apparecchi funzionare oltre al mio: siamo una comunità, siamo in regola. [TP 691-692]

La televisione è vista come oggetto del piacere, come il mezzo privilegiato di una partecipazione che non lascia solo nessuno, ma non è solo questo: per Walter la tv è anche il modo più economico e sostenibile per supplire alle lacune emotive che si aprono nella sua vita. Il piccolo schermo diviene il centro di un’esistenza manchevole, il luogo in cui trovare emozioni surrogate ma sufficienti a ridare slancio e senso all’esistenza.

La televisione è il mio centro di calore, la distributrice di emozioni. Le situation comedy, soprattutto, sono la famiglia che avrei voluto avere; genitori spiritosi, molti figli, battute che riescono sempre e villette isolate col giardino. [TP 692]

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Il fascino del medium è nella sua alterità, nel suo essere uno spazio ulteriore di vita in cui ci si possa confrontare con un’esistenza più ordinata, anche se illusoria: «La televisione ci fornisce il “meraviglioso”, come i poemi cavallereschi lo fornivano agli ascoltatori del Quattrocento» [TP 693]. Ma all’illusorietà della tv si affianca la sua mancanza di unità che permette allo spettatore di trarne beneficio senza badare alla sua totalità. I dettagli minimi possono contribuire al piacere del telespettatore senza che vengano rapportati con il totale da cui sono stati estratti:

Il vantaggio della televisione è che, non presentandosi come un’opera ma come un mezzo, se ne può sempre estrapolare un particolare anche minimo e fare perno su quello, separandolo dal resto. [TP 693].

La televisione non solo sopperisce alle carenze di ciascuno, ma permette anche un controllo totale della sua fruizione: la programmazione è ininterrotta, i canali innumerevoli. Il telecomando diviene lo scettro attraverso cui ciascuno esercita il potere sulla propria minuscola porzione di universo, trovando conferma in uno spazio sicuro perché a ridotta interazione sociale. Il controllo che Walter sente di non avere sulle sue relazioni e sulle sue pulsioni trova una pacificazione nel mezzo televisivo, in una serie di relazioni surrogate, ma gestibili con la pressione di un tasto.

La cosa bella [della televisione] è che ti ci puoi attaccare per un po’ se l’orario è comodo, loro stanno sempre lì, ma puoi cambiare la tua affezione, abituarti a un’altra serie senza che nessuno si offenda o ti accusi di infedeltà. Sei libero, comandi i sentimenti invece che esserne comandato. Chi appare in televisione con regolarità, se ha una faccia appena appena gradevole diventa per forza un amico; gli annunciatori del telegiornale, per esempio, quando mi dicono buongiorno non posso fare a meno di salutarli di rimando, e se sto di buon umore gli faccio anche ehilà con la mano. [TP 692]

La dimensione sociale della fruizione televisiva è profondamente mutata dagli anni della sua introduzione nel nostro Paese: una vasta proliferazione di schermi ha invertito la tendenza orientandola a un consumo solitario che ha finito per avvicinarla sempre di più a un contesto masturbatorio. La televisione, proprio come la masturbazione, rimedia a una mancanza a un bisogno con un surrogato economico e a bassa responsabilità.

Ho notato che il fascino della televisione viene esaltato dalla solitudine; come per i film pornografici, basta essere in due (non amanti) e l’emozione si trasforma in imbarazzo o in riso. Scatta l’ironia, la battuta dissacrante. Ci si vergogna di proiettare impulsi libidici su

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Casa Vianello o su Alle falde del Kilimangiaro. Quando si è soli, invece, la masturbazione

televisiva consiste proprio nel miracolo di provare, liofilizzati, tutti i sentimenti – e come per la masturbazione sessuale, non funziona se non ammettendo un proprio stato di bisogno, di miseria e di profonda umiltà. Quanto più i programmi sono spazzatura, quindi, tanto meglio scatta il meccanismo. Si prova gratitudine per quella folla di amici che ti portano il mondo in casa. […]

La forza della tivù sta nella sua debolezza, nell’essere informe e nell’avere quindi relazioni più ingenue con l’inconscio. [TP 697]

La televisione contribuisce anche alla formazione e alla diffusione di una nuova cultura, una cultura condivisa ma approssimativa, caotica proprio come sono le informazioni fornite dal medium. La condivisione di uno stesso patrimonio culturale e nozionistico funge da ulteriore collante tra la comunità virtuale dei telespettatori, fornendo a ciascuno un’ulteriore ed economica sicurezza di gruppo.

5.11 «Inside and outside at the same time»

Siti descrive la televisione fornendo una doppia ottica che vede Walter prima posto all’esterno del medium in veste di semplice spettatore, e dopo all’interno come autore di un talk show. Nel romanzo di Covacich la narrazione era affrontata dal punto di vista della realizzazione televisiva relegando il ruolo di spettatore ai margini del testo; nel romanzo di Doninelli, al contrario, l’unico punto d’osservazione era quello di un telespettatore. Troppi paradisi si pone come ideale conclusione di questa analisi proprio per la bifocalità della propria osservazione.

Nella prima parte del romanzo Walter veste gli abiti dello spettatore, anche se da un punto di vista interno. È nel backstage di una trasmissione in prima serata della Rai che Walter entra in contatto con il mondo di chi la tv «la fa» conoscendo il giovane collaboratore televisivo Sergio e intrecciando una relazione con lui. Sergio fa parte della ricca schiera delle maestranze televisive, ed è proprio tramite questa relazione che il vecchio professore riesce ad avere i primi contatti diretti col mondo mediatico. In questa parte del libro Siti pone particolare attenzione alla descrizione del «gossip delle maestranze» notando come il pettegolezzo diventi un’arma che i collaboratori posti in fondo alla catena alimentare televisiva utilizzano per demitizzare e umanizzare i loro superiori. Per i giovani “televisionari” che ambiscono a trovare una stabilità nel mondo televisivo la maldicenza e il pettegolezzo diventano un modo per compensare la perdita di personalità che il lavoro nella tv generalista impone come requisito minimo di

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partecipazione. Bersagli preferiti di questo gossip dal basso sono solitamente i dirigenti che vengono così privati dell’alone di invulnerabilità garantito loro dalle insuperabili gerarchie interne.

La sera scende così, tra tofu fritto e maldicenze stantie: leggende metropolitane suffragate per confermare un’immaginaria superiorità sui superiori – come i dopolavoristi che spettegolano sulla segretaria del capufficio e intanto tremano alla conferma del contratto. [TP 746]

La finzione televisiva si muove anche dietro le quinte degli studi, nella parte non inquadrata dalle telecamere. In tv autori e realizzatori subiscono un sistematico avvilimento della propria personalità. I peccati di introspezione e di riflessione sono banditi dalla realizzazione televisiva perché il loro emergere rischierebbe di compromettere le qualità generaliste del prodotto finale.

Vista da sotto, dalla parte degli “operatori del settore”, la vita che si svolge per e intorno alla televisione è un’abiura continua, pronunciata con uno sconforto che si trincera dietro il cinismo. Il segreto, per offrire al pubblico un surrogato inoffensivo della realtà, è usare uno strumento collettivo di comunicazione per eludere le vere domande che ci strazierebbero individualmente. Ogni trasmissione è il minimo comun denominatore di ciò che lo staff di quella trasmissione può esprimere senza traumi, il luogo geometrico delle linee su cui ciascuno rinuncia alle proprie crisi. Per questo è così importante il team, il gruppo di lavoro: il gruppo controlla, con cieco automatismo, che nessuno dei componenti si lasci andare al peccato di introspezione (quello semmai la sera, a trasmissione finita, rollandosi una canna), che a nessuno venga in mente di conoscere se stesso. Tutti in adorazione del Cliché, del Sondaggio generalista che toglie dagli imbarazzi, gonfia il portafoglio e risana da ogni male. In questo senso, la comunicazione è sul serio il contrario della verità. [TP 746-747]

La personalità dei membri dello staff del programma finirebbe per inquinare lo show portando il pubblico a porsi domande, a riflettere su se stesso e sulla realtà, mentre quello che cerca di produrre la televisione nei suoi fruitori è un ottundimento, un torpore intellettivo che faciliti i due fini principali (se non addirittura gli unici) della televisione: lo share e la pubblicità. Agli spettatori viene fornito un «surrogato inoffensivo della realtà» che faciliti l’intrusione sia politica, sia commerciale e che sfrutti gli spettatori e la loro collettività capace di scegliere e comprare.

La comunicazione televisivo si conferma come vuota ecolalia. Un fiume di parole che non veicolano alcun messaggio di verità.

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