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Un padre molto triste

Nel documento Schermi di carta (pagine 53-58)

Il Talk show sfrutta la «gente comune» per produrre uno spettacolo che ha per pubblico privilegiato quella stessa gente comune di cui si illustrano le storie.

La televisione generalista è fatta soprattutto dalla gente comune e si rivolge primariamente alle fasce più deboli della popolazione. La trash tv cerca di trasferire in video storie di persone comuni, facendole uscire dall’anonimato in cui tirano avanti, portandole alla ribalta e facendole esplodere. Ovviamente non lo fa – come qualche trasmissione prova a farci credere – per senso filantropico. Lo fa invece perché anche la gente comune ha diritto di apparire: nel mondo moderno nulla esiste se non viene sancito dai media. Si realizza così una funzione di terapia dell’escluso: sia pure in modi discutibili (la gente comune, per essere riconosciuta come “autentica”, si sdoppia in un ectoplasma televisivo, completamente assoggettata alle dure regole imposte dai professionisti del video), anche il poveraccio ha diritto di mostrarsi, di dire la sua, di segnalare la sua esistenza. La televisione generalista è così passata dall’universo simbolico del consumo intellettuale all’universo concreto del consumo materiale. Oggi la produzione televisiva è culturalmente bassa perché è basso e periferico il suo pubblico.58

Il segmento centrale costituisce il cuore emozionale del programma e quindi il segmento in cui si concentrano di più le aspettative del pubblico e del Conduttore. Doninelli sceglie di narrare la storia di un padre, di un «disgraziato che aveva perso il figlio» [TS 67] in un incidente domestico: il bambino per imitare gli eroi dei suoi cartoni animati preferiti si era impiccato per sbaglio alle tende di casa. Il Conduttore si spoglia della maschera di aguzzino per metterne una più umana e comprensiva. Il pubblico ripone sotto la poltrona i forconi della condanna e si predispone all’ascolto commuovente della storia di questo padre triste.

Il racconto di questo genitore fa leva su una necessità che il talk show ha creato nei suoi ospiti: la necessità di confessarsi in pubblico:

Anche i personaggi più schivi sono disposti (o costretti dall’abilità del conduttore) a mettere a nudo i propri stati d’animo. La “messa in discorso” di ogni problema diventa una delle principali strategie di controllo del sociale e insieme di sottile sabotaggio delle certezze e delle impalcature ideologiche che ci attorniano. Inizia

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così una sorta di dominio della parola sulla cosa, un indefinito propagarsi della voce sull’immagine. 59

Il talk show segue una rigida separazione delle emozioni in segmenti stagni che non si sovrappongono. Il programma cerca di fornire ai suoi spettatori un ampio spettro di emozioni che oscilli da quelle positive e quelle negative seguendo una ferrea scaletta preimpostata. Tra un segmento emotivo e l’altro si pone una zona cuscinetto che permette un passaggio più fluido tra i blocchi separati: «Il chiacchiericcio durò ancora qualche minuto. […] Questa parte dello spettacolo serviva solo come intermezzo tra il dialogo col ciclista e il pezzo forte della serata, che doveva venire di lì a poco» [TS 54]. La bravura del Conduttore si vede anche nella sua capacità di guidare morbidamente il suo pubblico attraverso questa ricca teoria di emozioni stridenti.

Il Conduttore si mostra molto sensibile e cauto nei confronti del padre triste non perché sia veramente coinvolto nella sua tragedia, ma per una ragione molto più pragmatica: egli vuole sottolineare la distanza che intercorre tra il suo programma e la stampa a caccia di scoop. I giornali e i telegiornali ogni volta che si verifica una tragedia agiscono con velocità per riuscire a fornire il maggior numero dei dettagli sull’evento. Al contrario, il talk show si pone a una certa distanza temporale, quando i giornali iniziano a dimenticare la tragedia la tv e il talk la riesumano e la trascinano in seconda serata perché il pubblico la consumi prima di andare a letto. Il Conduttore, però, ci tiene a prendere le distanze da certo sciacallaggio giornalistico, infatti lui e il suo pubblico vogliono andare più in profondità, loro vogliono capire le ragioni che hanno prodotto la tragedia. In questa volontà falsa e falsamente umanitaria del Conduttore si insinua l’ironia di Doninelli che ce ne mostra la feroce ipocrisia:

«Vi hanno lasciato in pace, almeno?».

Senza aspettare la nuova risposta, si rivolse al pubblico e alla telecamera agitando una mano. Affermò che nel nostro paese giornalisti e televisioni (private e non, disse) avevano il brutto vizio di frugare nel dolore della gente credendo che ciò costituisse uno scoop. Che imparassero perciò a rispettare la privacy della gente: avrebbero imparato così a far meglio il proprio lavoro. Oltretutto – aggiunse – alla gente non gliene fregava nulla di questo genere di scoop. [TS 55]

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Doninelli mostra come questa presa di distanza del Conduttore da un certo tipo di giornalismo non sia altro che un’autoassoluzione il cui unico scopo è quello di giustificare sia agli occhi del pubblico sia a quelli delle vittime il saccheggio della privacy che si sta per consumare in diretta. Il Conduttore vuole trasmettere l’idea che l’intento del talk show è soltanto quello di dare un senso al dolore prodotto dalla tragedia, di umanizzarlo e di renderlo reale attraverso un’analisi e una comprensione complessive:

A lui, invece, non interessava lo scoop: la sua trasmissione non aveva come scopo quello di fare sensazione, ma solo quello di capire. «Noi siamo qui per capire», ripeteva spesso. Questa era la parola magica. Non appena si fanno le cose per capire, tutto si spiega: scompaiono violenza e arroganza dei mass media, scompare la maleducazione dei giornalisti, scompare l'invadenza delle telecamere... Forse per gli ospiti (che termine ironico, ospiti!) è la stessa cosa, forse no – non importa. Basta l'intenzione. Non è necessario che si capisca davvero, è sufficiente che le cose siano fatte per capire. [TS 55-56]

L’ironia e la lucidità dell’analisi di Doninelli mettono in luce il tentativo di sfruttamento del dolore e della sua rappresentazione in tv per aumentare gli ascolti e smuovere le passioni degli spettatori. La condanna del narratore non risparmia neanche le vittime: la loro presenza in tv trasforma la legittimità del loro dolore privato in una farsa, in una pantomima che svuota di senso anche la sofferenza. La realtà subisce un’ulteriore mortificazione: il dolore privato che diventa pubblico trasforma la tragedia in un evento televisivo privo di riscontro nel mondo reale. La tragedia diviene solo una rappresentazione, un altro spettacolo all’interno dello spettacolo del talk show.

«E la dura legge dello spettacolo».

Ed era proprio così. Come infatti ebbi modo di constatare dalle sue parole successive, anche per lui la morte del figlio si era trasformata, inavvertitamente, in un evento televisivo. Non era dunque esatto sostenere (come sostenevano in molti) che la televisione sfruttava il dolore come mezzo per fare, come si dice, audience. No: dolore e televisione erano ormai una sola cosa fin quasi dall’evento stesso, per cui non si poteva accusare la televisione di sciacallaggio, se non nel senso che tutti sono

sciacalli, a cominciare da chi è stato colpito in faccia dal dolore – in questo caso il

padre e la madre del bambino morto. [TS 56]

Il dolore e la televisione finiscono col coincidere se anche le vittime che sono gli unici detentori legittimi di quel dolore, gli unici che a esso devono rendere conto, finiscono col

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vendere al medium e al pubblico il ricordo della loro tragedia. La televisione diviene non solo testimone, ma lucratore di quel dolore. I genitori stessi vendono il cadavere del loro bambino al pasto collettivo del dolore, lasciando che si dilanino il ricordo e l’intimità della sofferenza. Il talk show priva le vittime della dimensione privata della sofferenza trasportandola in quella collettiva dove tutto è distribuito tra i partecipanti al banchetto emotivo che si allestisce. Il caso di Doninelli è esemplare perché il bambino diviene due volte vittima della televisione: una volta quando per imitarla si uccide e la seconda quando il suo corpo è offerto al pubblico come intrattenimento.

Doninelli si ricollega a un topos antitelevisivo molto discusso fin dagli esordi della tv commerciale: l’influenza del medium sui bambini. La colpevole principale di questa influenza è la neotelevisione perché, cercando di accaparrarsi sempre maggiori porzioni di pubblico, ha riempito i palinsesti televisivi di violenza e di sessualità esplicita. Anche i cartoni animati destinati al pubblico più giovane sono zeppi di violenza e Doninelli sceglie proprio la storia del bambino per fare leva su questo punto. Il più violento critico della violenza televisiva è stato Karl Popper:

Stiamo educando i nostri bambini alla violenza e che se non facciamo qualcosa la situazione necessariamente si deteriorerà perché le cose muovono sempre nella direzione della minor resistenza.60

In Talk show sono i genitori stessi che permettono all’invadenza della televisione di entrare nello spazio sacro dell’intimità per ottenere un’assoluzione popolare per le proprie mancanze genitoriali e per accusare tutti assieme un nemico esterno, un nemico comune: la televisione stessa, o meglio certa televisione.

Doninelli ci pone di fronte a quello che Grasso individua come il “talk show del dolore”, un sottogenere del talk che sfrutta storie strazianti per aumentare l’audience. Va sottolineato che il fine di questo tipo di narrazioni non si esaurisce nella logica commerciale degli ascolti, infatti il talk show del dolore sfrutta l’evento funesto per esorcizzare la paura degli spettatori dando ad essa un corpo. L’ospite viene assolto e sollevato dalle proprie responsabilità, il pubblico attua una catarsi che fa evaporare le sue paure e il presentatore aumenta il proprio potere ponendosi come un eroe salvifico.

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Il disoccupato, il senza tetto, il malato del quale non sono stati rispettati i diritti, la madre con il figlio tossicodipendente, il dramma dell'Aids, il dializzato sono grimaldelli attraverso i quali il talk show entra nella vita privata delle persone, scardina la nozione di dolore e lo rende spettacolo. Il cittadino comune che non è in grado di risolvere il suo problema vede nella televisione l'ultima àncora alla quale aggrapparsi; il talk show trasformando il problema in una narrazione allude a una conclusione. Siamo di fronte a una specie di terapia di gruppo: il fatto stesso di parlare, di liberarsi della propria angoscia permette al singolo (l'ospite) di stare meglio e alla collettività (il pubblico) di esorcizzare tale ansia. Il talk show man alla valenza di analista aggiunge il ruolo salvifico dell'eroe.61

3.9 «L’enfer, c’est les autres»

Doninelli sottolinea la contraddizione che si verifica nel momento in cui la televisione identifica il proprio nemico nella televisione stessa. Si crea un cortocircuito che passa inosservato a molti spettatori ma non allo scafato narratore che mostra quanto sia ridicolo vedere la televisione che condanna se stessa.

Intanto, il Conduttore si lasciava andare – forse anche per distendere il clima – a una filippica (assai consueta in televisione, disse mio padre) contro i danni provocati dalle molte immagini violente che passano sul video, senza nessun controllo. Da anni e anni il Conduttore e molti suoi colleghi parlavano di queste immagini che passavano sul video senza nessun controllo, e da anni e anni le immagini continuavano a passare sul video senza nessun controllo. Si può dire che non ci fosse conduttore televisivo che non sentisse l'obbligo morale di deprecare la violenza che continuava a scorrere sul video; si è mai visto un conduttore che dica: viva la violenza

in televisione? Mai, mai. Ciò nonostante, la violenza restava e i conduttori

continuavano a condurre, contenti di pensarla diversamente, ma anche contenti che le cose continuassero ad andare così. In questo modo infatti loro potevano dire «questa è l’Italia, si sa...», giustificandosi di fronte all’opinione pubblica (ossia ai telespettatori).

L’opinione pubblica infatti, lei sì non ne può più, ma forse bisogna che continui per

sempre a non poterne più – è l’unica eternità che possiamo permetterci – e perciò

bisogna che ci sia qualcuno che denuncia, denuncia, denuncia, e che tutto rimanga come prima in modo che la denuncia possa continuare... [TS 66-67]

Il ruolo che «il Conduttore e molti suoi colleghi» si sono ritagliati all’interno dei loro programmi è quello di osservatori e giudici della realtà televisiva. Il loro compito è quello di denunciare e sottoporre l’evidenza dei fatti alla giuria popolare ottenendo da essa

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appoggio e sostegno: non partecipano alla degenerazione che denunciano, anzi, ne prendono sistematicamente le distanze rafforzando ancora di più il loro ruolo di guida. Doninelli ci mostra quanto questo tipo di denuncia sia mossa dal presentatore solo per l’effetto sensazionalistico di cui si fa portatrice e non perché vi sia in essa il reale proposito di risolvere il problema. Il Conduttore non indica neanche i possibili responsabili della degenerazione dei costumi che egli denuncia, le sue sono semplici allusioni che non colpiscono nessuno perché nel denunciare fa appello a quella zona di ambiguità che Doninelli ci ha già mostrato. I responsabili sono agenti esterni che operano dall’alto in nome di interessi sconosciuti e inconoscibili. Gli spettatori non possono fare nulla per combattere questa subdola trasformazione, possono solo prenderne atto attraverso la denuncia del Conduttore. Le responsabilità sono da trovarsi in una categoria tanto vaga da essere onnicomprensiva: gli altri. Sono loro che riducono la televisione a un contenitore di sesso e violenza, sono loro che saccheggiano la privacy dei poveracci per aumentare gli ascolti, sono loro il nemico senza nome.

La colpa non è del pubblico che scegliendo programmi violenti ne favorisce la proliferazione, ma la colpa è di quelli che dall’alto controllano il medium televisivo. Il Conduttore ottiene da questo atteggiamento un vantaggio vistoso che gli permette di avere sia l’appoggio popolare sia l’esclusione di ogni sua responsabilità nel male denunciato.

Nel documento Schermi di carta (pagine 53-58)