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Il reality: occhio e telecamera

Nel documento Schermi di carta (pagine 128-131)

Nell’anno di pubblicazione di Troppi paradisi il reality ha raggiunto l’apice della propria fortuna inaugurata in Italia nel 2000 con la prima edizione del Grande Fratello.

Per Walter il Grande Fratello rappresenta non solo una rivoluzione mediatica, ma anche una rivoluzione culturale ed estetica. Il reality trasferisce sullo schermo una porzione di realtà che fino a quel momento era stata relegata a margine delle chiacchiere dei talk show, ma più in funzione mimetica ed espressiva che non come rappresentazione diretta del reale. Per la prima volta i desideri reali, gli imbarazzi, le reazioni spontanee di persone normali e comuni vengono mostrate in televisione senza filtri.

Walter segue la prima edizione del Grande Fratello, quella andata in onda su Canale 5 dal settembre al dicembre del 2000. La scelta di questa specifica edizione è significativa perché rappresentò una novità inedita nel panorama televisivo italiano: sia i concorrenti, sia gli spettatori si ritrovarono spiazzati da quello si presentava come un rivoluzionario esperimento sociale e antropologico. L’analisi del Grande Fratello è inserita nel capitolo intitolato Io sono l’Occidente perché più di ogni altro prodotto televisivo il reality incarna il desiderio di possesso e di consumo tipico dell’Occidente e del capitalismo maturo. La cattività cui sono sottoposti i concorrenti del reality non è altro che una prostituzione lecita, una volontaria sottomissione all’onnipresente sguardo dello spettatore. Occhio e telecamera coincidono fin dal logo del programma. Il dominio passa attraverso l’osservazione diretta riconfermando ulteriormente il potere televisivo di ridurre una realtà complessa in immagini facilmente fruibili.

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La trasmissione si basa su un doppio voyeurismo: 1) quello generico, bei ragazzi e belle ragazze che sono costretti a stare lì, sotto i tuoi occhi, ventiquattr’ore su ventiquattro, non se ne possono andare; se hai Stream li puoi spiare in qualunque momento, esci e quando torni li ritrovi, prostituti speciali, schiavi che il padrone (cioè tu) ha chiuso in gabbia; 2) quello specifico, il corpo e il sesso del tuo preferito o della tua preferita, da seguire in ogni gesto del giorno. […]

Così, ti sembra di possedere intera la loro vita, anzi, di possedere intera la vita; tra minuti di noia infernale, alcuni frammenti dotati di senso ti si consegnano nella loro verginità, più commovente di qualunque fiction. [TP 825-826]

La duplicità del voyeurismo del reality coincide con la duplicità del possesso: da un lato si vuole possedere e consumare i concorrenti ridotti a oggetto del piacere, dall’altro si vuole possedere per intero le loro vita. Il delirio dell’onnipotenza televisiva spinge ogni spettatore a desiderare di possedere la vita in generale, quella dei concorrenti e la propria. L’onnipotenza che regala la merce e il suo consumo è la stessa che regala il possesso indiretto della vita dei concorrenti dei reality ridotti a semplici prodotti industriali e a desideri liofilizzati. Ciascuno, col telecomando stretto in mano, può diventare il dio di un piccolo e obbediente universo.

5.14.1 I concorrenti del reality

Come ha fatto notare Covacich parlando di Habitat e come ha osservato lo stesso Siti parlando delle maestranze televisive, tra i concorrenti del Grande Fratello è bandita ogni forma di introspezione e qualsiasi attività che non sia volta a una comunicazione adatta al mezzo televisivo. Tutto deve essere comunicabile, gli schiavi del reality devono sempre produrre senso per il loro osservatore-dio anche nei momenti di inattività, e per questo il supporto visivo diviene fondamentale, tanto che nel corso delle successive edizioni del Grande Fratello il numero di telecamere poste nella casa è andato sempre più aumentando. Anche il voyeurismo dello spettatore è andato aumentando facendo crescere le ore di montato passate in chiaro ogni giorno.

Nella realizzazione e nella messa in onda del programma Siti osserva come siano importanti le selezioni dei partecipanti che devono essere sia comuni come la maggior parte degli spettatori per poter produrre la fondamentale immedesimazione, sia particolari per poter subire la trasformazione in un personaggio televisivo. Il dio del reality è lo spettatore ma non nella sua individualità quanto piuttosto nella sua dimensione collettiva,

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infatti l’analisi degli ascolti permette ai produttori e agli autori di trovare e stabilire le linee guida della realizzazione del programma e di sondare e prevedere i gusti del pubblico per poter adattare il prodotto ai loro desideri.

Gli strafighi e le strafighe alzano (pare) lo share; [...] quindi tutti giovani e belli, ma questo altera un bel po’ l’affidabilità della campionatura. Pensare e leggere non è spettacolare, meglio che i protagonisti cantino, ballino o si affatichino in qualche modo: ecco che nel format diventano essenziali le «prove» ludiche a cui i concorrenti devono sottoporsi, o le marchette di attori e popstar. La conversazione diventa lite, poi lotta nel fango.102

I concorrenti vengono scelti solo per questioni di share. La realtà dei reality è sottomessa alle esigenze dello show e della spettacolarizzazione del quotidiano.

Telecamere ovunque, di qui l’imbarazzo, ma avevano poco più di vent’anni e il desiderio di conoscersi era più forte. Non provenivano da imprese eccezionali o anomale, non si offrivano come bersaglio di scherzi crudeli, non erano simbolo di niente: vivevano lì e basta. La quotidianità pura, banale, tanto comune che non merita di essere raccontata […] Assistendo al primo bacio tra Taricone e Cristina, alle povere struggenti parole tra lei innamorata e lui vanesio, ebbi netto il senso di una rivoluzione: ore e ore di fiction impallidivano, confinate nel regno degli stereotipi, di fronte a quella secchiata di aderenza superficiale all’empirico (che non vuol dire, naturalmente, né sincerità né verità profonda). La televisione stava conquistando un nuovo territorio oltre a quelli dell’informazione e del sogno, ed era il territorio del voyeurismo – l’occhio al buco della serratura per spiare la realtà quando semplicemente accade, eterna e attualissima, monotona e spiazzante.103

Nel corso degli anni e con l’avvento della dinamica macchina organizzativa di programmi più dinamici come i talent show, il reality è andato sempre più perdendo terreno. Le ultime edizioni del Grande Fratello sono state poco seguite perché il trucco era stato inevitabilmente svelato. La realtà è andata sempre più riducendosi a un copione. Il reality si è trasformato nell’ultima spiaggia di un divismo a tempo determinato utile solo per qualche serata retribuita in discoteca o per lanciare la linea di un qualche prodotto di cui il mercato è già saturo.

Il divismo si proletarizza (o, meglio ancora, si sottoproletarizza), e si capisce, tutto sommato, anche il perché. In un paese dalla scarsissima mobilità, e dove l’ascensore si è fermato (o, se si preferisce, è stato arrestato) da parecchio, il comparire in tv si rivela, in seno a un diffuso e ormai radicatissimo immaginario collettivo, un cospicuo lasciapassare per la «felicità»,

102 SITI 2013b, p. 250. 103 Ivi, p. 248.

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ovvero per quel riconoscimento e quella notorietà da cui possono arrivare delle «opportunità» (per usare un linguaggio aziendale neoliberista).104

È mutato anche il panorama dello show televisivo: ora non si cerca più l’inoperoso sosia di tutti gli spettatori, ma ci si accalca a attorno a una nuova forma di divismo che presuppone un impegno da parte del divo, un talento che lo collochi nuovamente al di sopra della gente comune, nuovamente nel firmamento dorato in cui i divi hanno sempre pascolato.

Il reality show e la sua rapida parabola hanno dimostrato e permesso una generale proletarizzazione del divismo che è diventato più accessibile, ma che si è anche trasformato in un fenomeno molto più limitato, lungo appena il tempo di una stagione (televisiva).

Nel documento Schermi di carta (pagine 128-131)