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Identità nel campo della responsabilità e della solidarietà

Marta Ilardo Università di Bologna

3. Identità nel campo della responsabilità e della solidarietà

Per riuscire a comprendere – e indagare – i nostri modi di fare esperienza e di agire tra gli altri abbiamo bisogno comprendere e indagare anche gli spazi

e i luoghi dove si verifica l’incontro. A questo proposito, Arendt valorizzerà l’edificazione di spazi di partecipazione caratterizzati dai valori non di chiu- sura ma di apertura, non di oppressione ma di partecipazione attiva, non di difesa ma di collaborazione, intendendo, in questo modo, un’importate relazione tra la definizione di determinati percorsi/processi identitari e le “caratteristiche” dell’ambiente sociale che abitiamo in un certo momento storico. Arendt analizza dunque il tema dell’identità interrogando il “chi siamo” accanto al “dove siamo”, nel tentativo di mettere in luce le caratte- ristiche di emancipazione, o in alternativa di oppressione sociale, degli spazi della vita pubblica dove abbiamo occasione di “mostrarci” tra gli altri, di costruire relazioni sociali. L’operazione introdotta da Arendt, molto simile a quella avviata anche dalla pedagogia interculturale, sembra così restituire al concetto di identità anche il suo intrinseco rapporto con i contesti sociali e la loro mutabilità storica.

A questo proposito, afferma Genovese che “[l’identità] ha senso se è in stretto collegamento con la pluralità” […] “in questo modo può svilupparsi la consapevolezza che la relazione con gli altri, la dimensione sociale, è l’ele- mento fondante i processi di conoscenza e che in questa prospettiva si può volgere lo sguardo verso l’altro, ma che questo gesto implica, come in un gioco continuo di specchi di cui occorre essere coscienti, l’esser guardati e diventare, a nostra volta, oggetto dello sguardo e della conoscenza altrui” (Genovese, 2003 p. 154 e 155). A questo punto è bene domandarsi in quale relazione consiste questo processo di conoscenza che favorirebbe la costi- tuzione di un’identità collettiva, plurale finalmente “globale”?

Di fronte a questa domanda Arendt aiuta di nuovo a riflettere attraverso la sua nozione, già introdotta, di “unicità”. L’elemento più significativo dell’opinione di Arendt è che collega l’idea di “unicità” ai particolari modi in cui esistiamo con gli altri. Invece di chiedere cosa rende unico ciascuno di noi, Arendt ha provato infine a domandarsi (e a domandarci) quanto è importante comprendere cosa rende unica la relazione tra esseri umani. La pensatrice è infatti profondamente convinta che le connotazioni solidali, etiche e morali dei contesti socio-culturali dialoghino con la capacità umana di esporsi all’altro. Al tempo stesso, è ben consapevole che questa esposi- zione e tensione verso l’altro non può bastare a se stessa se smette di essere esplorata nei termini di ciò che la rende concretizzabile. Per questa ragione, per provare a rispondere a questa problematica, individua nella responsa- bilità storica un veicolo (quasi un vincolo) di realizzazione dell’incontro tra

i soggetti. Come dire: solo riconquistando interesse e cura verso l’alterità, posso sperare di contribuire alla costruzione di un’identità collettiva e di un luogo dove nessuno si senta escluso.

Seguendo il discorso arendtiano, e mi avvio alla conclusione, possiamo infatti arrivare ad affermare che nel processo di definizione identitaria di ciascun soggetto la responsabilità venga quasi prima della soggettività. È nel campo delle nostre azioni e attraverso i modi in cui impariamo (se ne abbiamo occasione!) a orientarci che possiamo determinare e costruire oc- casioni di incontro e scambi interculturali. Il contributo di Arendt, in tal senso, è un’occasione per provare a difendere e a valorizzare l’idea per cui l’identità può e dovrebbe costruirsi in un rapporto plurale, ovvero nella di- mensione sociale che ci vede attori principali di questo processo di cono- scenza dell’altro. Parallelamente, ciascuno dovrebbe poter vedersi garantita la possibilità della relazione aperta e interculturale. Perché sia possibile rea- lizzare questo progetto (perché di questo si tratta, di un progetto culturale, sociale, educativo), per Arendt è essenziale tornare a ripensare la consape- volezza e la responsabilità - anch’essa politica, sociale, educativa - con la quale volgiamo lo sguardo verso l’altro. Nessuno, infatti, desidera - né do- vrebbe - essere escluso da questo processo di ricerca identitaria attraverso il quale è possibile trovare un “luogo sicuro” di riconoscimento, identifica- zione, trasformazione. In altre parole, un luogo di libertà esistenziale che pensiamo l’educazione possa - e debba - continuare a promuovere mentre è impegnata nella tutela di ogni soggettività che desidera essere libera e pen- sante.

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“Raccontare e raccontarsi altrimenti”: memoria individuale,

memoria collettiva e educazione alla coscienza storica

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