• Non ci sono risultati.

Spazi e narrazioni digitali della generazione zeta

Maria Caterina De Blasis Università degli Studi di Roma Tre

1. Spazi e narrazioni digitali della generazione zeta

I giovani della “generazione zeta”, nati dopo il 1997 (Dimock, 2019), sono i primi a trascorrere tutta la propria vita, a partire dalla prima infanzia, cir- condati dalla tecnologia. Utilizzano costantemente computer, videogiochi, cellulari e ogni possibile strumento frutto dell’era digitale.

Questi media, però, non producono un cambiamento immediato, per- tanto la capacità dei “nativi” di interagirvi intuitivamente è piuttosto il ri- sultato di un processo di adattamento. Tale processo cessa poi di essere individuale e cede il passo a un percorso collettivo in cui si sviluppano nuove pratiche legate alle modalità d’uso e ai significati dati a ogni singolo

medium (Riva, 2014).

Lo sviluppo e la grande diffusione degli strumenti digitali ha portato al- cuni esperti a descrivere i giovani che costantemente li utilizzano come

screen generation: una generazione contraddistinta dalle “relazioni” con una

molteplicità di schermi e segnata dalla persistente presenza degli smar- tphone (Rivoltella, 2006, 2010). Non a caso, un’altra definizione con cui vengono spesso identificati è “iGeneration”, dove la “i” rappresenta sia le tecnologie più popolari tra bambini e adolescenti (iPhone, iPad, iPod, iTu- nes…), sia le attività altamente individualizzate che queste tecnologie ren- dono possibili (Rosen, 2011).

I media digitali utilizzati sin dalla più tenera età potrebbero condurre, secondo Prensky (2001b), allo sviluppo di hypertext minds, menti iperte- stuali, con le quali i nativi digitali “saltellano e balzano in giro”, come se le loro strutture cognitive non fossero sequenziali, ma parallele. Ricerchereb- bero dunque l’interattività e risposte immediate alle loro azioni, diventando impazienti se le fonti di informazione non sono immediatamente fruibili e non riuscendo a trascorrere molto tempo concentrati su uno stesso tema (Pedró, 2006, 2009).

Cambiano, dunque, i loro tempi di attenzione, risultano più attenti ai contenuti mediali rispetto a quelli orali o scritti e sono multitasking. Stu- diano con il televisore acceso, mentre chattano o ascoltano la musica, con un “sovraccarico cognitivo” “risolto attraverso il continuo passaggio da un media a un altro, tramite uno ‘zapping’ consapevole tra le differenti fonti di apprendimento e di comunicazione” (Ferri, 2011, p. 3).

Fare più cose contemporaneamente può condurli ad avere difficoltà di concentrazione dal momento che la loro attenzione non è mai garantita in-

teramente su un solo tema o compito, ma si sposta in maniera superficiale con “una discontinuità che è nemica della riflessione e dell’approfondi- mento” (Rivoltella, 2008).

Una ricerca Microsoft del 2015 rivela che la durata media dell’attenzione stia diminuendo e, con l’uso dei media digitali, sia passata dai 12 secondi del 2000 agli 8 del 2013, scendendo al di sotto di quella dei pesci rossi che è invece di 9 secondi. I nuovi stili di vita riducono la capacità di rimanere a lungo concentrati su un’unica attività, specie in ambienti non digitali, anche se i “consumatori” always on sembra stiano diventando “più bravi” a fare di più con meno, grazie a brevi “scariche” di alta attenzione e a una più efficiente codifica nella loro memoria (Microsoft, 2015).

Henry Jenkins (2010) sostiene, invece, che multitasking e attenzione non vadano interpretate come opposte tra loro, ma piuttosto come abilità complementari da utilizzare in modo strategico per fronteggiare i limiti della memoria a breve termine. Essere multitasking non equivale, quindi, all’essere distratti, ma rappresenta un modo per esaminare e codificare il

mare magnum delle informazioni in cui si è immersi e rispondere con i fe- edback più adeguati. Per meglio spiegare la sua posizione, l’autore propone

un’analogia in cui associa l’attenzione focalizzata al mestiere del contadino, impegnato a portare a termine i suoi lavori in uno spazio delimitato. A que- sto si contrappone invece il cacciatore che deve “scansionare” un territorio complesso e individuare tracce e indizi, alla ricerca di possibili prede. Per sopravvivere nel territorio della rete è oggi necessaria, secondo Jenkins, la promozione di processi formativi utili ai bisogni dei “cacciatori” e in grado “di identificare le relazioni tra sviluppi apparentemente non collegati all’in- terno di un campo visivo complesso” (p. 129).

La complessità del web influenza e caratterizza le giovani generazioni anche nella costruzione della loro identità che assume i tratti della molte- plicità, dell’instabilità e della multidimensionalità (Leone, 2019). Se per coloro che Prensky ha definito “immigrati digitali” (2001a, 2001b) il con- cetto di virtuale resta qualcosa di dicotomicamente opposto al reale, iden- tificato a volte con uno spazio di inganno e illusione, per i nativi digitali raffigura invece una manifestazione del reale, al punto che i luoghi fisici perdono costantemente significato. In questa veste, il virtuale influenza le relazioni formative, cognitive e sociali dei giovani che vivono in un mondo reale e virtuale insieme (Ferri, 2011, p.41).

la generazione zeta impara, spesso attraverso i “tutorial”, vive e ricerca le proprie amicizie e fa le proprie scelte, anche seguendo youtuber o influencer, in termini di moda, tendenze e gusti, ma anche formando le proprie opi- nioni su ambiente, diritti civili, uso di alcool e droghe, ecc.

Media e reti digitali divengono parte integrante della vita di ciascuno, interessando, con la loro imponente pervasività, ogni ambito della quoti- dianità e abbracciando un ampio cambiamento che coinvolge il modo in cui si conosce, si comunica e si crea (Buckingham, 2008).

I nuovi habitat, apprenditivi, culturali e sociali, sono quindi un ecosi- stema mediale in cui il medium perde il significato latino di “mezzo-stru- mento”, per designare invece uno vero e proprio spazio sociale, con cui, soprattutto i giovani sono in simbiosi strutturale (Longo, 2003). I media, dunque, non sono più solo canali in cui è possibile trasmettere informazioni tra due o più ambienti, ma divengono “ambienti in se stessi e di se stessi” (Meyrowitz, 1995).

Qui le identità non sono più limitate a e da vincoli spazio-temporali, ma vengono create con una molteplicità che fa ricorso a molti sé, a seconda di ciò che si vuole costruire o mostrare (Turkle, 1997). Quando si è impe- gnati in giochi di ruolo o in mondi di fantasia, quando si entra in una com-

munity o nei social network, il computer non è più visto come una

“macchina analitica”, bensì come una “macchina per l’intimità” (Ivi). Con i social media si ridefiniscono, inoltre, le caratteristiche della propria posi- zione all’interno dei gruppi sociali di riferimento, anche attraverso il con- fronto con le esternazioni degli altri utenti (Riva, 2014).

Ambienti e strumenti digitali ricoprono, quindi, un ruolo chiave nella costruzione del proprio sé e della relativa narrazione, divenendone luogo privilegiato e talvolta esclusivo, soprattutto in vista di un riconoscimento da parte del gruppo dei pari (Rivoltella, 2012).

Così la tecnologia opera come una sorta di “architetto” dell’intimità di ciascuno, con la possibilità di suggerire delle sostituzioni che mettono in fuga il reale (Turkle, 2019). Allo stesso tempo, però, i social network sono anche lo spazio per una “fuga dal privato” in cui “l’intimità si estroflette, diventa ‘estimità’” (Rivoltella, 2012, p. 3).

Documenti correlati