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Il lavoro e il programma politico della moltitudine

È un fatto che i poteri virtuali della moltitudine siano nati nel corso delle lotte e si siano consolidati nel desiderio. Con il termine virtuale Hardt e Negri intendono riferirsi a quell'insieme di poteri di agire (essere, amare, creare, trasformare) che risiedono nella moltitudine.

Ciò che riempie di valore la realtà imperiale della moltitudine è il lavoro, la forza lavoro della vita nuda, la capacità di produrre in sé. “Il lavoro vivo costruisce i tramiti dal virtuale al reale: è il veicolo del possibile.[…] Il lavoro appare come potere di agire in generale, come un potere che è singolare e universale: singolare nella misura in cui è diventato l'ambito esclusivo del cervello e del corpo della moltitudine e universale in quanto il desiderio espresso dalla

immateriale, principalmente intellettuale – prima che manuale –linguistico e comunicativo. La nuova produzione abbraccia non solo la creazione di ricchezza, ma anche del sapere, del linguaggio e degli affetti. Non riguarda solo la creazione di beni ma anche la produzione di soggettività”. (Kohan, op.cit., p. 88).

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moltitudine costituisce la sostanza di una cosa comune. È la costituzione del comune che mette in movimento la produzione, il potere di agire è costituito dal lavoro, dall'intelligenza, dalla passione condensati in un unico

luogo comune248”.

Nel dominio parassitario della forma di produzione capitalista, che mai come oggi ha esercitato un dominio così feroce e violento, Hardt-Negri ri-scoprono con Nietzsche la forza viva del lavoro come forza della “vita nuda”.

Il valore del lavoro così inteso, anche utilizzando il classico elemento marxista del “general intellect249”, lavoro cognitivo o della conoscenza, cioè una forma di intelligenza sociale e collettiva creata con l'accumularsi della conoscenza e del sapere operativo, è l'unico valore positivo e senza misura che si contrappone all'essere assoluto della trascendenza e al nichilismo anti-metafisico.

Negri sostiene che, nella fase di militanza contemporanea all'attuazione dei regimi di produzione postfordistici, emerge la figura dell'operaio sociale, la quale coincide con la forza del lavoro immateriale ma comprende non solo gli uomini che lavorano in

248

Negri, Hardt, Impero, cit., pp. 332-333.

249 La nozione di general intellect è ancora una volta tratta dai Grundisse e in particolare dal cosiddetto Frammento sulle macchine: “Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale misura il sapere sociale generale si è trasformato in forza produttiva immediata e fino a che punto le condizioni del processo vitale della società sono passate sotto il controllo del general intellect (intelligenza generale) e rimodellate in accordo con essa”. (K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen, cit., pp. 718-719).

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fabbrica, bensì anche le donne, i lavoratori dei servizi, i lavoratori intellettuali, i giovani e tutti coloro che sono stati espropriati dalla riproduzione capitalistica, all'interno del tessuto sociale. Dunque, un operaio sociale che costruisce un'intellettualità di massa250.

La teoria dell’operaio sociale di Negri si fonda sul concetto di lavoro vivo come produzione di soggettività, potere costituente della società, autonomia produttiva dalla sfera pubblica statuale e dal comando d’impresa251

.

Di contro, l'Impero è sempre e solo espressione di negatività, di sopraffazione e di dominio e come tale va definito un ostacolo alla forza espressiva del lavoro e della vita. Se è il lavoro a dare vita al valore, è anche vero che “l'Impero è un parassita che trae la sua vitalità dalla capacità della moltitudine di creare sempre nuove fonti di energia e di valore252”.

“Negri e Hardt ripropongono l’impianto monistico

di Operai e capitale: il governo imperiale è una macchina vampiresca e parassitaria, dotata di

250 Si veda in proposito Gentili, op. cit., p. 79: “Nel momento in cui le macchine (capitale fisso) occupano il luogo spazio temporale del lavoro di fabbrica, la principale forza produttiva di plusvalore diventa il lavoro astratto, il lavoro della conoscenza, il cui soggetto è l'intelletto generale (general intellect) non più riconducibile a una determinata classe economica”. Ed è quindi “dalla produzione di moltitudine che, nel regime produttivo postfordista, il capitale estrae il plusvalore; non è più la fabbrica il luogo della produzione, bensì la stessa vita in comune della moltitudine, e il lavoro produttivo per eccellenza diventa quello immateriale del general intellect”. (Ivi, p. 195).

251

“Il lavoro vivo non ha i tratti del popolo, dell’unità coesa, bensì i tratti della moltitudine, che rifugge l’unità politica, non stringe patti, non trasferisce diritti, recalcitra all’obbedienza, non converge in una unità sintetica – la volontà generale – ma condivide il general intellect”. (Corradi, op. cit., pp. 228).

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un’efficacia puramente regolativa, che dispiega il potere in modo negativo. Il processo di produzione si costituisce ormai fuori dal rapporto di capitale che interviene solo ex post per esercitare funzioni di controllo. Il tempo pieno della cooperazione si oppone al tempo vuoto del comando. Il rapporto capitalistico è sempre più simbolico e irreale, un vuoto apparato di costrizione, un fantasma, un feticcio253”.

L'ambiguità dell'Impero viene intravista proprio in Europa alla vigilia delle due guerre mondiali e “profetizzata” dalla “morte di Dio” di Nietzsche. Eppure, già Tocqueville aveva intuito che “le ragioni della crisi della civiltà europea e delle sue pratiche imperiali consistono nel fatto che la virtù - cioè la morale aristocratica - non era in grado di tenere il passo della democrazia di massa254”. E proprio per questo Tocqueville aveva preannunciato il tramonto dell'Europa e l'ascesa degli Usa, con il risultato che, nella seconda metà del XIX secolo, l'America aveva iniziato ad essere vista come il luogo in cui gli esuli di tutto il mondo, in particolare dell'Europa, avrebbero potuto trovare una nuova terra di libertà ed emancipazione. Ma questo sogno risulta anche oggi illusorio, perché l'Impero non è americano e gli Stati Uniti non ne sono il centro. Il potere imperiale non ha

253 Corradi, op. cit., p. 230. 254

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un terreno o un centro localizzabile; è distribuito attraverso le reti, lungo una serie di meccanismi di controllo mobili e articolati. “Gli Stati Uniti non possono fare nulla per redimere la crisi e il declino dell'Impero. Gli Usa non sono il posto dove gli europei possono volare per risolvere il disagio e l'infelicità: un posto del genere non esiste255”.

Il fallimento dell'idea imperiale europea non poteva trovare realizzazione se non nel non-luogo della moltitudine. La crisi si rivela in una serie di conflitti in cui la base democratica viene costretta da forme di corruzione (di tipo affaristico-mafioso, capitalistico e militare) a limitare le sue capacità espressive. L’essenza parassitaria dell’Impero si esprime infatti nella rottura della comunità dei corpi singolari e nell’impedire le loro azioni 256

.“La corruzione è dappertutto: è la pietra angolare e la chiave del dominio. Si mostra in svariate forme: nel governo supremo e nelle sue amministrazioni periferiche; nelle lobby delle classi dirigenti e nelle organizzazioni finanziarie; nelle chiese e nelle sette.[….] Con la corruzione, l’Impero ricopre il mondo con uno schermo oscuro. Costruisce buchi neri e vuoti nella vita della moltitudine. Il comando su di essa viene

255 Ivi, p. 356.

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esercitato in questa coltre putrida, nell'assenza di luce e verità257”.

Ancora una volta sono i limiti culturali della comunicazione contemporanea che impediscono il riconoscimento di questa situazione. La moltitudine deve, quindi, iniziare il suo cammino di emancipazione proprio liberandosi dal giogo dell'industria culturale e dal dominio della mistificazione intellettuale.

La domanda chiave è “come può l'azione della

moltitudine diventare politica? Come può la

moltitudine organizzare e concentrare le sue energie contro la repressione e l'incessante segmentazione territoriale dell'Impero?258”.

Secondo Boron, Hardt e Negri a tale domanda non rispondono, tanto è vero che il termine rivoluzione appare poco menzionato nel saggio. “I vaghi riferimenti alla moltitudine non offrono nessuna chiave per scorgere la forma in cui questo ordine repressivo possa un giorno essere superato.[….] Tale nozione sociologicamente parlando è completamente vuota, sebbene sia giusto riconoscere che possiede una forza poetica notevole. Ci viene detto che la moltitudine è la totalità delle soggettività produttive e creative che lavorano per la liberazione del lavoro vivo, per la

257 Ivi, p. 360.

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creazione di costellazioni di potenti singolarità259”. Scompaiono così dalla scena le classi sociali e la distinzione tra sfruttatori e sfruttati, tra deboli e potenti. Secondo il teorico argentino, quello che rimane è una “massa amorfa di singolarità creative260”.

Hardt-Negri prendono l'esempio della richiesta di cittadinanza per i lavoratori immigrati fatta dai “sans- papier” in Francia nel 1996 261

. Questa richiesta riconosce la natura deterritorializzata del lavoratore contemporaneo, in particolare del migrante. A prezzo di tragedie e violenze enormi, il lavoratore contemporaneo è un cittadino senza patria né nazione: la cittadinanza è conquistata con il lavoro, spesso “in nero”, con il contributo indispensabile alla crescita del capitale sociale. Secondo Hardt e Negri, non è quella dei sans papiers una pretesa irrealistica. Al contrario, se è vero che è il capitale ad aver richiesto la crescente mobilità della forza lavoro e continue migrazioni dentro e fuori i confini nazionali, ai fini della produzione capitalistica, deve essere riconosciuto

259

Boron, op. cit., pp. 99-100. 260

Ivi, p. 100. La combinazione tra i precetti della teoria neoliberista della globalizzazione e una concezione “sociologicamente amorfa” come quella della moltitudine dà come risultato un programma politico riformista e poco realista. “Questo è permeato poi da un internazionalismo astratto che sfocia in quello che i nostri autori indicano il primo elemento di un programma politico della moltitudine, una prima istanza politica: la cittadinanza globale”. (Ibidem).

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giuridicamente a tutti i lavoratori la concessione di tutti i diritti di cittadinanza262.

A Negri è stato obiettato che parlare di cittadinanza significa comunque parlare di potere, di rapporti di forza e dello Stato come quadro fondamentale all'interno del quale si elabora e sostiene un ordine giuridico: illusoria perciò l'idea che la

soluzione alla maggior parte dei problemi

contemporanei si trovi nel rafforzamento della società civile e nella costruzione di una cittadinanza cosmopolita; altrettanto illusoria la pretesa che il mondo possa cambiare se si irrobustisce la rappresentanza della sinistra e della moltitudine nelle grandi organizzazioni transnazionali come il FMI ed altre simili263. Questo perché la cosiddetta “società civile globale” è lungi dall'essere liberata dalle limitazioni classiste, che rendono impossibile la piena espansione dei diritti cittadini nelle stesse società nazionali.

In conclusione, “se la democrazia e la cittadinanza sono stati obiettivi irraggiungibili nei capitalismi della periferia, perché dovrebbero essere conseguiti sul terreno del sistema internazionale?” Questo è ciò che si chiede Boron264.

262 Ivi, pp. 369-370.

263

Boron, op. cit., pp. 102-103. 264

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Per contro, Hardt e Negri sostengono che i capitalisti dovrebbero riconoscere che il capitale è creato dai lavoratori e pertanto affermare nella

postmodernità il “fondamentale principio

costituzionale che collega il diritto al lavoro e che ricompensa, con la cittadinanza, il lavoratore che crea il capitale265”.

Alla strategia della moltitudine di sconfiggere l'Impero, si lega la rivendicazione del salario sociale, cioè un salario garantito a tutti, come riconoscimento del nuovo statuto del lavoratore sociale. “Nel momento stesso che ogni aspetto della vita umana entra nel rapporto di produzione è chiaro che a tutti va riconosciuto un ruolo nella produzione di ricchezza266”. A tutti appunto, anche alle donne e ai familiari dei lavoratori 267 . In realtà, la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo svanisce nel contesto biopolitico dell'Impero, dato che è la moltitudine nella sua totalità che produce e riproduce la vita sociale. In questo modo “la richiesta di un salario sociale estende a tutta la popolazione la domanda che tutta l'attività necessaria per la produzione del capitale sia riconosciuta con un'uguale ricompensa, in modo tale

265

Negri, Hardt, Impero, cit., p. 370. 266 Ivi, p. 372.

267

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che il salario sociale divenga, effettivamente, reddito garantito268”.

Negri e Hardt rivendicano poi il diritto alla

riappropriazione, non più o non solo dei mezzi di

produzione materiali, ma anche di quelli immateriali, come l’informazione, la conoscenza, la cultura o la tecnologia, in quanto mezzi primari della produzione biopolitica269. Riappropriarsi di questi mezzi significa rivendicarne l'accesso democratico a tutti e rendere disponibile alle capacità espressive della soggettività gli strumenti linguistici appropriati. “Il diritto della riappropriazione è il diritto della moltitudine all’autocontrollo e a un’autonoma autoproduzione270”.

Posto che il potere costituente della moltitudine

consiste per Hardt e Negri nel prodotto

dell'immaginazione creativa con cui la moltitudine

configura la propria costituzione, a questa

rappresentazione può essere obiettato, ed è stato in realtà obiettato, che nulla giustifica l'identificazione di quel potere costituente con la Costituzione americana o meglio con ciò che ha ad esso consentito di divenire una Costituzione imperiale, con le sue nozioni di una sconfinata frontiera della libertà e le sue definizioni di

268 Ivi, p. 373.

269

Ibidem. “Chiediamo che alla moltitudine sia permesso di riappropriarsi della vita. Per esempio, che non vi sia più alcun copyright. Perché mai il sapere,che è attualmente al centro della produzione, non dovrebbe essere accessibile a tutti?”. (Negri, Il Ritorno, cit., p. 80).

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una spazialità e temporalità aperte, esaltate in un potere

costituente. Che la cosiddetta “moltitudine

postmoderna” conosca il testo costituzionale

nordamericano o qualcosa di relativo ad esso, è nel migliore dei casi una remotissima possibilità271.

Soprattutto oggetto di critica può essere

“l'incredibile idealizzazione che i due studiosi realizzano della Costituzione nordamericana272”. La quale, nella prospettiva di Boron, sarebbe stata formulata in modo volutamente antidemocratico e antipopolare per assicurare la supremazia degli interessi permanenti del paese, che non sono altro che diritti di proprietà. “Questa Carta dunque, ben difficilmente potrebbe essere quell'invito a transitare per le frontiere infinite della libertà, come proclamano Hardt e Negri, poiché ancora oggi quel documento legale impedisce alla moltitudine statunitense di scegliere direttamente il proprio presidente 273 ” aggiunge Boron.

Resta infine nel programma politico della moltitudine la sua organizzazione come soggetto politico, come posse274. Negri e Hardt introducono qui

271 “Se sotto l'etichetta di “moltitudine” H&N includono più di due miliardi di persone che sopravvivono con appena due dollari al giorno, senza alimenti né abitazione, risulta molto difficile comprendere come s'ingegnino a recepire gli insegnamenti della Costituzione americana”. (Boron, op. cit., p. 107). 272

Ibidem. 273

Ibidem. 274

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il termine latino posse per riferirsi al potere come a forme verbali e quindi come attività. In questo modo

posse “è ciò che un corpo e una mente possono

realizzare275”.

Nella società postmoderna il potere costituente del lavoro può esprimersi nella forma del diritto universale alla cittadinanza o del diritto a comunicare, costruire linguaggi e a controllare reti di comunicazione, e anche come potere politico, come costituzione di una società in cui la base del potere si decide in virtù dell'espressione dei diritti di tutti. Secondo Hardt e Negri la capacità di costruire spazi, migrazioni e nuovi corpi riflette già l'attitudine della moltitudine a lottare contro l'Impero. L'unica difficoltà è la costruzione di una potente organizzazione.