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Lo stadio supremo del capitalismo

“La seconda è una storia, narrata nella parte III, degli stadi di sviluppo del capitalismo, scandita come si conviene dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che focalizza l'attenzione soprattutto sull'imperialismo all'attuale stadio – questo si, finalmente, supremo – dell'Impero238”.

Ai tempi della Prima guerra mondiale molti osservatori - e, in particolare, i teorici marxisti - ritenevano che per il capitale fosse suonata la campana a morto239 ma evidentemente, dato che il capitalismo è ancora vivo, sbagliavano.

Dallo stadio concorrenziale delle origini, il capitalismo passa allo stadio monopolistico (tendenza già prevista da Marx) e con questo all'imperialismo240.

Tra i teorici dell'imperialismo, Hardt e Negri

prediligono Rosa Luxemburg: “Come diceva

238

Ivi, p. 132.

239 Negri, Hardt, Impero, cit., p. 253. 240

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Luxemburg, per realizzare e capitalizzare il plusvalore- e, quindi per alimentare i suoi cicli di accumulazione- il capitale dipendeva da ciò che si trovava al di fuori, ossia dall’ambiente non capitalistico. Nei primi del

Novecento, le avventure imperialistiche del

capitalismo stavano rapidamente consumando

l’ambiente naturale delle aree non capitalistiche del globo, il che avrebbe portato il capitale a morire di inedia. La critica dell’imperialismo capitalistico imponeva già il problema dei limiti della natura e delle catastrofiche conseguenze della sua distruzione241”.

In questo senso, i marxisti come la Luxemburg videro fatalmente nell'imperialismo il destino e al tempo stesso la fine del capitalismo: perché l'impegno del capitalismo di proiettarsi all'esterno, alla conquista di nuovi mercati (e di nuove opportunità di consumo), non poteva non scontrarsi prima o poi con la natura “finita” del mondo.

Ma, spinto dalle sue interne contraddizioni e dall'inasprimento delle lotte del proletariato, il capitalismo esaurisce anche la fase imperialistica e

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Negri, Hardt, Impero, cit., pp. 253-254. “Il capitale, sostiene la Luxemburg, è come un organismo che non può vivere senza spingersi al di fuori dei suoi confini per nutrirsi del suo ambiente esterno. Il fuori gli è necessario. La necessità di espandersi continuamente al di fuori è probabilmente la malattia del capitale europeo.[….] Con quanta maggior energia e potenza l’imperialismo opera all’erosione delle civiltà non capitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumulazione del capitale. L’imperialismo è tanto un metodo storico per prolungare l’esistenza del capitale, quando il più sicuro per affrettarne obiettivamente la fine. Questa tensione contraddittoria accompagna lo sviluppo del capitale ma si mostra inequivocabilmente solo nel momento della crisi, cioè quando il capitale è costretto a confrontarsi con la finitezza dell’umanità e del pianeta”. (Ivi, pp. 214-217).

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trapassa a un nuovo stadio di sviluppo242. Da qui si sviluppa il New Deal rooseveltiano, che dagli Stati Uniti verrà esportato in tutti i paesi occidentali nel secondo dopoguerra; le sue caratteristiche sono la regolazione economica affidata allo Stato, le politiche keynesiane, il welfare state.

Questo nuovo stadio di sviluppo si chiama “Impero”.

Proprio come, riconoscono Hardt e Negri, Lenin aveva previsto: suo il merito di comprendere che con la Prima guerra mondiale non sarebbe finito tanto il sistema capitalistico, quanto la sua organizzazione

nazional-imperialistica, per essere sostituita

dall'Impero.

L'Impero è lo stadio supremo del capitalismo per

due motivi. In primo luogo, perché la disciplina di fabbrica viene imposta all'intera società: “Il modello del New Deal produsse la forma più avanzata di

governabilità disciplinare.[…] In una società

disciplinare, l’intera società è sussunta sotto il

242 “Ebbene, alla fine del XX secolo il capitalismo è ancora vivo e vegeto. Ci sono tre modi per affrontare il mistero della longevità del capitale. In primo luogo qualcuno dice che il capitale non è più imperialista, che si è riformato e ha sviluppato un atteggiamento conservativo ed ecologista. Una seconda ipotesi suggerisce che il momento in cui si raggiungeranno effettivamente i limiti dello sviluppo capitalistico è ancora al di là da venire: le risorse mondiali possedute dalla parte del mondo non capitalista si sono rivelate assai più ampie del previsto.[…] Ci sono ancora enormi bacini di forza lavoro, di risorse materiali da assorbire e ancora molti luoghi nei quali i mercati possono espandersi. Una terza ipotesi sostiene che il capitale non guarda più al di fuori, ma all’interno, di modo che la sua espansione non è più di tipo estensivo, ma intensivo. Gli stadi precedenti della rivoluzione industriale avevano introdotto macchine produttrici di beni di consumo; ora, abbiamo invece a che fare con macchine che producono materie prime e beni alimentari”. (Ivi, pp. 254-255).

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comando del capitale e dello Stato e la società tende a essere governata esclusivamente dalle norme della produzione capitalistica. Una società disciplinare è dunque una società-fabbrica243”. In secondo luogo perché, in seguito ai processi di decolonizzazione, si passa dalla sussunzione formale del mondo al capitale, caratteristica del vecchio imperialismo a espansione estensiva, alla sussunzione reale del mondo al capitale, il quale pratica oggi un'espansione intensiva244.

Dalla crisi del ’29 a quella del ’68 il capitalismo si è esteso attraverso la formazione del mercato globale: utilizzando gli strumenti keynesiani del New Deal, gli accordi di Bretton Woods e la Banca Mondiale. Ma senza i processi di decolonizzazione prima e le rivoluzioni sociali ed economiche del ’68 poi, il capitalismo non si sarebbe preoccupato di cambiare paradigma, di ristrutturare i modi di produzione. Dalla società ordinata e disciplinata non si sarebbe passati al lavoro immateriale, agli aspetti culturali, affettivi delle nuove professionalità dell'informazione e dell'informatica. Il capitalismo ha dovuto abbandonare la forma di controllo dell'industria incalzato dalle forme individuali e collettive di liberazione dei neri, delle donne, dei giovani.

243 Ivi, p. 230.

244

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Secondo Hardt e Negri tre aspetti caratterizzano la produzione nell'era postmoderna: pensiero, affetti, cultura.

La postmodernità corrisponde alla post-

industrializzazione, non nel senso mistificato della fine dell'industria, che anzi resta centrale, quanto nella sua

informatizzazione 245 .“La modernizzazione si è

conclusa. La produzione industriale non domina più le

altre forme economiche e i fenomeni sociali. La postmodernizzazione (o informatizzazione) è

contraddistinta da un passaggio dall’occupazione industriale al prevalere degli impieghi nei servizi (settore terziario). I posti di lavoro sono caratterizzati

dal ruolo capitale svolto dalla conoscenza,

dall’affettività e dalla comunicazione. L’economia

postindustriale viene perciò generalmente definita un’economia dell’informazione246”.

Nello stesso tempo, però, oggi il capitale perde il suo rapporto di controllo materiale sul lavoro: il lavoratore immateriale è proprietario dei mezzi di produzione immateriali. Nella società postmoderna, il governo qualitativo e quantitativo pressoché assoluto del capitale si confronta con l'assoluta soggettività e creatività del lavoratore immateriale247. 245 Ivi, p. 263. 246 Ivi, pp. 267-268.

247 Ivi, pp. 271-275. “Il lavoratore di cui parla Impero non fa riferimento alla fabbrica, non è esclusivamente maschio e non realizza unicamente un lavoro materiale. Il nuovo lavoro è

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In questo ambito va letta la tesi tanto discussa della fine del ruolo dello stato-nazione. Con ciò non si deve intendere il tramonto delle istituzioni nazionali, che anzi mantengono un loro ruolo: solo finisce per sempre nel postmoderno il ruolo dello Stato come luogo privilegiato del confronto politico tra interessi opposti.