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Il processo di costituzionalizzazione del lavoro

L'organizzazione politico-giuridica dello Stato, e dunque anche la Carta Costituzionale, non può che riflettere l’assetto delle relazioni economiche, secondo quello schema struttura-sovrastruttura di tipica matrice marxiana.

Pertanto, nella legge fondamentale del nostro Stato assistiamo all'ingresso dell' idea di lavoro quale

esclusivo criterio di valorizzazione sociale

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dell'individuo. Come sostiene Marx, “nella

cooperazione pianificata con gli altri, l'operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa le facoltà della specie126”.

La conseguenza è che si sviluppa nella classe operaia un sentimento solidaristico che conduce all' associazionismo; il quale – ciò può sembrare paradossale, ma non lo è – è in realtà parte, non

soluzione del problema perché l'esaltazione

associazionista non fa altro che accentuare la produttività del lavoro di stampo capitalista. Di contro sta infatti il comando del capitale sul lavoro, conseguenza del fatto che l'operaio, invece di lavorare per sé, lavora per il capitalista e quindi sotto di lui127. “L’unione di questi due elementi porta ad uno sviluppo della produzione di massa di tipo capitalistico. Si assiste, allora, alla trasformazione della qualità del

comando. V’è da dire che il capitalismo deve avvalersi

della cooperazione tra salariati; una volta instaurata, tale azione solidaristica rovescia il rapporto di necessità: con la cooperazione di molti operai, il comando del capitale diventa indispensabile, cioè diventa condizione reale della produzione128”.

126

K. Marx, Il Capitale, vol. I, 2, Editori Riuniti, Roma, 1956, p.23. 127 Negri, La forma stato, cit., pp. 49-53.

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L’ordine del capitalista diviene necessario quanto l’ordine di un generale su di un campo di battaglia. Negri è certo che in definitiva, se la funzione di sorveglianza diventa funzione del capitale appena il lavoro subordinato si fa cooperativo, l'elemento decisivo nella trasformazione sia il nuovo tipo di organizzazione del lavoro129.

Di fondo, permane una realtà conflittuale fra capitalista e salariati; la soggezione operaia non fa che aumentare, in virtù di due fattori: l’aumento del volume dei mezzi di produzione altrui e quello della massa degli operai simultaneamente impiegati130. La

subordinazione diviene quindi condizione

dell’organizzazione. Non solo, ma il processo di produzione capitalistico, una volta instauratosi, non produce unicamente plus valore, bensì “riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato131”.

Il capitale diviene potenza sociale e, perdendo la propria realtà originaria, porta alla trasformazione delle condizioni di produzione in forme produttive sociali, comuni, generali132. In questo modo, la fabbrica e la

129

Ibidem. 130

Marx, Il Capitale, cit., pp. 27-33.

131 K. Marx, Il Capitale, vol. I, 3, Editori Riuniti, Roma, 1952, p. 22. 132

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grande industria determinano il processo produttivo entro l’intera società.

La tesi di Negri è che, se in passato il dispotismo delle fabbriche aveva un corrispettivo sociale nell’anarchia liberistica, tutto ciò è ormai superato dagli sviluppi del modo capitalistico di produzione. “Il popolo, nel suo insieme enorme forza-lavoro sociale, viene quindi chiamato a gestire il proprio sfruttamento sociale, a garantire il permanere e il riprodursi del movimento generale dell’accumulazione133”; con il risultato che più aumenta questa condizione, più la subordinazione è destinata a crescere.

In conclusione, Negri ritiene che nella società- fabbrica il lavoro assurga ad esclusiva fonte di valorizzazione sociale dell'individuo. “Ciò avviene

soprattutto in maniera positiva attraverso la

costituzionalizzazione della forza-lavoro; in tal modo si fa sempre più stretta la presa del capitale sulla società: non solo un predominio economico, ma anche una legittimazione politico sociale134”.

La Costituzione è veramente Costituzione del lavoro; ma lo è in quanto Costituzione del rapporto di lavoro salariato, perciò di stampo capitalistico. In ciò sta la base per ogni sviluppo sociale o politico, del quale lo stesso diritto, specie quello del lavoro, non

133 Negri, La forma stato, cit., pp. 53-54. 134

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può non risentire. Esso diviene il terreno di attuazione del riformismo propugnato dalle classe dirigenti per prevenire conflitti fra classi; mentre il ceto operaio, che pure lo ha imposto con la sua crescita, deve adesso necessariamente operare per superarlo, attraverso una vera lotta di classe135.

Una volta descritto il processo di

costituzionalizzazione della forza-lavoro, Negri si pone il problema della legiferazione, nella consapevolezza che esiste una distanza notevole fra le leggi e la gestione sociale del lavoro. Quelle si concentrano “sulla continuità immutabile e tipica”, questa “è situazione sempre mutevole ed abbisogna di comandi a questa situazione adeguati136”. Arriva così a pieno compimento la crisi del dogma dell’esclusività della legge, e con essa una nuova realtà della positività giuridica: “la norma si mette al servizio di fini economici e politici, vale come mezzo a tal fine, comunque si qualifica come atto concreto ed individuale137”.

In sostanza, l’integrazione capitalistica determina un meccanismo autonomo di “aggiustamento” del rapporto fra realtà sociale e realtà giuridica.

135 Ivi, pp. 54-55. 136 Ivi, p. 64. 137 Ivi, p. 65.

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Negri cita Hegel, il quale aveva affermato che “nel lavoro, dove sembrava ch’essa fosse un senso estraneo, la coscienza, mediante il ritrovamento di se stessa, mediante se stessa, diviene senso proprio138”. Tale citazione gli consente di affermare che il meccanismo di produzione capitalistico appiattisce la complessità dei rapporti sociali, almeno fino al momento in cui viene affermata nuovamente la positività come “insubordinazione generalizzata, lotta139”.

Il dissenso, tuttavia, è necessario quanto il consenso, per il sistema capitalistico: si presenta come “espressione fenomenica della continua risposta alla subordinazione reale che il capitale sempre esercita”, là

dove il consenso, invece, è “garanzia

dell’organizzazione capitalistica a livello sociale140”. Questa dialettica fra le parti vige anche nella genesi del diritto; la quale è un processo di continua sintesi, che deve mediare fra le istanze di contestazione sociale e la necessità di sviluppo. Negri afferma che la contestazione e il consenso sono le due facce della

socializzazione e della costituzionalizzazione

capitalistica del lavoro141.

138

W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, a cura di E. de Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1933, p. 173.

139 Negri, La forma stato, cit., p. 66. 140

Ivi, p. 67. 141

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Ecco perché la moderna legislazione del lavoro muove dalla consapevolezza del conflitto e dalla sua

inevitabilità. È in funzione del conflitto che i gruppi nascono e arrivano ad un reciproco riconoscimento: “il processo di produzione del diritto è compiutamente un processo di normazione bilaterale, […] accordo sociale di parti conflittuali142”.

L’esperienza giuslavorista si apre all’idea del contratto collettivo nel momento in cui le prime istanze lavoristiche si impongono a livello generale. Tale generalizzazione, tuttavia, deve fare i conti con un basso livello di conflittualità sociale, ancora privo di aspetti di massa; e proprio ciò fa sì che la contrattazione collettiva miri “a trattenervi la conflittualità, anziché ad esaltarla e ad imporla come forma dello sviluppo143”. È questo infatti l’effetto collaterale della contrattazione collettiva, dovuto all’arretratezza dello stadio di sviluppo della socializzazione del lavoro.

La conclusione è che il capitale, pervenuto a questo livello di sviluppo, realizza un ultimo paradosso: si fa organizzazione giuridica di un movimento permanente e inarrestabile, fa cioè del diritto la forma del continuo rivoluzionamento della società. Il fondamento del

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Ivi, p. 68. 143

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diritto diviene la mutevolezza, l’articolazione, la sempre nuova configurazione della conflittualità144.