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Il radicalismo politico

Nel documento Gustavo Modena. Teatro, arte, politica (pagine 168-175)

In senso stretto le idee politiche di Modena furono sempre radica- li. Repubblicano intransigente, il suo profilo all’interno del movimen- to risorgimentale – come ha scritto Franco Della Peruta – è quello di un “democratico socialista”6.

Attivo politicamente sin da giovane, partecipa diciassettenne a Pa- dova alle insurrezioni del ’20 (ferendosi fra l’altro gravemente a un braccio), poi ai moti del 1831 nell’Italia centrale. Di qui, dopo la capi- tolazione di Ancona, abbandona rocambolescamente la penisola in- sieme ad altri esuli, raggiungendo Marsiglia nel giugno dello stesso anno. Nella città francese incontra Mazzini, ne diviene amico intimo, aderisce al progetto politico della Giovine Italia e poi della Giovine Europa. Durante l’esilio il nome dell’attore figura fra i più stretti col- laboratori del rivoluzionario genovese (è lo stesso Mazzini a ricordar- lo nelle sue Note autobiografiche7).

8 G. Modena, Il falò e le frittelle, ora in S, p. 223.

9 F. Della Peruta, Scrittori politici dell’Ottocento, cit., p. 847. 10 G. Modena, Il falò e le frittelle, cit., p. 224 (corsivo nostro). 11 F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., p. 149n.

Da ora in avanti il rapporto fra Modena e Mazzini – “Pippo”, nel- l’epistolario modeniano – resterà sempre piuttosto stretto. Anche do- po la conclusione del periodo dell’esilio, e almeno fino ai mesi cruciali del ’48-’49. Ma ancora negli anni successivi, nonostante le crescenti divergenze fra i due, e perlomeno fino al distacco più marcato dell’ul- timo periodo, fra il 1859 e il 1861, di cui sono testimonianza tanto al- cune lettere modeniane, lucidissime e amare, sulla situazione politica italiana ed europea, quanto lo scritto Il falò e le frittelle, del 1860, un “mistero faceto-lagrimoso” che descrive con sofferta ironia la fase conclusiva del percorso unitario – orchestrato da “Camillo” (Cavour) e benedetto da “S.S. Culo” – e che non risparmia qualche ironia nei confronti dell’“innominato” Mazzini, pur sempre una “testa” a cui basta “starnutire” per “ragiona[re] meglio di tutti i vostri Professori, Barbassori, e Untori ciondolati”8.

Se dunque il legame fra i due poggia su un’affinità personale di fondo, nonché su un riconoscimento intellettuale reciproco (all’origi- ne di uno scambio che dobbiamo indovinare fruttuoso per entrambi), le diversità di accento si manifestano da subito.

Modena vede nella “fraternità” e nell’“uguaglianza” i cardini del- l’azione politica, ed è perciò meno attratto – per non dire progressiva- mente sempre più diffidente – dalla parola d’ordine della lotta per la “patria”. Predilige lucidamente il tratto concreto della “ispirazione egualitaria”9all’accento vagamente mistico dell’incitamento patriotti-

co mazziniano che agli occhi di Modena si trasforma infatti nel corso del tempo in una forma edulcorata di “verità”, e cioè in astratta “poe-

sia della Verità”10.

Come ha scritto ancora Franco Della Peruta,

pur restando sempre fedele a Mazzini, [Modena] asseriva la necessità di un approfondimento della rivoluzione sul piano sociale con maggiore deter- minazione del suo maestro; del che è prova il fatto che egli continuò negli an- ni successivi a dirsi profondamente persuaso dell’opportunità di collegare le modificazioni politiche a profonde trasformazioni sociali che realizzassero una più piena eguaglianza11.

Questa diversità di accento fra i due si approfondisce nel corso del

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12 G. Modena, Il falò e le frittelle, cit., pp. 225-226. 13 Ivi, p. 224.

14 Ivi, p. 226

tempo fino a determinare una distanza più netta. Scrive per esempio Modena nel Falò e le frittelle:

Sarebbe troppo lungo il dimostrarvi come questo intruglio cabalistico di inganni e di vergogne, sia derivato da un qui pro quo, dal mettere il carro in- nanzi ai buoi, cioè l’Unità innanzi alla Libertà; come per questo equivoco, l’U- nità sia divenuto il cappuccio, la maschera, il bussolotto magico della ambi- zione famelica e la quondam Giovine Italia siasi trasformata in un semenzajo di Teologanti politici. […] L’Unità è l’Orco divoratore della nazione, non è la Nazione. Una feroce forza possiede il mondo e fa chiamarsi patria e naziona- lità… per prendere le mosche col miele12.

E ancora:

portate il vostro entusiasmo giovanile e la poesia dell’Innominato [Mazzi- ni] sullo scopo di conquistare la Libertà degli oppressi, e di mandare in vampa gli oppressori; e la sospirata Unità vi verrà fuori come primo corollario im- mancabile della Libertà13.

Dove è chiaro che la libertà (che per Modena è libertà degli “op- pressi”) è l’obiettivo primo e fondamentale. La “sospirata Unità” verrà solo dopo, come “primo corollario immancabile” del raggiungi- mento della libertà.

Miracolo. Per essere forti onde unirci alle altre Nazioni contro tutta la lega degli Oppressori, è d’uopo essere prima una Nazione.

Isopo. Eccolo l’argomento a gambe in su! In quella parola prima sta lo sva- rione che ti produce il meno della somma del conto. Non potete essere Na- zione che dopo. Nazione di nome, e strumenti di fatto alla tirannia congiurata contro i popoli, ecco quel che sarebbe dando a fare l’Unità alle Autorità. No, no, ai tutti oppressori devonsi opporre i tutti Oppressi […] o la vostra sogna- ta forza si risolverà in fiacchezza maggiore. […] Libertà! Libertà! E il resto viene da sé14.

Prima di divenire argomenti di divisione – ancorché Modena man- tenga sempre, come si è detto, anche nei momenti di maggior distan- za, un profondo rispetto per Mazzini e per la sua dirittura morale – questi temi sono il terreno di una articolazione di posizioni nell’ambi- to di un orizzonte pienamente condiviso, anche grazie a una diversifi- cazione nei compiti fra i dirigenti dell’organizzazione segreta. Così

15 F. Della Peruta, Scrittori politici dell’Ottocento, cit., p. 846. 16 Ivi, p. 843.

17 Ibidem.

18 Lettera a Mauro Macchi del 20 novembre 1856, ora in E, p. 255. 19 F. Della Peruta, Scrittori politici dell’Ottocento, cit., p. 856.

20 Lettera a Carlo Pisani del 12 novembre 1856. E ancora: “Deridono Mazzini chiamandolo teologo! Egli ha un principio e lo ha stretto in una formula che vale quelle di Socrate e di Cristo. L’umanità non può progredire alla conquista della verità, della

giustizia se non ha libertà: per aver libertà deve conquistarsi forme di governi che non

inceppino pensieri ed azioni. […] Tutto ciò è formulato in due parole scritte sopra una

per esempio, nel corso degli anni Trenta, Modena si incarica all’inter- no del gruppo capeggiato da Mazzini di redigere una serie di opusco- li, pubblicati come supplemento alla “Giovine Italia”, che vanno sot- to il nome di “insegnamenti popolari”.

L’intento che li muoveva era quello di guadagnare alla causa rivoluzionaria il pubblico di artigiani e di lavoratori al quale erano destinati, insistendo quindi essenzialmente sulle prospettive di modificazione che l’avvento della repubblica avrebbe aperto nelle condizioni d’esistenza delle classi popolari15.

L’attività di propaganda operata da Modena (“lo ‘specialista’ della Giovine Italia” su questo terreno, come ricorda Della Peruta16) mette

in rilievo “la particolare accentuazione del nesso tra rivoluzione na- zionale e suo contenuto sociale che in questa pubblicistica compiva il Modena”17.

Egli dunque porta avanti le sue idee all’interno di una collocazione politica che, finché gli riesce, resta convintamente fedele a Mazzini: “Tant’è, io sono di Mazzini quand même”, scrive ancora nel novembre del 185618.

E diverse lettere del periodo più cupo e pessimistico degli anni Cinquanta – gli anni del “ripiegamento”19– testimoniano di un affla-

to “mazziniano” comunque presente in Modena, che, pur nelle cre- scenti differenze politiche fra i due, porta l’attore e sottolineare il co- raggio e il rigore di Mazzini per contro all’“opportunismo” politico dilagante.

Mi confermo nel mio proponimento di voltare il culo alla politica e di non volere vivere in codesta fogna della Mecca ove colarono e colano tanti Bar- bassori ambiziosi, ipocriti invidiosi, che hanno rinnegato e vanno rinnegando e poi anatemizzando Mazzini e i suoi principi, perché l’Uomo è un rimprove- ro vivente alla loro mediocrità pidocchina, e perché quei principi non se ne può far roba da vendere e rivendere al maggior offerente20.

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bandiera: Dio e Popolo. Le formole: Liberté, egalité, fraternité, non fare agli altri ecc. so- no equivalenti di quella. Sono esse ridicole? Quando Cristo annunziava la sua, a popoli ignari, come Verbo di Dio, operava da gran filosofo. I suoi seguaci ne fecero una botte- ga. E di che non si fa bottega?? Gli omenoni convenuti in Torino non hanno già fatto bottega della libertà ed indipendenza d’Italia? L’aprir bottega è sempre opportuno. Bel- lo è che senza l’indefesso pestare di Mazzini, ai dottori di Torino mancherebbe anche l’opportunità di parlare della loro chimera di guerra sabaudo-italiana: starebbero a ro- sicarsi le ugne per non sapere che blaterare” (E, p. 252).

21 A. Scannapieco, “Quella abborrita gogna che chiamano teatro”, cit., p. 35. 22 G. Modena, Il falò e le frittelle, cit., p. 226. Vedi ancora la lettera a Carlo Pisani del 12 novembre 1856: “Il povero Gallenga fuit semper ciula […]. Mazzini fece benissi- mo a metterlo in berlina e ammiro la moderazione di Mazzini che si limita ad uno solo. Quanti convertiti potrebbe ei far ballare se pubblicasse parole, fatti, lettere! Egli non lo farà: io ne’ suoi panni, l’avrei già fatto” (E, p. 251).

23 Significative le considerazioni svolte da Modena a proposito del carattere “ereti- co” dell’amatissimo Dante. Quest’ultimo, secondo Modena, “era un eretico, mascherato

da cattolico”. Modena argomenta discutendo diversi passi della Commedia. Quindi con-

clude: “Quando scriveva il suo poema, sperava che questo gli aprisse le porte di Firen- ze; e scommetterei, che allora non v’erano le invettive contro i preti. Queste vi presero posto dopo, a misura che Dante perdeva la speranza, e gli cresceva la stizza”. E in ogni caso, argomenta Modena, “se avesse detto tutto il suo pensiero religioso, non trovava terra che lo accogliesse: Firenze gli era negata per sempre; il rogo lo aspettava. I mini- stri, i deputati, i soldati, i liberali d’ogni colore vanno alla messa… sono cattolici per questo? Essi credono, che non sia prudenza romperla apertamente con la loro farsa re- ligiosa; e si mascherano. Credono che quella rogna, quel vaiuolo morale sia un male ne- cessario, un cauterio, un controveleno per evitare mali maggiori – e si mascherano. Così fece Dante. Simulò. Ma fin dove potè sbottonarsi, si sbottonò” (G. Modena, Il catolici-

smo di Dante, ora in S, pp. 304-305).

Il radicalismo politico di Modena, decisamente “antiretorico”21e

frutto anche di una intransigenza caratteriale (lo “stizzoso […] uomo ortica” del Falò e le frittelle22), si coniuga assai frequentemente con

una profonda intelligenza politica, con una capacità di lavorare “dal- l’interno” delle condizioni date, che può risultare ai nostri occhi un po’ in ombra se non si tiene conto dell’effetto distorcente determinato dall’elevato numero di lettere giunte sino a noi degli ultimi anni – quelli di una più accentuata disillusione – rispetto al periodo prece- dente – caratterizzato per un coinvolgimento più convinto (delle circa 580 lettere raccolte complessivamente da Terenzio Grandi più di 420 sono posteriori al Quarantotto).

Eppure Modena fu appunto a lungo pronto ad agire nelle contrad- dizioni che si aprivano davanti a lui, e per come quelle contraddizioni si manifestavano23.

Pur cioè molto tenace nella rivendicazione della necessità delle

24 G. Modena, I pratici e i vaporosi, ora in S, p. 103.

25 Lettera a Francesco Dall’Ongaro del 25 dicembre 1850, ora in E, p. 135. 26 G. Modena, Un novizio, e suo fratello (1832), ora in S, p. 49.

27 Modena fonda il periodico insieme a Dall’Ongaro, Olper, Valussi e Vollo. Fir- ma, insieme a Dall’Ongaro e Vollo, una sorta di editoriale alla rivista (Seconda

domanda, in “Fatti e parole”, 30 giugno 1848).

“fantasie giuste”24per accendere la miccia della trasformazione rivo-

luzionaria, per “spezzare la ruota”, altrettanto fermo si rivela nel rove- sciare ogni possibile cedimento astrattamente “utopistico” (“tutti son fuori per la stessa spesa, dividere, ognuno è capo e semicapo di una scuola: abbiamo diecimila economisti, e qualche centinaio di Proudhon, scuola comoda perché dispensa dal cacciare i nemici a schioppettate”25) richiamando l’azione politica concreta, immediata,

efficace, capace di agire nella direzione anche progressiva del cambia- mento.

Il popolo vuole dalla rivoluzione miglioramento materiale del suo essere: per questo scopo mette in giuoco il sangue e gli averi; ma se la rivoluzione non gli dà immediati vantaggi, si stringe nelle spalle, e sta a guardare. E se il popolo non aiuta di braccia, gli Austriaci non si cacciano. Conchiudo: o servi- re e soffrire, o gettarsi in quella piena rivoluzione sociale che dia al popolo un vantaggio materiale, palpabile, sollecito26.

Modena si immerge completamente nel lavoro politico, soprattutto negli anni dell’esilio e nel bienno ’48-’49 (ma anche in altri periodi del- la sua vita, pur se in forme diverse e meno dirette), facendosi coinvol- gere in base delle esigenze del momento, lasciando che fossero le ra- gioni della rivoluzione a determinare i suoi compiti e non il contrario.

Stretto collaboratore di Mazzini per un lungo periodo, estensore come si è visto degli “insegnamenti popolari”, combattente nel ’48- ’49, editore nel 1848 del giornale “Fatti e parole”27, deputato all’As-

semblea Costituente toscana nel 1849, tessitore e protagonista negli anni successivi di più di un passaggio delle vicende risorgimentali, Modena riesce a coniugare – nella vita politica come in quella artistica – il momento di un ottimismo determinato da una volontà caparbia, mai volontaristica e piuttosto sempre consapevole dell’assenza di al- ternative, al momento del pessimismo e della sfiducia dettati da una ragione lucida e profonda.

Egli è il rivoluzionario che incita all’azione, ad abbandonare ogni indugio (“La Virtù delle Virtù è l’azione”, “Oh fate! oh nel nome di

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28 G. Modena, Epistola di Lando ai giovani italiani (1834), ora in S, pp. 71-72. 29 G. Modena, Un discorso che non va alle nuvole (1848), ora in S, p. 105. 30 Lettera a Vincenzo Brusco Onnis del 18 ottobre 1860, ora in E, p. 419.

Dio! fate!”28), e contemporaneamente è colui che sul filo di un sarca-

smo feroce, che è anche e sempre autoironico, segnala i mille intoppi che rischiano di rendere vana l’azione stessa.

Poiché la pratica salva i popoli, facciamo pratica della pratica e parliamone tutti i giorni alla barba dei fantastici. La pratica val più della grammatica: e infatti la pratica va a cavallo della rettorica. Se non lo credeste, vi convinco subito. State a sentire un discorso che fu commesso ier l’altro davanti a tante persone. Io, fantastico, ne rimasi fulminato […].

L’Oratore parlò. – Signori, io sono uomo pratico. Un importuno vicino a me. – Di che?

Una voce. – Zitto! Oratore. – Io non volo. L’importuno. – Non ha le ali! Voce. – Zitto!

Oratore. – Ma non striscio. Amo il paese e la sua indipendenza, purché non costi troppo cara. Sento dire che volete difendervi sino agli estremi. Non sarebbe più comodo non venire agli estremi? Salviamo il paese camminando sulla strada pratica invece che sulla strada a vapore.

Un impiegato della stazione. – Grazie! è rotta. Importuno. – Dov’è la strada pratica? Voce. – Sarà quella di Comacchio.

Oratore. – Volete che Venezia finisca come Parga? […] Non vorreste ten- tare ogni cosa per non ridurvi al caso di Parga?

Importuno. – Ogni!... Come, ogni? nell’ogni c’è l’alto e il basso. Voce. – Zitto!

Oratore. – Mi diranno i vaporosi, che a Parga c’erano 200 persone, com- presi si lattanti, e che in Venezia ve ne sono 120.000 e 20.000 soldati e mille cannoni. Ma io sono uomo pratico e calcolatore, e non bado a fantasie. Parlo come uomo pratico. La quistione è dubbia in luglio, era dubbia in giugno, più dubbia in maggio29.

Modena è un intellettuale “vaporoso” (uno “scarlatto” scrive egli stesso30– un “fiammeggiante” avrebbe detto Théophile Gautier) ma

con la profonda consapevolezza dell’importanza della dimensione po- liticamente concreta. Cosciente cioè che senza principi ideali molto forti e pronunciati non si può muovere e neppure avviare un’impresa di radicale trasformazione della società – ciò che risulta naturalmente

31 G. Modena, Un discorso che non va alle nuvole, cit., p. 106. 32 Ibidem.

33 S. Beckett, In nessun modo ancora, Einaudi, Torino 2008, p. 66.

essenziale dal suo punto di vista. Allo stesso tempo compreso del fat- to che l’unico modo per far vivere e dare una prospettiva a quei prin- cipi è proprio la dimensione del concreto percorso della trasformazio- ne, anche a partire dalla capacità di operare sintesi efficaci.

Nella feroce derisione modeniana dei “pratici” (i “rasente terra”31)

vibra il forte accento utopico, senza il quale è impossibile prefigurare un rinnovamento profondo dei rapporti sociali. Nella sottolineatura volutamente autoironica sui “vaporosi” (“passeggiano sulle nuvole e fanno i profeti del futuro”32) c’è un richiamo consapevole alla neces-

saria umiltà del “materialismo”, agli “immediati vantaggi” (“materiali, palpabili, solleciti”) che deve dare la rivoluzione. I pratici e i vaporosi in realtà sono costretti a stare insieme. Come il pensiero e l’azione, co- me i “fatti” e le “parole”.

Non siamo così distanti, a ben vedere, dalla contraddizione pro- fonda del moderno, dal beckettiano “fallire meglio”:

Provato sempre. Fallito sempre. Fa niente. Provare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio33.

Una tensione politica e morale che caratterizza la temperie moder- na sin dal suo nascere, segnando con un filo rosso l’Otto e il Nove- cento. Per un verso un forte e insopprimibile anelito di libertà (“pro- vato sempre”), e la sua conseguente ricerca attraverso l’azione (“pro- vare di nuovo”). Per un altro la consapevolezza del suo immancabile e reiterato scacco (“fallito sempre”), almeno finché quel “meglio” in cui il “fallimento” può tradursi non riuscirà a determinare un quadro di- verso.

Nel documento Gustavo Modena. Teatro, arte, politica (pagine 168-175)