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Tradizione e innovazione

Nel documento Gustavo Modena. Teatro, arte, politica (pagine 55-59)

Uno stile nuovo

V. Tradizione e innovazione

Nella sua biografia su Modena, Luigi Bonazzi scrive che nonostan- te l’attore si caratterizzi per la “somma originalità” e vada annoverato come il “creatore di una nuova scuola”, il legame con la tradizione d’attore si rivela molto forte: “niuno fu mai più di lui rispettoso e te- nero delle buone tradizioni dell’arte”1. La sua figura (al pari di quella

di Adelaide Ristori, aggiunge Bonazzi), va considerata parte del “gran ceppo italiano” della scuola d’attore fra Sette e Ottocento, non poten- dosi certo considerare un “fior[e] sbocciat[o] a caso fra i bronchi di un terreno selvaggio”2.

Secondo Bonazzi l’arte di Gustavo Modena rivela insomma un rapporto virtuoso, dialettico fra tradizione e innovazione. Come d’al- tra parte accade sempre nel caso degli interpreti più profondi del sen- timento moderno dell’arte: che sono innovatori naturalmente, ma il cui grado di “eccentricità” – scriverà Ezra Pound nei primi anni del Novecento, riferendosi all’arte del secolo precedente – è piuttosto una “densità di intessitura dell’opera” che una questione di “novità”3.

L’“innovatore”, infatti, osserva Pound, è “spesso proprio al centro della scia o dell’orbita della tradizione”4perché è colui che rinnova, conservando e trasformando – direbbe Gramsci –, ciò che la tradizione

gli consegna.

5 G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, cit., p. 111. 6 Ivi, p. 112.

7 Ibidem. 8 Ivi, p. 113.

9 L. Bonazzi, Gustavo Modena, cit., pp. 67-68. 10 G. Costetti, Il teatro italiano, cit, p. 113.

La generazione dei maestri, il realismo

Giuseppe Costetti descriverà in questi termini la generazione d’at- tori precedente quella di Gustavo Modena:

si sarebbe detta una schiatta procreata nella contemplazione degli olimpici nudi, che lo scalpello divino di Antonio Canova aveva allora allora ritornati in onore. Voci melodiose e tonanti che avevano, ad un tempo, il pastoso della passionalità, e lo squillo delle trombe di guerra: il tubare della colomba, e il ruggito del leone5.

Fra di essi Anna Pellandi, Carlotta Marchionni, Carolina Internari, Giuseppe De Marini, Luigi Vestri, Paolo Blanes, Giacomo Modena (il padre di Gustavo), Francesco Augusto Bon.

Attori capaci di “costruzioni ciclopiche, di voci stentoree, d’enfati- ci dialoghi”6. Nondimeno “sommi” protagonisti, “nobilissimi artisti”,

ben diversi dai “ciurmadori” che pure affollavano le scene7. Interpreti

con la “scintilla del genio”, la cui “sovrabbondanza” nello stile è con- seguenza non di un limite ma di una peculiare tensione espressiva propria dei “forti”: “nell’arte della recitazione i forti incorrono facil- mente, inconsciamente quasi, nella pecca dello esagerare. Essa è una conseguenza naturalissima della loro esuberanza”8.

Attori la cui recitazione non può considerarsi “falsa” semplicemen- te perché distante dal gusto di chi scrive di loro anni più tardi (come osserverà giustamente anche Bonazzi9); poiché, al contrario, si tratta

di una recitazione portatrice di un “vero” particolare, storicamente determinato, declinato attraverso un marcato “sopraccolore” e una decisa vivacità – tutta teatrale – dei caratteri. Un “vero scenico”, finto perché “un tantino”10 esagerato e diverso dallo sforzo di riprodurre

mimeticamente la realtà, ma allo stesso tempo non falso, perché mai “stridente” e sempre ben commisurato ai tempi e ai modi della finzio- ne propria del linguaggio del palcoscenico: “l’esagerazione del grande attore – scrive ancora Costetti – non va mai oltre le righe: è un so- praccolore, non una tinta stridente: è una affermazione più viva del

11 Ibidem.

12 [L. Prividali], Giuseppe De Marini, in “Il Censore universale dei teatri”, 3 giu- gno 1829.

13 G.A. Canova, Lettere sopra l’arte d’imitazione, a c. di F. Tozza, Pironti, Napoli 1991 (scritte nel 1829 e pubblicate nel 1839), p. 115.

14 [L. Prividali], Teatro Re, in “Il Censore universale dei teatri”, 4 aprile 1829. 15 F. Regli, Dizionario Biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tra-

gici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impre- sarii, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Dalmazzo, Torino 1860, p. 160.

16 A. Colomberti, Notizie storiche dei più distinti comici e comiche che illustrarono

carattere, un più acceso sentimento dell’anima”11.

“Veri” nell’accezione appena chiarita, alcuni di questi attori intro- ducono però anche nella recitazione qualche elemento che per ora possiamo definire di maggior “realismo”. Prendiamo a esempio i due più importanti fra loro, De Marini e Vestri: alla morte del primo, nel 1829, Luigi Prividali scrive che merito di entrambi era stato quello di aver cercato uno stile “meno cattedratico nella tragedia, più familiare nella commedia”12. L’attenzione al dettaglio, per esempio – attenzione

tipica della poetica del realismo, come vedremo –, caratterizza la reci- tazione tanto dell’uno quanto dell’altro.

Le piccole minuzie sono proverbiali nell’“immenso artista” Vestri, ammirando il quale – scrive Canova nelle sue Lettere sopra l’arte d’i-

mitazione – “fui testimonio spesse volte l’avere egli riscossi dei gene-

rali applausi, […] con una semplice mossa di ciglia”13. Prividali de-

scrive nelle sue cronache, sempre nel 1829 (lo stesso anno di compo- sizione delle Lettere) una recitazione impreziosita da “mille” partico- lari: “ogni qual volta si presenta questo attore sulla scena, cento pregi in lui si distinguono ad occhio nudo, mille col sussidio d’un buon cannocchiale”14.

L’attenzione al dettaglio caratterizza anche la recitazione di De Ma- rini. Lo ricorda Francesco Regli, il quale osserva come egli “nulla tra- scurava, inquantoché da tutto, anche dalle inezie, può scaturire l’effet- to, e ne sovviene che nel Benefattore e l’Orfana del Nota, quando sua sorella gli faceva perdere la pazienza, girava senza parlare una sedia, e levava a clamore la sala”15. E Colomberti, nelle Notizie storiche dei più distinti comici, sottolinea nell’attore il medesimo tratto stilistico: “era

cosa poi assai sorprendente per gli stessi Artisti che con lui recitavano il vedere come si prevaleva delle più piccole cose, come una scatola da tabacco, una penna da scrivere, una sedia, un tavolo”16.

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le scene italiane dal 1780 al 1880, manoscritto conservato alla Biblioteca del Burcardo

di Roma, p. 127.

17 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1941 (ristampa anastatica, 2001), pp. 66 e 80.

18 E. Pound, James Joyce e il teatro moderno (1916), ora in E. Pound, Joyce. Lettere

e saggi, SE, Milano 1989, p. 73.

19 E. Pound, “Dubliners” e James Joyce (1914), ora in E. Pound, Joyce, cit., p. 44.

Una certa aria di familiarità nella recitazione, l’attenzione al detta- glio: i piccoli movimenti, una sedia, una penna, la scatola per il tabac- co. Primi segnali, anche in teatro, di quella nuova attenzione per la “realtà” – che non è “mera esteriorità”, scrive in questi anni Hegel, ma ciò che consente all’idea di rendersi “percepibile”17– che segna in

generale il sedimentarsi della temperie moderna e più in particolare l’emergere del suo precipitato profondo in arte, la stagione del reali- smo; che è altra cosa, come vedremo, dal naturalismo.

Non che la “realtà” non fosse oggetto della rappresentazione nel- l’arte precedente, ma ora – come osserverà ancora Pound, uno dei più acuti indagatori della poetica del realismo – “essere alle prese con la realtà” diventa “l’essenza” stessa “della grande arte”, da Flaubert a Joyce18.

Nel momento in cui la dimensione della realtà, nella sua multifor- me articolazione (sociale, concreta, quotidiana), acquista il ruolo che l’inedito protagonismo delle classi subalterne e la stagione delle rivo- luzioni le consegna, l’arte si predispone ineluttabilmente a misurarsi con essa, a farsene carico all’interno dell’opera. Non necessariamente attraverso una rappresentazione in senso stretto della realtà: anzi, nei casi più interessanti (come vedremo) con un tentativo di misurarsi più propriamente con la realtà stessa della rappresentazione.

Tutto ciò avviene, nel corso del tempo, in modi anche molto diver- si gli uni dagli altri, e a seconda dei periodi: con il realismo critico nel- la fase “progressiva” della modernità (dalla Rivoluzione Francese alla cesura sanguinosa della Comune di Parigi); con la variegata e polie- drica stagione delle avanguardie nella fase “regressiva” che segue. Poe- tiche diverse, naturalmente, ma accomunate dal crucialissimo filo ros- so del voler intendere l’arte – da Flaubert a Joyce appunto – come luogo di disvelamento e di verità, in grado di “offr[ire] le cose come sono”19: per questo, e in questo senso solo, arte realista.

20 Su Bon si veda l’introduzione di Teresa Viziano a F.A. Bon, Scene comiche, e non

comiche della mia vita, Bulzoni, Roma 1985.

21 C. Meldolesi – F. Taviani, Teatro e spettacolo, cit., pp. 236 e sgg.

22 [L. Prividali], Teatro Re, in “Il Censore universale dei teatri”, 5 settembre 1829. 23 [L. Prividali], Teatro Re, in “Il Censore universale dei teatri”, 28 novembre 1829.

24 F.A. Bon, Scene comiche, cit., p. 219.

25 Vedi quanto scrive Mariagabriella Cambiaghi in P. Bosisio, A. Bentoglio, M. Cambiaghi, Il teatro drammatico a Milano, cit., pp. 494-495.

Nel documento Gustavo Modena. Teatro, arte, politica (pagine 55-59)