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Capitolo III Introduzione

1.1 L’importanza di Michizane

Il personaggio che più di ogni altro racchiude in sé il cambiamento – o stravolgimento – che la seconda metà del IX secolo portò nella società e quindi nella letteratura giapponese, è probabilmente Sugawara no Michizane (845-903). Generalmente ritenuto unanimamente un esempio di originalità e qualità poetica in mezzo allo sterile virtuosismo e ripetitività nei quali spesso cadeva la poesia in cinese del periodo Heian,1 Michizane è una figura importante non solo

per via della presunta qualità – parametro tutto sommato soggettivo – delle sue poesie. Oltre a essere infatti un famoso poeta nonché grande studioso e conoscitore della cultura cinese, Michizane era anche un valido funzionario, che godette del favore speciale dell’imperatore Uda soprattutto durante l’era Kanpyō (889-898), nonché l’ultimo rappresentante di quel genere di poeta-funzionario di corte, cioè quel modello – importato direttamente dalla Cina dei Tang durante gli anni di Saga e Junna (vedi prima parte) – di intellettuale e politico che coniuga alla sua fedeltà al sovrano e alla morale confuciana una sopraffina capacità poetica. Michizane vive sulla propria pelle la difficoltà di restare fedele a quel modello che già fu impersonato da suo nonno Kiyogimi alla corte di Saga, e la sua caduta e il suo esilio simboleggieranno proprio la fine di quel sistema politico e culturale. Quel modello di poeta-funzionario, finirà infatti per essere, in seguito agli stravolgimenti politici dell’era Jōwa e il conseguente avvento della politica del reggente di Yoshifusa, un notevole elemento di disturbo per l’affermazione del dominio Fujiwara, uno scampolo di un passato in cui sì, per un breve lasso di tempo si era davvero realizzato quell’ideale cinese della “letteratura per il governo dello stato”, ma che ormai, alle soglie del X secolo non poteva più sperare di sopravvivere. Michizane, che non sarà mai disposto a tradire quei valori, neppure negli ultimi dolorosi anni di esilio e di umiliazione, rappresenta l’ennesimo esempio di eroe sconfitto che non scende a compromessi, che passando dalla gloria alla rovina, affronta con consapevolezza e coerenza la propria disfatta, e forse anche a questo si deve la sua fama postuma.

Fu infatti per questa sua integrità morale, nonché per gli insoliti avvenimenti verificatisi a corte dopo la sua morte,2 che la sua figura venne recuperata e ristabilita col massimo degli onori da parte

dell’oligarchia Fujiwara, fino a divenire addirittura deificata come divinità shintoista sotto l’appellativo di Tenjin, riverito non solo all’interno nella corte ma anche presso vasti strati della popolazione come dimostrano i numerosi templi a suo nome ancora oggi sparsi per il Giappone.3

In questa sede non affronteremo però lo studio di Michizane dal punto di vista del suo alter-ego Tenjin,4 e neppure da quello del politico-cortigiano5 bensì prima di tutto da quello di poeta, sia di

1 Come sostengono Konishi (1965, pp. 899-902), Watson (1975 pp. 12-13), Katō (1975, pp. 115-118).

2 Ovvero la morte di buona parte dei suoi avversari politici o di coloro che si erano resi responsabili del suo esilio,

come Fujiwara no Tokihira o l’imperatore Daigo. Cfr. IV-6.

3 Fujiwara ne fornisce un’ottima panoramica nell’appendice al suo libro del 2002.

4 Argomento già trattato ampiamente sia in Giappone che all’estero. In italiano si segnala Kikuchi Makoto, “La

kanshi che di waka, aspetto questo spesso lasciato talvolta in secondo piano rispetto a descrizioni

più pittoresche e rappresentate, soprattutto in altri media come la pittura o il teatro.6 Questo prima di tutto perché il presente lavoro è incentrato sulla letteratura Heian del IX secolo, ma anche perché, proprio nella sua opera poetica più che in qualunque altra forme di rappresentazione, possiamo osservare l’immagine più vivida e – forse – autentica di Michizane, possiamo, come afferma Kawaguchi, «davvero sentire il respiro stesso dell’autore, i suoi sospiri, quasi la sua viva voce».7

Dal corpus delle sue opere possiamo avere un accesso diretto non solo alla poetica di Michizane, ma disponiamo anche di un’eccezionale documento per lo studio dello scenario politico e soprattutto culturale del primo periodo Heian, alla vigilia di quella fondamentale – quanto simbolica, come vedremo – data del 905 nella quale la poesia in giapponese si riappropria del posto d’onore al centro della corte e della produzione letteraria con la compilazione della prima raccolta imperiale di

waka, il Kokin waka shū. Certamente, non essendo questa una ricerca storica, non ci porremo il

problema dell’autenticità o affidabilità delle notizie contenute nelle raccolte e poesie in esame, ma ci concentreremo invece sul fatto che Michizane le avesse comunque scritte in un preciso momento storico, e dunque, la punto di vista di storia della letteratura, hanno un enorme valore.

Se osserviamo infatti la frammentarietà con la quale altre opere simili del periodo sono giunte fino a noi, a cominciare dalle ben più autorevoli antologie imperiali di kanshi delle eree Kōnin e Tenchō, per non parlare delle raccolte private di altri poeti come Ki no Haseo o Shimada no Tadaomi, o anche degli stessi nonno e padre di Michizane, Sugawara no Kiyogimi e Koreyoshi, la conservazione integrale del Kanke bunsō e Kanke kōshū ha del miracoloso.8

La raccolta poetica di Michizane è un tassello fondamentale e irrinunciabile nello studio dei rapporti tra poesia cinese e giapponese in Giappone, come già dimostrato dallo spazio riservatogli in quasi ogni tipo di ricerca di letteratura classica comparata sino-giapponese.9 Il suo riutilizzo delle forme e tematiche cinesi, e in particolare il suo rapporto con la poesia di Bai Juyi – poeta cinese dell’VIII-IX sec. – del quale Michizane sembra talvolta essere una controfigura, sono il più chiaro e significativo esempio di quell’atteggiamento che, come abbiamo visto nel precedente capitolo era una costante condivisa da molti altri poeti della sua epoca, da Shimada no Tadaomi a Ki no Haseo. A differenza di questi ultimi però, l’opera di Michizane ha goduto della fortuna di giungere fino a noi in forma quasi integrale, rappresentando in questo un documento inestimabile anche per quanto riguarda la struttura e i commenti contenuti.

È quindi doveroso che, all’interno di uno studio comparativo sulla poesia classica cinese e giapponese come quello che qui ci proponiamo, venga riservata a Sugawara no Michizane una posizione di rilievo – nonostante la sua produzione di waka sia numericamente irrilevante se confrontata con i suoi kanshi – proprio perché è attraverso quel periodo di “assimiliazione della poesia di Bai Juyi” indicato da Kojima, che i giapponesi imparano ed elaborano in maniera unica e personale un modello cinese che già da più di due secoli bussava alle porte del Sol Levante con la sua secolare, e per certi versi ingombrante tradizione.

Esaustiva è comunque la panoramica fornita da Borgen nella sua monografia, Borgen 1986, pp. 327-340. In giapponese, tra gli altri, si segnala Fujiwara Katsumi “Tenjin shinkō o sasaeta mono”, in Fujiwara 2001, pp. 385-404, mentre per un’analisi del rapporto tra il culto i Tenjin e l’associazione con la poesia, vedere Hayashiya Tatsuburō “Tenjin shinkō no henreki”, in Tenjin shinkō, 1983, pp. 225-239 e Ijichi Tetsuo “Kitano shinkō to renga”, in Shoryōbukiyō, n. 5, 1955.

5 Come troviamo in Borgen 1986.

6 Mi riferisco in particolare al Kitano Tenjijn engi emaki 北野天神縁起絵巻, un lungo emaki (rotolo di pitture) del

XIII sec., o ancora l’opera teatrale Sugawara denju tenarai kagami 菅原伝授手習鑑 della metà del XVIII sec.

7 Kawaguchi 1966, p. 24

8 Come fa notare Borgen, due sono i motivi principali di questo “miracolo”. Uno è ovviamente la nascita del culto di

Tenjin, ma l’altro è un innegabile riconoscimento del valore della poesia di Michizane da parte dei contemporanei. Borgen 1986, p. 224. Personalmente ritengo la prima spiegazione molto più credibile rispetto alla seconda.

9 A partire da Kaneko, passando per Kojima, Watanabe e Fujiwara, Michizane è sempre protagonista di almeno una

sezione, se non addirittura di intere monografie. La collana Wakan hikaku bungaku sōsho gli dedica addirittura un intero volume: AA.VV., Sugawara no Michizane ronshū, Bensey, 2003.

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Alla fine del IX secolo i poeti giapponesi cercheranno in qualche modo di affrancarsi da questo senso di sottomissione che nel periodo di Saga aveva portato ad un imitazionismo quasi sfrenato, ma che al tempo stesso li aveva arricchiti di nuove immagini ed espressioni e soprattutto di una rinnovata coscienza poetica; questo tentativo è rappresentato dalla compilazione del Kokinshū. Qualunque giudizio si voglia dare all’esito di questo tentativo – per il quale rimando alle conclusioni – il “periodo di ammirazione dello stile cinese” è senza dubbio funzionale e essenziale alla formazione della “nuova” poesia giapponese, sia per quanto riguarda il kanshi che il waka.

Michizane rappresenta tutto questo, e la sua opera somma al prezioso documento storico un plusvalore poetico apprezzabile anche dal lettore moderno e che, una volta tanto, non deve chinare il capo di fronte al confronto col modello cinese, né tantomento di fronte al waka che proprio ad esso deve gran parte del suo apparato retorico. Come afferma Fujiwara Katsumi in conclusione alla sua monografia su Michizane: «…la gloria e la rovina del poeta funzionario Sugawara no Michizane, che partecipa alla vita politica innalzando poesie all’imperatore, in una maniera che ricorda lo hanlin xueshi cinese, ci racconta veramente in maniera sintetica le tendenze storiche di quel Giappone del IX secolo».10