Prima di entrare in argomento ci preme fare cenno a quant’è difficoltoso vederci chiaro nelle cose degli indiani: se poi sapere questo non aiuterà a semplificare la questione, per lo meno servirà a nostra discolpa [se incorressimo in errori], giacché il divario impedisce di capire ciò che è facile comprendere quando, invece, vi è un’intesa.
Lo scoglio della lingua
24In primo luogo va notato che gli indiani differiscono da noi per tutto ciò sucui anche gli altri popoli [umma] divergono, ma in modo particolare per la lingua.25 Quantunque, infatti, è vero che tale differenza si riscontra pure
23 nel testo Hind, come già nel titolo, che propriamente significa India, ma come altri autori arabi dell’epoca aB utilizza lo stesso termine anche per indicare gli indiani (in arabo propriamente chiamati hindī, pl. hunūd) e gli hindū, gli indù (in arabo hindūsī, con plurale desinenziale). Contrariamente a sachau e Monteil, che nelle loro traduzioni utilizzano sovente i termini hindu e hindou, in questa sede si è cercato di mantenere l’ambiguità del testo arabo, ricorrendo ai termini India e indiani. Va del resto ricordato che il termine induismo è un’invenzione recente, dovuta agli europei: Con questa parola (derivata dall’antico iranico hindū (in sanscrito: sindhu), che significa «fiume» e, per estensione non solo il fiume per eccellenza, l’Indo, ma anche la terra dell’Indo e chi vi abita) essi vollero indicare la «religione degli hindū», come se si trattasse di una realtà unitaria (stefano piano, Hinduismo: elementi fondamentali caratterizzanti la tradizione
hindū. relazione presentata al Convegno internazionale Hinduismo e cristianesimo: prospettive per il dialogo interreligioso, Torino, 20-21 novembre 2003.). In realtà, Con
tale parola si designa non tanto una religione quanto un’intera cultura, una visione del mondo e della vita, un modo di essere e di comportarsi, una serie di abitudini quotidiane che si tramandano da millenni, con scrupolosa tenacia, in seno a una civiltà estremamente fedele al proprio passato e nella quale predomina una concezione «religiosa» dell’uomo e dell’universo (s. piano, in giovanni Filoramo (a c. di), Dizionario delle religioni, einaudi, Torino, 1993, p. 374).
24 Il testo originale non è diviso in paragrafi: la suddivisione e i titoli qui adottati riprendono per lo più (ma non sempre) quelli proposti da V. Monteil, Le livre de l’Inde, pp. 45-52 (cfr. anche e. sachau, Alberuni’s India, vol. 106, pp. 3-8, che ricorre a divisione e titoli diversi).
rispetto alle altre genti [umma], chi prova ad appianarla studiando l’idioma degli indiani si trova ad affrontare un compito non semplice. In primis, e similmente all’arabo, si tratta di una lingua a dir poco sterminata, dove una stessa cosa viene chiamata con molti nomi più o meno lunghi a seconda che siano in forma semplice [muqtaḍaba] oppure derivata [muštaqqa]. oltre a questo, poiché una stessa parola può riferirsi a un gran numero di oggetti, per raggiungere lo scopo [della comprensione] ognuna di esse va ulteriormente definita, di modo che nessuno riesce a stabilirne il significato se non capisce il contesto in cui questa parola s’inserisce e il rapporto che mantiene con quanto la precede o la segue [nel discorso]. e il bello è che gli indiani, come del resto fanno altri, lungi dall’esecrare quest’evidente pecca della loro lingua, s’insuperbiscono e ne vanno fieri!
a ciò si aggiunge la presenza di una lingua parlata buona per il volgo [sūqa] e di un’altra ben conservata nella sua forma classica con tanto di morfologia, sistema di derivazione e norme assai precise in fatto di grammatica e retorica, a cui ricorrono soltanto i grandi eruditi [al-fuḍalā’ al-mahara].
[per quanto riguarda la fonetica, i suoni di] alcune loro consonanti non somigliano neppure vagamente a quelli dell’arabo e del persiano, al punto che per emetterli correttamente dobbiamo affaticare lingue e ugole, e per distinguere fra omonimi e sinonimi siamo costretti a tendere le orecchie! persinole mani faticano a mettere per iscritto quel che dicono gli indiani, dato che per trascrivere certi suoni della loro lingua con le nostre lettere siamo costretti a escogitare mille stratagemmi (come cambiare i punti diacritici e altri segni grafici), registrando poi l’i‘rāb26 talvolta in base alle
regole dell’arabo, talaltra inventandone di nuove.
un altro colto, ma in tutta l’opera designa entrambi come hindīya, letteralmente (lingua) indiana, senza mai usare il termine sanscrito (in arabo sanskrītiyya) a cui verosimilmente allude quando parla di opere redatte in lingua indiana. sachau e Monteil notano entrambi questo fatto (e. sachau, Alberuni’s India, vol. 105, p. XXII e V. Monteil, Le livre de l’Inde, p. 45, nota 15), ma nelle loro traduzioni utilizzano il termine sanscrito ogni qualvolta aB fa esplicito riferimento alla lingua scritta. In questa sede si è invece preferito mantenere l’ambiguità dell’originale arabo, ricorrendo a espressioni del tipo “la lingua degli indiani”. 26 Con il termine i’rāb – nome verbale il cui significato originario è quello di arabizzare, fare/rendere arabo – si indicano sia il sistema di declinazione nominale, sia quello di coniugazione verbale della lingua letteraria araba. In effetti, AB applica sovente a parole ed espressioni indiane (e anche persiane) una serie di norme grammaticali proprie dell’arabo, come l’aggiunta della vocale -u propria del nominativo, il suffisso -āt per il plurale o
Abū al-Rayḥān Muḥammad b. Aḥmad al-Bīrūnī
senza parlare della negligenza degli scribi indiani, i quali pongono così poca cura nel correggere i propri lavori confrontandoli con gli originali, che nel giro di una o due ricopiature questi ultimi risultano bell’e corrotti! Vano appare dunque l’impegno che gli autori vi han profuso, giacché a quel punto i testi si direbbero redatti in una lingua affatto nuova che nessuno – né di loro né di noi – è in grado di comprendere: foss’anche ben ferrato in argomento!
[Tornando alla fonetica] mi è personalmente capitato di provare a leggere a persone indiane qualche termine che, udito dalla viva voce di qualcuno, mi ero industriato a registrare per iscritto, ma ci hanno messo un bel po’ a riconoscerlo!
ancora, come succede in tutte le lingue fuorché l’arabo, nel loro idioma due o anche tre consonanti possono succedersi l’una all’altra senza inserzione di vocali – ovvero, per dirla come i dotti, sono previsti gruppi di consonanti con vocali furtive [ḥaraka ḫafiyya] ‒ e poiché parole e nomi indiani iniziano per lo più con tali gruppi, [noi arabi] troviamo a dir poco disagevole riuscire a pronunziarli!
Come non bastasse, data la [succitata] rapidità con cui i libri si deteriorano per via di aggiunte e omissioni da parte dei copisti, gli studiosi indiani cercano di mantenere integri i loro scritti redigendoli in versi secondo questo o quel tipo di metrica a proprio piacimento. Con siffatto metodo ne facilitano senz’altro l’apprendimento a memoria – di cui si fidano più che dello scritto ‒, ma è risaputo che, onde evitare che il discorso risulti frammentato e mantenere l’uniformità dei versi, le norme [della metrica] richiedono l’utilizzo di parecchie locuzioni e una buona dose di manierismo: la qual cosa spiega, fra l’altro, la già ricordata presenza di moltissimi sinonimi.
Insomma, per tutti questi motivi risulta assai difficile, per noi, studiare i loro testi.