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Inquadramento sistematico della colpa e riflessi sul principio di affidamento

CIRCOLAZIONE STRADALE

1. Inquadramento sistematico della colpa e riflessi sul principio di affidamento

L

E APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI NELL

AMBITO DELLA

CIRCOLAZIONE STRADALE

SOMMARIO: 1. Inquadramento sistematico della colpa e riflessi sul principio di affidamento - 2. La struttura della colpa – 3. Il principio di affidamento come categoria autonoma – 3.1. Le caratteristiche del principio di affidamento - 4. Limiti all’operatività del principio di affidamento – 4.1. L’individuazione del solo, autentico, limite al principio di affidamento - 5. Sviluppo e applicazione giurisprudenziale del principio di affidamento nell’esperienza italiana: il settore della circolazione stradale – 5.1. Alcune sentenze di legittimità in materia di circolazione stradale e principio di affidamento - 6. Possibilità di individuare una legittimazione costituzionale del principio di affidamento.

1. Inquadramento sistematico della colpa e riflessi sul principio di affidamento

Poiché l’applicazione del principio di affidamento incide sul quantum di diligenza richiesta al soggetto che se ne può avvalere, in presenza di determinate circostanze, per comprenderne gli effetti è necessario prendere le mosse dall’inquadramento dogmatico della colpa.

Nell’ambito della teoria del reato l’istituto in questione assume connotazioni e determina effetti differenti a seconda della collocazione sistematica prescelta.

Infatti, la dottrina, così come la giurisprudenza, è divisa tra coloro che ritengono di dover collocare la colpa esclusivamente nell’ambito della colpevolezza e coloro che, viceversa, ritengono che ad essa occorra riservare un ruolo già sul piano della tipicità.

In particolare, sono due le concezioni che si contendono in campo: la prima è di carattere psicologico e nasce con la riforma illuministica; la seconda, di tipo normativo, si sviluppa agli inizi del Novecento, in alternativa alla prima concezione.

La concezione psicologica identifica la colpevolezza nel nesso psichico che unisce il fatto al suo autore nelle forme del dolo o della colpa: il fatto è colpevole quando l’agente lo ha voluto o, non avendolo voluto, avrebbe potuto prevederne la

realizzazione se avesse usato la diligenza richiesta1. Secondo le correnti giuridiche proprie dell’Illuminismo, l’indole e la gravità dei reati avrebbero dovuto dipendere dalla sola entità del danno obiettivamente arrecato agli interessi propri dei consociati, da ciò derivando che la colpevolezza, non potendo esplicare la propria influenza sul fondamento e sui limiti della pena, non poteva che svolgere l’unica funzione di collegare psicologicamente il fatto commesso al relativo autore2. La teoria psicologica, tuttavia, nel definire un concetto unitario di colpevolezza, presentava notevoli difficoltà sistematiche. Invero, poiché il dolo è costituito da coefficienti psichici reali (coscienza e volontà effettivamente esistenti nell’agente), mentre nella colpa si può ravvisare soltanto un coefficiente potenziale (la prevedibilità), non è possibile costruire la colpevolezza come concetto di genere: <<essa non può assumere gli elementi comuni al dolo e alla colpa, semplicemente perché questi non esistono>>3. Ne deriva che la concezione psicologica non può essere propriamente definita quale teoria della colpevolezza ma, piuttosto, quale <<teoria delle “forme” di colpevolezza>> in quanto il dolo e la colpa sono, ciascuno di per sé, un tipo di colpevolezza4.

A fronte di tale criticità si è sviluppata una differente impostazione, la c.d. concezione normativa5, che si propone di risolvere le difficoltà applicative e

1

Secondo la definizione fornita da T. PADOVANI, Diritto penale, XIª ed., Milano, Giuffrè, 2017, cit., p. 222. L’autore sottolinea che, nella sua versione originaria, la concezione psicologica considera la colpevolezza come un criterio di imputazione <<a base naturalistica>>, in quanto fondata sul riscontro di un quid effettivamente rilevabile, sia pure nella psiche del soggetto, e di <<consistenza fissa>>, perché il dolo o la colpa <<o ci sono o non ci sono; e se ci sono, non ammettono alcuna graduazione di diversa “intensità”>>.

2 Come precisa G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Torino, Giappichelli, 2018, cit., p. 367.

3

Così, T. PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 223.

4 Così secondo le argomentazioni di T. PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 224. L’autore

precisa che, alla luce di quanto affermato, <<dolo e colpa non stanno rispetto ad esse come species di un genus, ma come sostantivi rispetto ad un attributo categoriale (…); allo stesso modo che delitto e contravvenzione sono “un tipo di reato”, ma il reato non è un concetto di genere rispetto all’uno ed all’altra>>.

5 G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale. Principi, p. 373 ss., sottolinea come l’introduzione

della concezione normativa della colpevolezza, nel Novecento, per quanto riguarda i profili relativi alla colpa, sia da collegare alle evoluzioni che la società aveva subito in quegli anni, quali l’imponente sviluppo delle attività pericolose, a cui si collegava sia la necessità di circoscriverne i possibili risvolti offensivi sia la difficoltà di discernere e valutare i fattori di pericolo da parte dei soggetti chiamati a fronteggiare le numerose situazioni potenzialmente rischiose nell’esercizio di un’attività. In presenza di nuovi rischi si rendeva, dunque, necessaria la formulazione di regole destinate a fronteggiarli e, insieme ad esse, tener conto del livello di capacità, cognizioni ed esperienze dei singoli agenti, in modo da valutare la concreta esigibilità di una condotta conforme alle esigenze normative.

sistematiche della concezione psicologica, superandola. Secondo quest’ultima concezione, la colpevolezza dovrebbe essere identificata nel contrasto tra il divieto o il comando penale e la volontà dell’agente cui esso è diretto. Il soggetto, cioè, non ha adeguato la propria volontà e, dunque, la propria condotta, alla richiesta normativa perché, per quanto concerne il reato colposo, non ha rispettato la regola cautelare la cui puntuale osservanza avrebbe permesso di prevedere il verificarsi dell’evento dannoso e, di conseguenza, evitarlo. Dunque, il perno attorno a cui ruota la concezione in esame è il “dovere”, così che <<il baricentro della colpevolezza si risolve in un giudizio normativo di rimproverabilità personale>>6. Ne deriva che l’oggetto del giudizio di colpevolezza è dato da tre elementi: l’imputabilità del soggetto (capacità di intendere e volere); il nesso psichico tra l’agente ed il fatto; le circostanze concomitanti, che hanno influito sul processo di motivazione dell’agente (come, ad esempio, le condizioni familiari, il livello di istruzione, le condizioni economiche ecc.), alla luce delle quali sarà necessario valutare la maggiore o minore esigibilità di un comportamento conforme alla norma da parte dell’autore del reato7

.

I contenuti della concezione normativa, tuttavia, hanno subito diverse modificazioni da parte della dottrina. Benché il codice penale, all’art. 43, contenga la definizione di reato colposo in una norma dedicata all’elemento psicologico, parte della dottrina, e con essa la giurisprudenza, ha ritenuto che la colpa, intesa quale violazione di una regola cautelare, sia da ritenere quale <<qualità

6 Secondo la definizione di T. PADOVANI, Diritto penale, cit. p. 224. L’autore evidenzia

come, per come delineata, la concezione normativa determina una <<dilatazione della colpevolezza su due versanti: quello del parametro di giudizio (che, rispetto alla “esigibilità” si proietta verso criteri valutativi extragiuridici) e quello dell’oggetto del giudizio (che si amplia alle “circostanze concomitanti”). A fronte di ciò l’autore sottolinea due ordini di problemi che possono derivare da tale ampliamento poiché, da un lato, l’identificazione del parametro di esigibilità, secondo criteri etico-sociali, renderebbe problematico il limite della loro rilevanza, rischiando di subordinare la legge penale a norme di tipo etico o sociale, minando così la certezza del diritto, e dall’altro, la dilatazione dell’oggetto alle circostanze concomitanti fa anch’essa emergere un problema di limiti, ponendosi la necessità di delimitare quali siano le circostanze cui dare rilevanza e quali quelle da escludere dal giudizio.

7

Ad introdurre, quale oggetto del giudizio di colpevolezza, il modo di atteggiarsi delle circostanze destinate a influire sul processo di motivazione all’origine della condotta delittuosa, fu Reinhard Frank, il quale, in uno scritto del 1907, ha attribuito alla colpevolezza una caratterizzazione differente da quella puramente psicologica, ed è per ciò considerato il capostipite della visione normativa della colpevolezza. In particolare, egli evidenziava l’importanza del processo di motivazione all’origine dell’illecito sostenendo che le circostanze da cui era scaturita la condotta delittuosa dovessero svolgere un ruolo di coefficiente di graduazione della responsabilità penale. Per tale ricostruzione v. G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale. Principi, p. 369 ss.

connotativa dell’illecito>>, operante quindi già a livello di tipicità del fatto, e non solo nell’area della colpevolezza8

. In tal senso, <<la colpa, quale momento soggettivo e normativo del reato svolge anche (e anzitutto) il ruolo di elemento soggettivo e normativo della fattispecie>>9, si assiste, dunque, all’attrazione della colpevolezza nella tipicità. Si è così giunti alla c.d. teoria della “doppia misura” della colpa che, nella sostanza, scinde il fatto colposo in due momenti distinti, l’uno rientrante nella categoria della tipicità (o dell’elemento oggettivo del reato) l’altro in quella della colpevolezza (o dell’elemento soggettivo).

Tale impostazione, tuttavia, non è unanimemente condivisa dalla dottrina. Vi è, infatti, chi, pur condividendo l’esigenza che la colpa operi già sul piano della tipicità del fatto, teme che tale impostazione, determinando una iper- oggettivazione della colpa, (incentrata sul momento dell’antigiuridicità e sul carattere inosservante del comportamento tenuto) conduca la giurisprudenza, come di fatto avviene, ad arrestarsi a tale livello senza indagare i profili di rimproverabilità del soggetto e l’esigibilità, da parte di questi, di un comportamento conforme alla regola violata, rischiando così di enucleare forme di responsabilità oggettiva. Onde evitare tale temuta conseguenza, alcuni autori hanno proposto di introdurre gli elementi soggettivi e psicologici (come l’involontarietà del fatto e le circostanzi concomitanti rispetto alla condotta, quali, ad esempio, condizioni di stanchezza o debolezza o di spavento o stress emotivo oppure legate all’ inesperienza), insieme agli elementi normativi, nella descrizione del contenuto del fatto illecito colposo, in modo che questi connotino già la fattispecie colposa, e permettendo, di conseguenza, un giudizio volto ad una maggiore individualizzazione della responsabilità del soggetto10. Un fatto colposo

8 Per tale ricostruzione v. M. GROTTO, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, Giappichelli, 2012, p. 17 ss., e D. CASTRONUOVO, La colpa penale,

Milano, Giuffrè, 2009, p. 135 ss., M. MANTOVANI, Il principio, p. 146 ss.

9 Così, D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 137.

10 In tal senso, D. CASTRONUOVO, La colpa penale, p. 561 ss. e D. CASTRONUOVO, L’evoluzione teorica della colpa penale tra dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen.,

2011, p. 1636. In particolare l’autore giunge a tale conclusione evidenziando le problematiche che la necessaria eterointegrazione normativa delle regole cautelari comporta sul piano del rispetto dei principi di legalità, intesa come determinatezza e tassatività della fattispecie, e di colpevolezza. La soluzione prospettata, invece, permetterebbe di predeterminare la condotta criminosa, comportando una maggiore determinatezza del precetto in favore del destinatario. Si noti, inoltre, che la soluzione proposta dall’autore è da lui derivata anche sulla base della differenziazione tra colpa penale e colpa civile, dal momento che quest’ultima è incentrata sulla causazione di un danno, determinando una responsabilità di tipo oggettivo, mentre la prima persegue finalità

così caratterizzato, sia soggettivamente sia psicologicamente, e, dunque, non inteso solo come inosservanza cautelare, si presterebbe meglio, secondo tale impostazione, a rappresentare la base del giudizio di colpevolezza, fondato sulla relazione tra il fatto inosservante e il potere dell’autore, valutato nella situazione concreta11. Tale impostazione eviterebbe alcune derive applicative cui ha portato la “doppia misura” della colpa, la quale non ha pienamente valorizzato la comprensione degli aspetti soggettivi ed individualizzanti del giudizio di colpa12. Tale, impostazione, tuttavia, per quanto apprezzabile negli intenti, non è condivisa dalla dottrina.

In senso diametralmente opposto si sono mossi alcuni autori che, pur ammettendo la componente normativa della colpa, non la hanno portata alle sue estreme conseguenze, riconoscendole un ruolo sul piano della tipicità, ma, anzi, più condivisibilmente, ritengono che essa debba essere inquadrata esclusivamente sul piano della colpevolezza.

Si tratterebbe, dunque, di accertare l’esistenza di una regola di diligenza, codificata o meno, e che ad essa appaia contraria una condotta tipica, il che, tuttavia, <<non implica che tale condotta debba e possa per ciò solo essere rimproverata a titolo di colpa al suo autore>>13. Si rende, infatti, necessario valutare se la violazione obiettiva del dovere di diligenza possa anche soggettivizzarsi, dovendosi cioè vedere quale significato acquisti la violazione del dovere di diligenza messa in rapporto con la personalità dell’agente, valutando se, alla luce delle sue condizioni personali e della situazione in cui si è trovato ad

differenti, che si articolano secondo le logiche preventive e speciali del <<ne peccetur>> o, comunque, nella prospettiva di una prevenzione speciale positiva. Per quanto concerne, più nel dettaglio, le differenze tra colpa penale e colpa civile v. D. CASTRONUOVO, La colpa penale, p. 476 ss.

11 D. CASTRONUOVO, La colpa penale, p. 562, precisa che << l’insieme degli elementi

normativi, soggettivi e psicologici di tipicità soggettiva connoterebbe il fatto illecito come colposo distinguendolo, da un lato, da quello doloso e, dall’altro, dai fatti illeciti ma penalmente irrilevanti corrispondenti a una nozione solo “denotativa” di fatto, perché privi di un requisito soggettivo di imputazione compatibile con lo standard minimo di garanzia del diritto penale: ossia, la colpa>>.

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Definendo la colpa come anche colpevolezza tale impostazione ha determinato un problema di accertamento dei fattori psicologici e soggettivi in sede giudiziale. Invece, <<ricostruita una tipicità colposa arricchita da elementi normativi, soggettivi e psicologici, la questione della collocazione di tali fattori anche nella colpevolezza perde d’importanza: quel che conta è che, nell’effettuare il giudizio di colpevolezza, tutti quegli elementi della colpa siano posti in relazione all’autore, al fine di verificare se sopravvivano alla “prova di resistenza” dell’individualizzazione della responsabilità; ossia, se è possibile, in definitiva muovere al soggetto un rimprovero per colpa>>. Così, D. CASTRONUOVO, La colpa penale, cit., p. 563.

agire, fosse esigibile che egli tenesse la condotta prescritta e sia, di conseguenza, rimproverabile. Ne consegue che, per potersi muovere un rimprovero a titolo di colpa al soggetto, in termini di colpevolezza, <<non basta che la condotta tenuta da un soggetto sia contraria ad un dovere obiettivo di diligenza, ma è necessario che essa contrasti anche col suo dovere subiettivo di diligenza; e cioè con quella regola di diligenza che risulta dall’adeguamento del dovere obiettivo alle condizioni personali dell’autore della condotta>>14

.

Tuttavia, tale accertamento, sebbene scindibile dogmaticamente in due momenti (violazione della regola di diligenza e rimproverabilità del soggetto) <<non deve portare ad attribuire una diversa natura ai dati sui quali vertono, come talvolta, fa, invece, la dottrina quando identifica la contrarietà al dovere obiettivo di diligenza con l’antigiuridicità obiettiva del fatto colposo e tiene fermo che solo la contrarietà al dovere subiettivo di diligenza fonda la colpevolezza>>15. Secondo tale impostazione, dunque, l’accertamento della estensione obiettiva del dovere di diligenza, pur essendo separabile, non costituisce una fase autonoma della valutazione di colpa, ma è solo una premessa del giudizio soggettivo finalizzato a determinare quale fosse la diligenza richiesta al singolo autore nel caso concreto e, quindi, la sua colpevolezza.

In conclusione, pertanto, la nozione di colpa può essere concepita, in relazione ad un comportamento tipico riferibile ad un soggetto, solo quale risultante di un concreto e complesso giudizio di disvalore normativo i cui termini sono rispettivamente, il dovere di diligenza, accertato sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, del soggetto, che gli imponeva di tenere un comportamento diverso, e la condotta effettivamente tenuta. Ne consegue che la tipicità del fatto non deve essere collegata alla violazione della regola cautelare, dovendo

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Così T. PADOVANI, Il grado della colpa, cit. p. 878. In conseguenza di quanto affermato, l’autore precisa che <<non è sufficiente che egli abbia tenuto un atteggiamento psichico contrario a quello che avrebbe dovuto tenere; bisogna, di più, che il suo atteggiamento psichico sia anche difforme da quello che egli avrebbe potuto tenere. Dopo aver determinato il “dover fare” di un soggetto in termini obiettivi, è necessario, dunque, stabilire, anche il suo “poter fare” in termini subiettivi>>.

15 Come precisa, T. PADOVANI, Il grado della colpa, cit. p. 878. Tale conclusione si deve al

fatto che <<l’antigiuridicità consiste nel contrasto del fatto coi fini dell’ordinamento giuridico, in quanto il fatto stesso offende un interesse giuridicamente tutelato. Il giudizio di antigiuridicità si svolge, dunque, su un piano perfettamente diverso e staccato da quello della colpevolezza e rappresenta una valutazione di tipo obiettivo che investe il fatto come fenomeno materiale, e non già gli atteggiamenti psichici del suo autore>>.

ravvisarsi nella presenza degli elementi previsti nella fattispecie incriminatrice, mentre la violazione del dovere di diligenza e l’eventuale rimproverabilità che ne consegue pertengono entrambi al piano della colpevolezza.

Un’ulteriore impostazione16

riconduce anch’essa la colpa esclusivamente alla sfera della colpevolezza prendendo le mosse dalla natura delle regole cautelari. Quest’ultime si contraddistinguerebbero per il fatto di avere un carattere <<strumentale>>, nel senso che tali regole non appartengono al precetto penale concernente il divieto di cagionare l’evento17

. Piuttosto, le regole cautelari darebbero luogo ad una valutazione di “secondo grado” secondo cui, una volta considerato il giudizio negativo circa il fatto tipico in sé considerato (si pensi, ad esempio, alla causazione di un omicidio o di lesioni personali da parte di un guidatore), esse determinano la possibilità di imputarlo all’agente proprio in funzione della condotta strumentale che si poteva da lui esigere per evitare il prodursi dell’offesa.

Tale impostazione, secondo l’opinione in esame, imporrebbe di concepire la colpa alla luce della sua correlazione teleologica con il piano attinente al giudizio di colpevolezza. Se così non fosse, infatti, non avrebbe senso che i precetti cautelarsi si pongano come modelli strumentali di condotta suscettibili di essere utilizzati dai relativi destinatari; ciò anche alla luce del fatto che è proprio il potere-dovere di mettere in pratica tali cautele che porterà ad individuare la specifica categoria di destinatari suscettibile di comprendere coloro cui tali regole cautelari sono personalmente riferite18.

16 Ossia quella di G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale, I fondamenti, Torino, Giappichelli,

2008, p. 429 ss., e G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale. Principi, op. cit., p. 451 ss.

17 A tal proposito G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale. Principi, p. 448, pone l’esempio

della circolazione stradale, sottolineando come il precetto corrispondente alla norma sull’omicidio o sulle lesioni personali <<si pone su di un piano differente rispetto all’imperativo “strumentale” connesso all’osservanza di determinate regole di diligenza e di perizia nel corso della guida>>. La regola cautelare, infatti, non dispone il divieto di uccidere o produrre lesioni a qualcuno nel corso della guida ma indica le modalità da seguire al fine di evitare il prodursi di tali eventi nefasti.

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In tal senso, G.A. DE FRANCESCO, Diritto penale. Principi, p. 448. L’autore, inoltre, critica le teorie che riconducono la colpa al piano della tipicità ritenendo che la costruzione di una regola cautelare obiettiva, sia essa corrispondente al massimo livello di conoscenza ed esperienza (come l’autore ritiene corretto) presenti nel momento storico, oppure si fondi sul riferimento al parametro dell’agente modello, non legittimerebbe l’introduzione di un livello distinto rispetto al momento soggettivo dell’imputazione per colpa. In particolare, la critica è sviluppata in modo triadico. In primo luogo non sembrerebbe corretta l’affermazione, sostenuta dai sostenitori della “doppia misura” della colpa, secondo cui la regola obiettiva di diligenza sarebbe la sola compatibile con gli interessi dell’ordinamento, dal momento che ciò condurrebbe a vietare

La questione dell’inquadramento dogmatico della colpa, è di primario rilievo in relazione alle conseguenze che l’applicazione del principio di affidamento comporta. In particolare, coloro i quali condividono la teoria della “doppia misura” della colpa, ritengono che il Vertrauensgrundsatz, essendo relativo all’aspettativa che i soggetti con cui ci si relaziona rispettino le regole di diligenza

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