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La responsabilità colposa del medico in posizione apicale

CIRCOLAZIONE STRADALE

6. I diversi modelli di cooperazione tra medici e le loro conseguenze sull’operatività del principio di affidamento

6.2. La cooperazione verticale tra medici con differente posizione gerarchica

6.2.2. La responsabilità colposa del medico in posizione apicale

Si tratta adesso di valutare gli eventuali profili di responsabilità del sanitario collocato in posizione di sovraordinazione gerarchica, nel caso in cui si verifichino eventi dannosi per il paziente a seguito di condotte colpose dei soggetti subordinati. La figura di sanitario in esame, riconducibile al primario (ora dirigente di struttura complessa) o al capo-équipe, è quella che pone i maggiori problemi, dal momento che, più delle altre, si espone al rischio di affermazione di una responsabilità per posizione o per fatto altrui. Spesso, infatti, nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, si assiste all’affermazione della penale responsabilità del medico in posizione apicale per i fatti colposi commessi dai sottoposti, in virtù di una generale posizione di garanzia assoluta nei confronti di tutti i degenti ricoverati nel proprio reparto, a prescindere della loro assegnazione ad altri medici144. Da tale posizione di garanzia viene fatto discendere un obbligo di controllo costante sull’operato dei collaboratori, da cui deriva inevitabilmente un drastico affievolimento del principio di affidamento. Ciò, oltre ad essere costituzionalmente illegittimo (per violazione dell’art. 27, comma 1, Cost.), risulta anche dogmaticamente scorretto: la sussistenza di una posizione giuridica di garanzia non può dirsi sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale del medico in posizione apicale, essendo, invece, necessario l’accertamento della violazione di una regola cautelare e dell’attribuibilità soggettiva di detta violazione145

. Infatti, il corretto comportamento del medico in posizione apicale non può farsi coincidere con un generico obbligo di vigilanza continuo e generale: occorre, infatti, verificare puntualmente quale sia la regola cautelare violata nella situazione concreta, tenendo conto della pluralità di funzioni attribuite a tale sanitario. La legge attribuisce al primario non solo funzioni relative alla sua specializzazione sanitaria (quindi direttamente attinenti alla cura e assistenza dei pazienti) ma anche, più in generale, funzioni di tipo gestionale-organizzativo. L’art. 15 del d.lgs. n. 502/1992 dispone, infatti, che al dirigente di struttura complessa spetti la funzione di

144 Così, ad esempio, in Cass. pen. Sez. IV, 5 maggio 2015, n. 33329, in Cass. pen. fasc. 3,

2016, da DeJure, dove si afferma che << il principio di affidamento non trova applicazione nei confronti della figura del capo-équipe: chi dirige l’attività del gruppo di lavoro ha la responsabilità di una costante e diligente vigilanza in ogni momento>>.

direzione ed organizzazione del reparto, da attuarsi mediante l’adozione di direttive a tutto il personale in esso operante146. Dunque, il medico in posizione sovraordinata deve, in primo luogo, occuparsi di organizzare il proprio reparto, ripartendo compiti e funzioni e predisponendo procedure standardizzate che individuino le modalità di esecuzione degli interventi.

Alla luce della disciplina, deve ritenersi che il primario eserciti la propria funzione di controllo sull’andamento del reparto mediante la corretta organizzazione, che permette, già in via preventiva, di impedire il verificarsi di eventi lesivi ai danni dei pazienti; non sarebbe realistico pretendere che egli eserciti in modo diretto, continuo ed illimitato, una vigilanza sull’operato dei propri collaboratori. In tal senso, l’organizzazione svolge un ruolo fondamentale nei meccanismi di funzionamento delle strutture complesse, poiché la divisione coordinata dei compiti permette a ciascuno di concentrarsi al meglio su quelli a lui spettanti, di modo che si possa raggiungere il miglior risultato operativo, nell’interesse della salute del paziente.

Ciò che più rileva, ai nostri fini, è che l’adempimento degli obblighi di corretta organizzazione e direzione della struttura permette al medico in posizione apicale di fare legittimo affidamento sull’operato dei propri collaboratori e di andare esente da responsabilità per eventuali errori imputabili a questi147; ciò varrà fintanto che, nel caso concreto, non siano conosciute (si pensi ad eventuali segnalazioni da parte di terzi o alla diretta percezione della condotta scorretta dei propri colleghi) o conoscibili le loro condotte colpose. Viceversa, sarà ravvisabile una responsabilità di natura omissiva (per culpa in vigilando) in tutti i casi in cui emerga che l’evento dannoso è conseguenza di una non corretta o, nei casi

146 Il comma 6 dell’art. 15 d.lgs. n. 502/1992 dispone che <<ai dirigenti con incarico di

direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione ed organizzazione della struttura, da attuarsi, nell’ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l'adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l'appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il dirigente è responsabile dell'efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite. I risultati della gestione sono sottoposti a verifica annuale tramite il nucleo di valutazione>>.

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In tal senso, A. MASSARO, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato

altrui: riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, in Cass. pen., fasc. 11, 2011,

p. 3857 ss., nota a Cass. pen. Sez. IV, 2 aprile 2010, n. 19637, da DeJure, e C. SILVA,

peggiori, manchevole, organizzazione del reparto (quando il primario abbia violato il proprio dovere di impartire istruzioni o direttive) oppure di una condotta colposa del medico subordinato il quale non abbia ottemperato alle direttive ricevute. In quest’ultimo caso, in particolare, non si potrà far discendere automaticamente la responsabilità del primario dovendosi, al contrario, individuare i contenuti e l’ampiezza del suo dovere di controllo circa la corretta attuazione delle proprie direttive e, insieme, i limiti di riconoscibilità della condotta colposa altrui148.

A tal proposito, si è visto come le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 229/1999 abbiano ampliato i margini di autonomia dei sanitari; a ciò dovrà necessariamente conseguire una differente estensione del dovere di controllo del medico in posizione apicale, soprattutto a seconda del tipo di qualifica rivestita dal soggetto subordinato. L’art. 15 d.lgs. n. 502/1992 (come modificato dal d.lgs. n. 229/1999) stabilisce, infatti, che il dirigente alla prima assunzione (assistente) sia chiamato a svolgere la sua attività nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura complessa, mentre il dirigente sanitario con cinque anni di assunzione (il quale può anche vedersi attribuita la direzione di una struttura semplice) non è più destinatario di istruzioni operative da parte del primario, ma solo di direttive di carattere generale riguardanti l’organizzazione della struttura di reparto. È evidente, pertanto, che tali diversi ambiti di autonomia e competenze, riconosciuti ai medici in posizione subalterna, incidano necessariamente sul contenuto del dovere di vigilanza del medico apicale: maggiore e più stringente sul medico in posizione iniziale, meno incisivo sull’aiuto, avendo questi maggiori spazi di autonomia decisionale149.

Inoltre, attenta dottrina ha sottolineato la necessità di rapportare tale dovere di controllo alla specifica situazione in cui il soggetto si è trovato ad operare, dovendosi in ragione di ciò distinguere tra “casi di difficile soluzione”, rispetto ai

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G. IADECOLA, La responsabilità medica, op. cit., p. 155, sottolinea come, alla luce del dettato normativo, non si possa certo sostenere che le nuove norme possano autorizzare l’assunto secondo cui condotte inadeguate e lesive, poste all’interno della struttura, siano diventate riferibili all’esclusiva responsabilità di chi le abbia materialmente realizzate ma che, nondimeno, <<la vigente descrizione delle competenze e del raggio di intervento della figura apicale non sembra contemplare anche poteri-doveri di generalizzata e continuativa sorveglianza sulle scelte diagnostico-terapeutiche operate dagli altri sanitari>>.

quali il controllo del primario dovrà essere particolarmente incisivo, e “casi di semplice soluzione”, per i quali, una volta adempiuti correttamente i doveri di organizzazione del reparto il primario potrà far affidamento sul corretto adempimento delle regole cautelari da parte del collaboratore150.

Dunque, se è certamente vero che il primario ha il dovere di conoscere lo stato di salute di ogni paziente ricoverato nel suo reparto, non sempre il dovere di controllo si configura allo stesso modo, intensificandosi nel caso di prestazioni eseguite da medici meno esperti oppure di particolare complessità o pericolosità per la salute del paziente. Infine, il dovere di controllo acquisterà massima portata, indipendentemente dalla qualifica del subordinato, nel caso in cui il primario percepisca elementi fattuali che rendano prevedibile il non rispetto delle regole cautelari da parte del collaboratore; in tale evenienza questi dovrà vigilare strettamente sull’operato del collega e, se del caso, esercitare il potere di avocazione riconosciutogli dall’art. 63 d.P.R. n. 761/1979. A ogni modo, anche in suddette circostanze, bisognerà accertare se la violazione cautelare commessa dal sottoposto fosse percepibile e riconoscibile dal medico apicale alla luce delle circostanze concrete che, nonostante la particolare esperienza tecnica ed anzianità del primario, possono talvolta far escludere l’evidenza dell’errore e la sua attribuibilità a detto sanitario151.

Nell’ambito dei compiti di organizzazione del primario, rientra anche il dovere di coordinare l’attività del reparto, cioè di selezionare i compiti delegabili ai collaboratori e scegliere, tra questi, coloro ritenuti in grado di svolgerli. Secondo quanto disposto dall’art. 63 d.P.R. n. 761/1979152

; infatti, sul dirigente di struttura complessa grava l’obbligo di ripartizione dei compiti tra i medici appartenenti al reparto da lui diretto, il cui adempimento risulta indispensabile per il corretto svolgimento delle mansioni di natura prettamente specialistica.

150 Si veda, in dottrina, C. SILVA, Responsabilità colposa e principio di affidamento, p. 468, e

A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, p. 255 ss.

151

A. MASSARO, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato altrui, p. 3858. In tal senso, v. anche E. GRECO, Gestione del rischio clinico e attività medica svolta in

regime di plurisoggettività. Imputazione dell’evento per colpa e delega di funzioni in campo sanitario, in Riv. it. med. leg. dir. san.,fasc. 3, 2018, p. 1033 ss., nota a Cass. pen. Sez. IV, 21 giugno 2017, n. 18334,da DeJure.

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L’articolo, infatti, dispone che il medico in posizione sovraordinata <<assegna a sé o agli altri medici i pazienti ricoverati e può avocare casi alla sua diretta responsabilità (…). Le modalità di assegnazione in cura dei pazienti debbono rispettare criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza>>.

Tale ulteriore obbligo può determinare, se non correttamente adempiuto, ulteriori profili di responsabilità penale a carico del primario. Infatti, suddetto sanitario non si libera da responsabilità per il solo fatto di aver affidato ad altri la cura del paziente poiché, in caso di evento infausto conseguente al fatto colposo del subordinato, potrebbe essere chiamato a risponderne. In particolare, si tratta di valutare, da un lato, su quali basi il primario debba effettuare la scelta dei collaboratori cui affidare certi incarichi e, dall’altro, la portata liberatoria dell’attribuzione dell’incarico.

Con riferimento al primo profilo, la dottrina è unanime nel ritenere che il medico in posizione apicale, prima di affidare delle mansioni nel proprio reparto, sia tenuto ad individuare le categorie di compiti delegabili e, successivamente, attribuirli ad un soggetto dotato delle capacità tecniche necessarie per adempierli correttamente. In particolare, la verifica non deve fondarsi sulla qualifica giuridico-funzionale del sanitario quanto, piuttosto, sulle sue effettive capacità153, che devono essere personalmente saggiate dal primario. Ne consegue che il primario non può desumere le capacità tecniche del soggetto dal solo fatto che quest’ultimo sia stato vincitore di un concorso pubblico e sia stato incardinato nel reparto, ma ha il preciso obbligo di far precedere un’opera di personale controllo e critica delle capacità tecniche di tutto il personale da lui dipendente, prima di affidare a chiunque mansioni implicanti una qualsiasi autonomia154.

Dunque, laddove non sia tecnicamente in grado o non sia sufficientemente preparato, un medico non potrà essere investito dal dirigente di compiti: il dirigente dovrà scegliere un altro sanitario tra i colleghi più preparati o compiere egli stesso l’intervento155. Viceversa, in caso di verificazione di evento lesivo ai danni del paziente, il primario potrà essere ritenuto responsabile, a titolo di culpa

in eligendo, per aver affidato le mansioni ad un soggetto non idoneo; in tale

153 A.R. DI LANDRO, Vecchie e nuove linee, cit., p 259. 154

A. PALMA, Paradigmi ascrittivi, cit. p. 145.

155

Merita rilevare che su tale profilo la dottrina risulta divisa. Alcuni autori, infatti, ritengono che per il primario non sarebbe possibile saggiare le concrete capacità del collaboratore nel caso in cui i soggetti siano inseriti in una struttura sanitaria pubblica, in cui la scelta del personale non è richiesta al dirigente della struttura ma obbedisce a chiamate dirette da parte del direttore dell’azienda e a regole concorsuali. Ne consegue che, qualora alla qualifica professionale non corrispondano capacità effettive, il dirigente potrebbe solo attivare le opportune procedure amministrative per segnalare la questione al direttore sanitario. In tal senso, A.R. DI LANDRO,

scenario la responsabilità del soggetto delegante concorrerà, ex art. 113 c.p., con quella del soggetto delegato. A tal proposito la dottrina distingue tra “errori di esecuzione” (riconducibili a condotte negligenti, che si verificano nelle attività di routine, a causa di disattenzione, nonostante la competenza tecnica del medico) ed “errori di valutazione” (derivanti da lacune nella preparazione o competenza del medico e sostanziantisi in condotte imperite); solo con riferimento ai primi sarebbe possibile applicare il principio di affidamento, non potendosi pretendere dal soggetto apicale una costante presenza nella struttura ed un controllo continuo sui collaboratori, mentre per i secondi sarebbe ipotizzabile la colpa del medico apicale. Quest’ultimo, infatti, potrebbe essere ritenuto responsabile dell’esito infausto, derivante da errore di valutazione, del proprio collega laddove emerga che tale errore è la conseguenza dell’attribuzione a detto sanitario di mansioni che non era in grado di adempiere. La responsabilità del primario andrà, viceversa, esclusa laddove egli abbia correttamente esercitato il proprio potere di organizzazione del reparto. La stessa Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità di un primario, che aveva correttamente delegato alcuni compiti ai medici subordinati, sostenendo che debba <<escludersi che il medico di vertice abbia effettivamente in carico la cura di tutti i malati nel proprio reparto, poiché l’assegnazione dei pazienti ad altri medici assolve ad una funzione di razionalizzazione nell’erogazione del servizio sanitario>>156. Si tenga, infine, presente, che nel delegare un compito al proprio collaboratore, il primario ha l’obbligo di impartire direttive per definire i criteri diagnostici e terapeutici; esse hanno carattere tecnico, in quanto definiscono linee di condotta tese a garantire il miglior esito possibile del trattamento. Tale configurazione delle direttive impartite dal dirigente al collaboratore consente di classificarle, secondo una certa dottrina, come vere e proprie regole cautelari, attinenti allo svolgimento di un’attività caratterizzata da un elevato coefficiente di rischio157

. Ne consegue che in caso di loro violazione si darebbe luogo ad un’ipotesi di colpa specifica,

156 Cass. pen. Sez. IV, 21 giugno 2017, n. 18334, con nota di E. GRECO, Gestione del rischio clinico, op. cit.

trattandosi di regole cautelari positivizzate rientranti nella nozione di discipline di cui all’art. 43 c.p.158

.

6.2.3 La responsabilità per carenze strutturali ed organizzative

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