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le interazioni fra le persone sono guidate dalle rappresentazioni soggettive di sé, degli altri e del-

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IL SETTING INTERNO

4 le interazioni fra le persone sono guidate dalle rappresentazioni soggettive di sé, degli altri e del-

le relazioni interpersonali che ciascuno possiede; lo sviluppo della personalità implica non soltanto un apprendimento della regolazione degli affetti, ma anche l’evoluzione da uno stato immaturo di dipendenza sociale a uno stato maturo di interdi- pendenza” (Amadei G., Cavanna D., Zavattini G.C., 2015). A tale proposito, tra gli aspetti trattati dalla psicodinamica psicoevoluzionista, una linea di ricer- ca pone la domanda sull’origine e l’evoluzione delle difese: da quale stadio di evoluzione si può ipotiz- zare l’esordio delle difese psicologiche dell’essere umano e come si presenta la loro struttura, orga- nizzazione, funzione? Una risposta moderna è che “[…] l’organismo nasce con due sistemi difensivi di specie appropriati, flessibili, intercorrelati e in con- tinua trasformazione ed evoluzione, ogni essere umano nasce sia con un sistema anatomico-fisio- logico-biologico difensivo (il sistema immunitario fisiologico e biologico difensivo), sia con un Sistema Strategico Psicoevolutivo Difensivo (SSPD) (il siste- ma immunitario psicologico difensivo) (Frateschi M, 1989). Il biologo Monod (1970) afferma che ogni organismo rappresenta un’unità funzionale coe- rente e integrata. Quindi, l’organismo è una entità che si costruisce da sé per interazioni costruttive interne molecolari, simultanee al riconoscimento di altre molecole (funzione teleonomica di proteine, DNA, RNA). “Il progetto teleonomico” è la trasmis- sione, da una generazione all’altra, del “contenuto di invarianza” caratteristico della specie.

Uno sviluppo psicodinamico psicoanalitico moderno proviene da Green che afferma: “All’inizio della vita psichica, la lotta per il piacere è molto più intensa che in seguito, ma più limitata, essa subisce frequenti rove- sci. Tengo a precisare che la mia maniera di compren- dere il legamento si allontana qui da quella di Freud. Ora, se ci si colloca da un punto di vista più moderno, considerando che le pulsioni sono meno elementari e che il montaggio pulsionale è presente sin dall’inizio, si concluderà che il concetto di legamento delle pulsio-

ni risale a questo stadio primitivo. Non è necessario stabilire che il legamento è in rapporto soltanto con il passaggio dal processo primario al processo secon- dario. È una caratteristica del montaggio pulsionale, prima che diventi un’espressione dei processi prima- ri. Di conseguenza, essa rappresenta una forma di attività primitiva che acquista valore dal montaggio pulsionale, anche prima del passaggio dal processo primario al processo secondario. Detto altrimenti, lo slegamento conduce a dei meccanismi molto precoci. È una delle espressioni del fallimento che impedisce l’accesso al principio del piacere-dispiacere… La teoria delle pulsioni di Freud è stata ingiustamente opposta a quella delle relazioni oggettuali. Ora queste due con- cezioni non sono antagoniste, e si completano l’una con l’altra, dato che l’ultima teoria delle pulsioni, che include le pulsioni di vita e d’amore, implica l’esistenza dell’oggetto. Essa rende conto della forza che ci anima e che ci spinge in avanti, mentre il ripiegamento su di sé, la depressione o il disinvestimento schizoide mostrano che essa può essere neutralizzata, per- duta più o meno temporaneamente, o gravemente alterata in misura definitiva. Ricordiamoci i termini di Freud: pulsioni “d’amore o di vita”. L’amore della vita è il nostro bene più prezioso. È da questa parte che il lavoro dell’analista svolge il suo combattimento… Il neonato ha bisogno d’aria, di calore, di nutrimento e acqua. In questo non differisce da altri animali. Ma ha bisogno dell’altro simile per fondare le basi della sua gioia di vivere, della condivisione dell’amore, e delle premesse del senso” (A. Green, 2016). Occorre ricordare che Freud dice che: “Esiste verso l’esterno una protezione dagli stimoli tale per cui le quantità di eccitamento in arrivo avranno un effetto considere- volmente ridotto. Verso l’interno una protezione del genere è impossibile; gli eccitamenti degli strati più profondi proseguono direttamente e senza alcuna diminuizione del loro ammontare fino al sistema, dato che alcune delle loro caratteristiche danno origine alla serie delle sensazioni piacere-dispiacere… Chiamia- mo “traumatici” quegli eccitamenti che provengono dall’esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Penso che il concetto di trauma implichi questa idea di una breccia inferta nella bar- riera protettiva che di norma respinge efficacemente

gli stimoli dannosi. Un evento come il trauma esterno provocherà certamente un enorme disturbo nell’eco- nomia energetica dell’organismo, e mobiliterà tutti i possibili mezzi di difesa… Penso che possiamo arri- schiarci a considerare la comune nevrosi traumatica come la conseguenza di una vasta breccia apertasi nella barriera protettiva. La condizione perché esso si verifichi è che manchi quella preparazione [al pericolo] propria dell’angoscia che implica il sovrainvestimento dei primi sistemi che ricevono lo stimolo. Quando il livello del loro investimento è basso, i sistemi non sono in grado di legare l’ammontare degli eccitamenti in arrivo, e le conseguenze dell’irruzione attraverso la barriera protettiva si fanno sentire tanto più facil- mente. Vediamo così che la preparazione connessa all’angoscia e il sovrainvestimento dei sistemi ricet- tivi che l’accompagna rappresentano l’ultima linea di difesa contro gli stimoli. In tutta una serie di traumi la differenza tra i sistemi impreparati e quelli preparati, perché soprainvestiti, può essere il fattore decisivo l’esito finale; questo fattore non ha tuttavia più alcun peso quando la violenza del trauma supera certi limiti. Nelle nevrosi traumatiche i sogni riportano abitual- mente il malato nella situazione dell’incidente; e in questo caso va detto che essi non assolvono certo la funzione loro assegnata dal principio del piacere di appagare i desideri in forma allucinatoria. Possiamo invece supporre che essi aiutino a venire a capo di un altro compito, che deve essere risolto prima che possa instaurarsi il dominio del principio del piace- re. Questi sogni cercano di padroneggiare gli stimoli retrospettivamente, sviluppando quell’angoscia la cui mancanza era stata la causa della nevrosi traumatica. Essi ci permettono così di farci un’idea di una funzio- ne dell’apparato psichico che, senza contraddire al principio del piacere, è però indipendente da esso, e pare più primitiva del proposito di ottenere piacere ed evitare dispiacere” (Freud S., 1920).

Winnicott (1971) evidenzia che: “Non vi è possibili- tà alcuna per il bambino di procedere dal principio del piacere al principio di realtà, o verso e oltre l’i- dentificazione primaria (vedi Freud, 1923), a meno che non vi sia una madre sufficientemente buona. La “madre” sufficientemente buona (non necessa- riamente la madre vera del bambino) è una madre

che attivamente si adatta ai bisogni del bambino, un adattamento attivo che a poco a poco diminuisce a seconda della capacità del bambino che cresce di rendersi conto del venir meno dell’adattamento e di tollerare i risultati della frustrazione. Naturalmente è più facile che la madre vera del bambino sia abba- stanza buona che non qualche altra persona, dal momento che questo adattamento attivo richiede una preoccupazione nei riguardi del bambino natu- rale e senza risentimento; in realtà il successo nella cura di un bambino dipende dal senso di devozione, non dall’abilità e dalla informazione intellettiva”. Con Erich Fromm sul concetto dell’essere si arricchisce il contributo teorico e tecnico dell’orientamento psi- codinamico psicoanalitico. Fromm (1976) dice: “La modalità dell’essere ha, come prerequisiti, l’indipen- denza, la libertà e la presenza della ragion critica. La sua caratteristica fondamentale consiste nell’esse- re attivo, che non va inteso nel senso di un’attività esterna, nell’essere indaffarati, ma di attività interna, di uso produttivo dei nostri poteri umani. Essere attivi significa dare espressione alle proprie facoltà e capa- cità, alla molteplicità di doti che ogni essere umano possiede, sia pure in vario grado. Significa rinnovarsi, crescere, espandersi, amare, trascendere il carcere del proprio io isolato, essere interessato, «prestare attenzione», dare. Nessuna di queste esperienze, però, può compiutamente essere espressa in parole, essendo queste recipienti colmi di un’esperienza che ne trabocca. Le parole designano un’esperienza, ma non sono l’esperienza. Nel momento in cui mi pro- vo ad esprimere esclusivamente in pensieri e parole ciò che ho sperimentato, l’esperienza stessa va in fumo: si prosciuga, è morta, è divenuta mera idea… In effetti, molto può essere detto sul mio conto, sul mio carattere, sul mio atteggiamento complessivo verso la vita, e questa penetrazione e conoscenza può spin- gersi molto in là nella comprensione e descrizione della struttura psichica mia propria o di un altro. Ma il mio totale, la mia intera individualità, la mia entità, la quale è unica come lo sono le mie impronte digitali, non può mai essere pienamente compresa, neppure per via empatica, perché non vi sono due esseri umani identici… l’essere si riferisce al reale, in contrasto con le immagini falsificate, illusorie. In questo senso, ogni

tentativo di dilatare il settore dell’essere implica una maggior penetrazione della realtà del proprio io, degli altri, del mondo circostante”.

Sull’attenzione circa l’essere e l’uomo, e sull’intera- zione teorica e metodologica psicoanalitica e feno- menologica psicoevoluzionista possiamo ritenere utili altri riferimenti fondamentali. Dice Binswanger nel suo Essere nel mondo (1963) “La teoria freudiana dell’homo natura, come insieme dei meccanismi psi- cobiologici che costituiscono e conservano la condi- zione umana è, in primo luogo, un principio ordinativo

metodologico di prim’ordine anche per la compren-

sione antropologica. Essa mostra come si possa introdurre ordine e sistematicità nell’esperienza umana assoggettando tutti i settori del suo esse- re ad un principio ordinativo unitario. Con questo strumento ordinativo la conoscenza naturalistica può procedere a grandi passi (per quel che riguarda i limiti e l’estensione di ciò che deve essere esami- nato ed ordinato) la vera e propria comprensione

antropologica che deve necessariamente basarsi soprattutto sulla molteplicità, sull’identità, e sull’in- terconnessione essenziale dei fenomeni ‘osservati’, e che quindi deve esser soprattutto una fenomeno-

logia… Quello che ne risulta sul piano scientifico è

individuazione e la conoscenza di forze e di potenze astratte, che dominano l’uomo e che lo hanno com- pletamente in loro balìa, e che inoltre assicurano e regolano la meccanica della sua vita… il secondo significato antropologico del meccanismo consiste proprio nel fatto che esso mostra che l’uomo è di più di una macchina, cioè che egli si può comportare in qualche modo nei confronti della propria meccanica. Il rovescio del meccanismo assoluto e della ferrea necessità deve essere di certo l’assoluta libertà… Senza di essa non si potrebbe comprendere la ten- sione antropologica che vi è tra ‘natura e spirito’, tra la necessità e la libertà, tra il venire vissuto, sopraf- fatto, spinto e la spontaneità dell’esistenza… Per chiarire meglio quello che voglio dire, desidero citare

con il gentile permesso di Freud un passo di una lettera che egli mi ha scritto: “Ho sempre avuto l’im- pressione che ‘indipendenza e l’indiscussa fiducia in se stessi siano la condizione indispensabile di ciò che, quando ha successo, ci dà l’impressione della grandezza; credo anche che si debba distinguere tra la grandezza dell’opera e la grandezza della perso- nalità”. In queste frasi Freud esprime proprio quello che intendiamo dire, cioè che esiste una possibili- tà della condizione umana che consiste nell’essere

indipendenti, cioè non-dipendenti (da altri che da se

stessi), e nel confidare in se stessi (è una possibilità che naturalmente implica anche il suo contrario, cioè l’essere-non-indipendenti ovvero l’essere-dipen- denti). Si può inoltre vedere che questa possibilità può essere ‘comprensibile’ oppure ‘in-comprensi- bile’. In questo caso Freud si comporta in un modo più antropologico che nella sua teoria scientifica, dato che descrive un particolare modo dell’esistere umano, cioè un particolare modo in cui l’uomo si assume e vive la propria presenza come Sé”. Sul metodo dell’analisi dei fenomeni e degli eventi possiamo riferirci a Borgna. Infatti, Borgna (1997) sostiene che: “La psicopatologia, la decifrazione dei segni dotati di senso, consente una conoscenza più radicale e più profonda dei modi di essere di ogni esperienza neurotica e di ogni esperienza psico- tica, e consente (anche) di fondare le differenze essenziali e categoriali che separano le esperienze neurotiche da quelle psicotiche: contrassegnando ciascuna di esse nei contenuti e nelle sue articola- zioni formali che rimandano alle radicali epistemo- logie jasperiane… La psicopatologia, quella feno- menologica-descrittiva nel senso di Karl Jaspers in particolare ha riconsegnato scientificità alla vita interiore dei pazienti, alla loro soggettività, e all’e- sigenza di ascoltare i pazienti nelle loro auto descri- zioni…” E ancora Borgna (1992) afferma: “Il discorso binswangeriano scende alla radice dei fenomeni: la psicoterapia, egli dice, ha a che fare con quella sfera ontologica dell’“essere-interpersonale” nella quale le due persone stanno l’una di fronte all’al- tra: l’una dialetticamente collegate con l’altra… La psicoterapia, del resto, è efficace solo nella misura in cui fra il paziente e chi lo cura si stabilisce una

comunicazione esistenziale fondata sulla fiducia che si costituisce come condizione essenziale di ogni strategia psicoterapeutica… L’impostazio- ne metodologica della psicoterapia antropologica (esistenziale) è incentrata sul presente (sull’anali- si e sulla descrizione di ciò che sta avvenendo nel

quì-e-ora della storia vitale… Ribaltando l’autismo

dalla sfera dei sintomi a quella dei fenomeni, cosa contraddistingue l’autismo schizofrenico nei con- fronti dell’autismo depressivo? Sintomo significa riferimento diretto a qualcosa che sta al di là del sintomo: ad una malattia della quale il sintomo è un indizio. Fenomeno è ciò che si manifesta imme- diatamente nella sua dimensione eidetica: al di là di schemi di decifrazione e di interpretazione”. Ludwig Binswanger dice che «lo psicoterapeuta è impegnato come attivo co-attore sul palcosce- nico del mondo dei malati di mente, del loro lin- guaggio e dei suoi simboli, allo scopo di ricondurli, gradualmente, e mettendo in opera il massimo di pazienza, di coraggio e di impegno, nel tempo, al linguaggio e al mondo dell’esperienza naturale», e Merleau-Ponty ritiene che: “proprio perché può chiudersi al mondo, il corpo è anche ciò che mi apre al mondo e mi mette in situazione. Il movimento di esistenza verso l’altro, verso l’avvenire, verso il mondo, può riprendersi così come un fiume disgela. Il malato ritroverà la propria voce, non in virtù di uno sforzo intellettuale o di un decreto astratto della volontà, ma in virtù di una conversione nella quale si raccoglie tutto il corpo”.

Eugenio Borgna (1992) sostiene che: “La psicotera- pia (ogni psicoterapia) si essenzializza in una rela- zione inter-umana e non può essere ridotta nel solco di una terapia subalternizzata ad una entità astratta chiamata “Psiche”, e non indirizzata a quegli aspet- ti di reciprocità relazionale che interessano conte- stualmente il paziente e chi lo cura. La psicoterapia non è, così, una delle forme se non una delle for- me di comunicazione e di influenza inter-personali (inter-umane)… Quando la relazione fra il paziente e chi lo cura diviene una relazione autentica fonda- ta sulla fiducia, il futuro viene affidato ad un altro che recupera, a questo delegato dal paziente, ogni salvazione possibile e ogni speranza”.

Bruno Callieri affermò che: “Trent’anni fa immer- si nell’anatomia della psicanalisi – antropoanalisi, noi psichiatri clinici eravamo molto lontani dall’in- travvedere le linee di sviluppo convergente che avrebbero reso sempre meno perentorio il dilem- ma homo-natura – homo-cultura (dilemma che per altro si ripropone ancor oggi- cfr Ballerini e Laslzo, 1985). La convergenza è andata sempre più chia- ramente delineandosi con lo sviluppo delle analisi dei modi della coesistenza, cioè di questo autenti- co nucleo costitutivo dell’uomo, così ben riassunto recentemente da P. Ricci Sindoni e la cui intenzio- ne dobbiamo a M. Buber (faktish zwischen ihnen, cioè la realtà prima del “tra”) e ad Erich Fromm (“il carattere sociale”). Forse eravamo troppo appaga- ti dalla distinzione fra l’angoscia del rien (appunto l’angoscia psicanalitica è paura che ha perduto il suo oggetto attraverso la repressione e la rimo- zione) e l’angoscia del néant (appunto l’angoscia esistenziale, del nulla) forse eravamo troppo lega- ti ad una distinzione rigida e manichea fra prassi psicoterapeutica e conato verso l’incontro inter- personale (conato di colorito “sociale”, al di là delle categorizzazioni psicopatologiche). Forse, fra tante difficoltà decifrative e variazioni ermeneutiche (si pensi al divario fra immaginazione e fantasia, sul cui sviluppo ha lucidamente discorso Eugenio Garin al 5α colloquio Internazionale di Roma, organizzato recentemente da Tullio Gregory) percepivamo in modo troppo netto e sicuro la distinzione dei ruoli (psicologico - clinico e fenomenologico).

La presenza conflittuale dell’«altro» di Sartre è, in realtà, l’inizio della vasta analisi dell’esse- re-per-gli-altri o fenomenologia dell’esserci in complementarietà con la fenomenologia della per- cezione di Merlau-Ponty, quando prende in consi- derazione l’altro come « colui che appare a me»: «l’altro non è chiuso nella mia prospettiva del mon- do, perché quella prospettiva stessa non ha limiti definiti e scivola spontaneamente in quella altrui, poiché sono entrambe raccolte in un unico mondo al quale tutti partecipano come soggetti anonimi della percezione».

Centrale è per la psicodinamica psicoanalitica il rife- rimento al modello teorico del conflitto. “In psico-

analisi si parla di conflitto quando nel soggetto si contrappongono esigenze interne contrastanti. Il conflitto può essere manifesto (tra un desiderio e una esigenza morale, per esempio, o tra due sen- timenti contraddittori) o latente; quest’ultimo può esprimersi in modo deformato nel conflitto manife- sto e concretarsi in sintomi, disordini della condotta, disturbi del carattere, ecc. La psicoanalisi conside- ra il conflitto come costitutivo dell’essere umano sotto vari aspetti: conflitto tra desiderio e difese, conflitto tra i diversi sistemi o istanze, conflitti tra le pulsioni, infine conflitto edipico in cui non solo si affrontano desideri contrastanti, ma questi ultimi si oppongono al divieto.

Fin dalle sue origini, la psicoanalisi ha incontrato il conflitto psichico ed è stata presto indotta a far- ne la nozione centrale della teoria della nevrosi. Gli Studi sull’isteria (Studien uber Hysterie, 1895) mostrano come Freud incontri nella cura, man mano che si avvicina ai ricordi patogeni, una resistenza crescente; questa resistenza a sua volta non è che l’espressione attuale di una difesa intrasoggettiva contro rappresentazioni inconciliabili” (Laplanche J. e Pontalis J. B., 1967).

L’essenza fondamentale dell’uomo sano secondo il pensiero di M. Boss è caratterizzata dal poter disporre liberamente della possibilità di declinarsi nel mondo e nel libero aprirsi a questo nello stabilire relazioni. La malattia si costituisce primariamente come limitazione della libertà di movimento, decli- nazione esistenziale propriamente umana, e per tanto l’essere impedito dalla malattia può essere analizzato nelle varie modalità in cui questa coar- tazione viene variamente ad articolarsi. Minkowski ritiene che: “Il dolore fisico, di natura più o meno contingente, si riferisce a fattori esogeni disturban- ti: mentre la sofferenza umana tocca in profondità l’essere umano che si realizza in essa e rappresenta così uno dei fattori costitutivi dell’esistenza” (Min- kowski E., 1963). Borgna afferma: “Non sono i sin- tomi (apparentemente) psicotici, e semplicemen- te allineati gli uni agli altri, a fondare l’esperienza psicotica nella sua Gestalt; ma la metamorfosi di alcune fondamentali strutture esistenziali: l’inter- soggettività e la situazione emotiva, lo spazio e il

tempo, il linguaggio e il corpo. Solo se i sintomi si vengano aggregando nel contesto metamorfico di queste strutture fondamentali assumono una loro connotazione psicotica: la loro significazione di esi- stenza altra dalla nostra. Questa, certo, è la radicale linea fenomenologico-daseinsanalitica del discorso binswangeriano a cui non è possibile non guarda- re con stupefatta ammirazione” (Borgna E., 1992). Heidegger nel 1927 scrive Essere e tempo ed indica nell’orientamento esistenzialista che la motivazio- ne dell’esserci è il progetto. L’esserci è un “progetto gettato” nel mondo che include la propria finitezza. “Questo carattere dell’essere dell’esserci, di esser nascosto nel suo donde, ma di essere tanto più radi- calmente aperto in quanto tale, questo “che c’è” noi lo chiamiamo l’esser-gettato [Geworfenheit] di