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sul Cliente

IL SETTING ESTERNO

Una delle principali caratteristiche della dimensione esterna del setting risiede nella stabilità del conte- nitore, capace di fornire sicurezza, derivante da regole condivise, che consente al cliente di muoversi più liberamente nella relazione, con la tranquillità, di avere dei confini che lo proteggono. La stabilità del contenitore materiale, inoltre, è una variabile essenziale e diventa sempre più necessaria man mano che i disturbi sono più gravi (Fontò, 2010). L’assenza di regole e limiti può portare, infatti, ad un sempre maggiore senso di angoscia e paura nel cliente. L’esplorazione dei propri vissuti, di parti di sé non conosciute e ri-conosciute è già di per sé un’esperienza ansiogena e potenzialmente angosciante; fare ciò in uno spazio senza limiti, in cui non si sa se e quando il dolore che può emergere dalle esplorazioni avrà un contenitore, un argine anche di carattere temporale, vuol dire ostacolare in maniera netta la motivazione dell’individuo ad un sempre maggiore contatto con il proprio sé. All’in- terno del setting esterno è possibile distinguere tra variabili relative ed assolute.

Le variabili relative sono quelle che, pur conser- vando la loro caratteristica di stabilità, possono subire alcune modificazioni nel tempo, da terapeuta a terapeuta e all’interno delle singole relazioni terapeuta-cliente. Esse riguardano principalmente la scelta dell’arredo dello studio, della gestione degli appuntamenti e dell’onorario del terapeuta. Se si dovesse dare una sola regola valida nella gestione dell’ambiente, si potrebbe pensare a quella della “sobrietà”. Il terapeuta dovrebbe porre

la stessa “cura” nella scelta dell’abbigliamento, dei colori, dell’arredamento, che pone nella costruzione della relazione con la persona che gli è davanti. Percettivamente il paziente avrà, quando sarà sulla soglia, una Gestalt unica dell’ambiente nel quale sta per entrare e di questa Gestalt fa parte anche il terapeuta. Va da sé che un pizzico di buon senso è più che sufficiente a orientare in questo campo. Rogers e i suoi colleghi strutturavano un setting caratterizzato da una relazione terapeutica parti- colarmente calda e accogliente e allo stesso tempo molto personalizzata dalla marcata congruenza e trasparenza del terapeuta, dalle sue azioni di empowerment del cliente e dall’astenersi dal fornire interpretazioni dove il terapeuta assumeva il ruolo di agente significante. Egli non ha dato molte indica- zioni specifiche rispetto alla strutturazione fisica e materiale del setting, elemento che permette al terapeuta centrato sul cliente di godere di una certa libertà nell’esprimere se stesso attraverso la fisicità dell’ambiente in cui opera, potendo quindi responsabilmente adattare alcuni aspetti del setting alla specificità del cliente e della relazione specifica con esso.

Tale libertà, come sottolineato precedentemente, va comunque dosata e adoperata al servizio di una relazione terapeutica che sia in grado di garantire il maggior grado possibile di comodità nel terapeuta e nel cliente. Tuttavia, offrire la possibilità al cliente di collaborare alla definizione di alcuni elementi del setting può non essere sempre facilitante, anzi in alcuni casi può disorientare il cliente stesso; e inoltre questa possibilità potrebbe generare anche nel terapeuta scomodità nella relazione.

In generale, lo studio dello psicoterapeuta, per quanto neutrale possa apparire, in qualche modo parla di lui (e molto spesso si evolve con lui). L’approccio centrato sulla persona si sofferma su poche indicazioni circa questa variabile del setting. È necessario che il luogo in cui si incontrano terapeuta e cliente, oltre a non essere caotico né disturbante, sia in grado di salvaguardare la riser- vatezza e la privacy. Varcare la porta dello studio è infatti varcare «il limite al di là del quale non diremo le

cose che possiamo dire al di qua» (Semi, 1985, p. 18).

Il luogo fisico in cui il colloquio prende forma ha una grande importanza ai fini del colloquio stesso. Ogni singolo elemento della stanza in cui la terapia si svolge assume un forte significato simbolico. Una stanza è un luogo delimitato da pareti e solita- mente caratterizzato da aperture verso l’esterno, finalizzate sia alle possibilità di entrarvi o di uscirne, sia alla possibilità di cambiare aria o di consentire la visione dell’ambiente esterno e l’entrata della luce solare. Le pareti ed il loro colore, l’illuminazione, la porta, la finestra, le poltroncine, i quadri, i fazzoletti, le caramelle: non si tratta solo dei singoli oggetti contenuti all’interno della stanza, ma piuttosto dell’insieme, della Gestalt della stanza, che questi oggetti concorrono a costituire.

Ad esclusione del setting psicoanalitico classico, gli aspetti della strutturazione del setting centrato sulla persona sono molto simili a quelli teorizzati e praticati dagli esponenti di altri approcci. Il cliente e il terapeuta siedono su sedie identiche (meglio se poltrone), uno di fronte all’altro, senza alcuna barriera tra di loro (ciò differenzia il setting centrato sul cliente da altri, in cui, spesso, fra le due persone viene posta una scrivania poiché «la scrivania facilita

paziente e terapeuta nei rispettivi ruoli» (Cionini,

Ranfagni, 2009, p. 193).

Per quanto riguarda gli aspetti di prossemica, compito del terapeuta sarà quello di creare uno spazio comodo e accogliente, con contatto vis-à- vis, in cui non vengano sottolineate differenze di ruolo. La posizione vis-à-vis, dove il terapeuta non gode più di elementi che suggeriscano la sua supremazia nella relazione, infatti, rimarca la sostanziale parità tra terapeuta e cliente e offre il vantaggio di poter osservare tutti i messaggi non verbali espressi dal cliente.

La distanza delle sedie o delle poltrone deve essere tale da non suscitare nel cliente né il timore di intrusione e invasione degli spazi personali, né una sensazione che il terapeuta sia freddo o timoroso di contagiarsi. È quindi buona regola realizzare una collocazione spaziale che fornisca comodità al terapeuta. La comodità del terapeuta è condi- zione necessaria (certamente non sufficiente) alla comodità del paziente.

La frequenza delle sedute è settimanale, il contratto è chiaramente stipulato all’inizio della terapia e illustra doveri e diritti di ambo i ruoli. La seduta ha una durata predefinita, di norma cinquanta minuti, considerando tra l’altro che il limite prefissato costituisce un fattore terapeutico importante: limiti temporali ben definiti e condivisi del colloquio richiamano infatti il cliente all’assun- zione di responsabilità rispetto ai propri problemi e alla gestione del tempo dedicato alla loro indagine (Greggio, Zucconi, 2009). La durata e la frequenza delle sedute possono differire dalla norma per quei clienti che hanno particolari difficoltà a costruire e mantenere una relazione con il terapeuta. Rispetto alla frequenza, Rogers fornisce alcune indicazioni, consigliando contatti non troppo assidui: la frequenza di una volta alla settimana assicura una presenza attendibile del terapeuta e garantisce continuità di rapporto. Questa distanza temporale tra un colloquio e l’altro consente al cliente la possibilità concreta di integrare i propri progressi. «I colloqui posti alla distanza di alcuni

giorni o di una settimana l’uno dall’altro sembrano più efficaci, dal momento che forniscono al soggetto l’opportunità di integrare i suoi progressi, di acquistare una certa quantità di insight e di intraprendere azioni dettate dai suoi nuovi impulsi verso la maturazione»

(Rogers, 1942, p. 237). Tempi più lunghi potrebbero creare una situazione in cui il cliente sente di dover ogni volta ricostruire la relazione. Tempi più brevi, invece, potrebbero favorire l’instaurarsi di forme di dipendenza. Relativamente alla durata, l’Autore sostiene che sia poco saggio protrarre un colloquio per la durata di più di un’ora.

Ogni limite porta certamente con sé una certa quantità di frustrazione, tollerabile in grado maggiore o minore dalle diverse persone con cui il terapeuta instaura una relazione terapeutica. I limiti temporali del colloquio terapeutico, come tutti gli altri limiti, servono a dare alla situazione terapeutica tutti gli aspetti di una normale situazione di vita. Il limite di tempo rappresenta un arbitrario limite umano, a cui l’individuo deve adattarsi.

Il cliente è libero di rispettare o meno un appunta- mento, di venire in orario o in ritardo, di impiegare

l’ora in conversazioni casuali per evitare i suoi veri problemi, o di utilizzarla in modo costruttivo. Ci sono dei termini, tuttavia, entro i quali egli non è libero di controllare lo psicologo e guadagnare più tempo mediante qualche sotterfugio. Con una certa frequenza accade che il soggetto aspetti gli ultimi momenti della seduta per sollevare una questione di importanza vitale, chiedendo così implicitamente più tempo. Un saggio terapeuta, però, si attiene sostanzialmente ai limiti di tempo stabiliti. Una situazione ben strutturata può essere utilizzata in modo molto più efficace dall’individuo.

Certamente tali limiti non vengono rispettati con una precisione cronometrica: la terapia è prima di tutto un rapporto tra esseri umani, non un congegno meccanico. Si potrebbe forse meglio dire che i limiti vengono osservati, comprendendo però il bisogno del soggetto di infrangerli. È proprio il riconoscimento e lo “svelamento” dei bisogni legati all’infrazione dei limiti che può portare materiale davvero utile al processo terapeutico. Questo è l’esempio in cui elementi della cornice del rapporto terapeutico, elementi di setting, diventano veri e propri elementi di processo. Assecondare e soddisfare tali bisogni da parte del terapeuta, oltre che ripetere molto probabilmente modalità di soddisfacimento già sperimentate in passato dal cliente, non permetterebbe una presa di coscienza del bisogno sottostante la frustrazione e la possibilità di lavorarci insieme nel corso della terapia; si tratterebbe, in sostanza, di un tentativo di collusione ed alleanza del terapeuta con le parti meno funzionali del cliente, quelle parti che, molto probabilmente, fanno sì che egli sia in quel momento nello studio di un consultore chiedendo a quest’ultimo un aiuto, una presa in carico. Ulteriore variabile importante riguarda l’onorario. Fissare una cifra che il cliente dovrà corrispondere al terapeuta nel momento in cui decida di intra- prendere il percorso terapeutico, e comunicare l’ammontare di tale onorario, sono compiti importanti che il terapeuta dovrà svolgere prefe- ribilmente già dal primo incontro. Questo è forse uno degli elementi facenti parte della cornice, in grado di rimandare subito l’idea della diversità fra

una normale relazione fra due individui e quella che, invece, si instaura fra terapeuta e cliente, caratterizzata dall’elemento della professionalità. Il pagamento è un elemento che trasmette al cliente un’idea del valore che il terapeuta dà al proprio tempo in relazione alla propria competenza professionale. Inoltre la definizione del compenso è vista da Rogers come una misura precisa della responsabilità che il cliente decide di assumersi o meno verso il proprio processo di crescita, e quindi acquista valore terapeutico. Il pagamento della seduta stimola la persona a impegnarsi per migliorare, «eliminando ogni eventuale senso di dipen-

denza ed eccessiva gratitudine» (Rogers, 1942, p.242)

verso il terapeuta quando gli obiettivi terapeutici siano stati raggiunti o si siano fatti molti progressi in tal senso.

Da parte del cliente, il pagamento di un onorario può costituire un mezzo attraverso cui il soggetto indica la sua serietà nel cercare assistenza, nonché un modo di mantenere il suo rispetto di sé pur accettando l’aiuto di un altro e fornisce indicazione sul grado di responsabilità che il soggetto accetta (o respinge). È il suo primo passo verso una direzione nuova, il fatto di assumersi subito lo sforzo neces- sario per affrontare la sua situazione. In secondo luogo, il pagamento costituisce una motivazione per progredire rapidamente.

La questione riguardante il pagamento, è da sempre un tema molto delicato nella gestione del setting all’interno di ogni orientamento psico- terapeutico. La domanda che spesso ci si pone riguarda l’atteggiamento che il terapeuta dovrebbe assumere nei confronti di un cliente impossibilitato nell’affrontare economicamente un percorso di psicoterapia. In casi simili a questo, è importante che il terapeuta sia in contatto con i propri bisogni e le proprie sensazioni, sia centrato su di sé, e quindi agisca con la massima congruenza. Non ci sono a tale riguardo precise indicazioni: ciò che è determinante, indipendentemente dalla decisione che prenderà, è che il terapeuta ponga attenzione ai significati che tale scelta comporta. La scelta di non far pagare una seduta al cliente o di stabilire un prezzo decisamente al di sotto della consuetudine

può comportare, infatti, alcuni rischi, di cui occorre essere ben consapevoli. Sapersi prendere cura di se stessi è prerequisito fondamentale per la capacità di prendersi cura degli altri. Se il terapeuta non ha abbastanza cura per se stesso da accertare di essere pagato per ogni ora stabilita per contratto, il risentimento potrà farsi sentire nelle fasi successive del lavoro ed influenzare il processo in atto. Altrettanta attenzione va posta nel comunicare al cliente che le sedute che salta, e in cui non avverte nel tempo stabilito, andranno pagate. Questa regola è rilevante non solo perché permette al cliente di viversi una dimensione di libertà e di continuità, ma anche perché fa sì che egli abbia sempre la garanzia che nessuno potrà occupare la sua ora e il suo spazio.

Un messaggio molto importante che un terapeuta può mandare al cliente, si ha nel momento del pagamento vero e proprio e della compilazione della fattura. Come sostiene Semi, «È chiaro che

a nessuno piace pagare le tasse e che a nessuno di noi piacciono le implicazioni burocratiche del pagare le tasse. Tuttavia, a me pare che quando si chiede ad un paziente di essere molto onesto con noi, sia poi piuttosto sgradevole dirgli indirettamente che questa regola per noi non vale. Inserisce un elemento di furbizia in una situazione che la esclude.» (Semi, 1985, p. 83).

Le variabili assolute del setting sono quelle regole costanti nel tempo e valide per ogni cliente, che in quanto tali contengono l’importante nozione di “limite” invalicabile, rispetto alle quali il contributo teorico di Rogers è fondamentale nel chiarire l’importanza dell’intreccio tra soddisfazione di bisogni carenziali e i necessari limiti che devono essere posti a tale soddisfazione. Limiti chiari, infatti, facilitano il cliente nell’acquisizione di insightcirca i propri bisogni.

Secondo Rogers (1942), qualsiasi bisogno, se non trova un limite alla sua soddisfazione, non può arrivare alla consapevolezza. La frustrazione dei bisogni apre dunque alla possibilità di sviluppare nel processo terapeutico l’auto-consapevolezza. Tali limiti, inoltre, permettono al terapeuta di discriminare fra la comprensione empatica e altri meccanismi psichici, quali l’identificazione, la

proiezione, l’identificazione proiettiva, in cui invece si perdono i confini tra ciò che è del terapeuta e ciò che è del cliente, ed i limiti vengono fusi e confusi. Nella pratica, i limiti vengono posti dal terapeuta lasciando spazio all’accettazione e alla compren- sione del bisogno del cliente di infrangerli: il terapeuta non discute il fatto né reagisce

emotivamente al comportamento dell’indi- viduo, ma cerca di svelare i sentimenti che si nascondono dietro le azioni (Rogers, 1942). Il contenitore, quindi, da questo punto di vista, assume sempre una duplice valenza: se ha una funzione protettiva, contenitiva e rassicurante per il cliente e per la sua esperienza emozionale nel qui e ora, svolge anche un’importante azione frustrante e limitante.

Risulta chiaro che i limiti posti dalle variabili assolute del setting riguardano non solo i bisogni e sentimenti espressi dal cliente, ma anche quelli espressi dal terapeuta: vi è un limite all’agito di sentimenti di natura aggressiva espressi dal cliente, così è altrettanto necessario che il terapeuta dia limiti precisi alla propria espressione di affetto e calore verso il cliente. È a questo livello che entrano in gioco e acquistano senso le variabili assolute, quelle costanti del setting che devono assoluta- mente essere rispettate per non compromettere la terapia.

La prima riguarda il segreto professionale: il cliente deve poter essere certo che ogni espressione di pensiero e sentimento, di fatti o informazioni rimangano fra lui e il terapeuta. La regola della confidenzialità (rispetto alla quale, le uniche eccezioni sono previste nell’ambito della super- visione in cui, per scopi terapeutici, il terapeuta parla del cliente con un altro professionista, e nei casi previsti dal codice deontologico e dalle leggi vigenti) è requisito fondamentale per l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e intimità.

La seconda riguarda il divieto di acting out, cioè la proibizione di agiti sia da parte del cliente che da parte dello psicoterapeuta. Al cliente viene lasciata la più ampia libertà di esprimere verbalmente i propri sentimenti ma non gli è permesso di agire i suoi impulsi. Consentire l’agito degli impulsi o

colludere con essi significa infatti annullare il confine tra mentale e concreto, fra fantasia e realtà. Come afferma lo stesso Rogers, «tutto può

venir espresso. Sotto questo punto di vista il rapporto terapeutico differisce nettamente dagli altri rapporti di vita (...) Anche se vi è questa libertà totale di esprimere i sentimenti, nel colloquio terapeutico ci sono allo stesso tempo limiti ben definiti di azione, i quali conferiscono al colloquio una strutturazione che l’individuo può utilizzare per una progressiva acquisizione di insight»

(Rogers, 1942, p.85).

Strettamente legata alla regola precedente, la terza regola riguarda la non gratificazione diretta dei bisogni. Essa si riferisce al divieto di soddisfare i desideri o bisogni (consapevoli e non) del cliente e anche del terapeuta. Molto spesso, infatti, il cliente esplicita il bisogno che la relazione terapeutica possa allargarsi, sconfinare, occupare spazi anche al di fuori del setting con incontri di carattere amicale, sentimentale o sessuale. Ciò che deve essere comunicato al cliente è che la terapia non può essere il luogo dove lui può avere soddisfazioni sostitutive ad alcuni suoi bisogni.

Questa regola ha una giustificazione molto semplice: le forme mediante le quali il cliente esprime i suoi desideri consci ed inconsci sono le reali comunica- zioni che ci sta facendo. Dunque, non lasciare che la persona soddisfi con il terapeuta i suoi desideri significa comunicargli di aver compreso che lui non è entrato in quello studio per avere delle soddisfa- zioni sostitutive (anche se ci tenta) ma per mostrare come, nella sua mente, il desiderio non trovi vie di espressione e di realizzazione soddisfacenti (Semi, 1985).

Inoltre, i tentativi di soddisfare i desideri inconsci del cliente, alleandosi con le parti più regredite di lui, sono sicuramente già stati effettuati da gran parte delle persone dell’ambiente di sua provenienza e se egli, ciononostante, giunge alla decisione di intraprendere un percorso psicoterapeutico, questo significa molto semplicemente che questi tentativi sono già falliti.

L’unica eccezione a questa regola, riguarda, logicamente, la soddisfazione del desiderio che ha coscientemente portato il cliente dal terapeuta,

cioè il bisogno di avere un’opinione più chiara su di sé.