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Jeu de fiction

Nel documento Ana-logica (pagine 127-135)

PARTE PRIMA

CAPITOLO TERZO

3. Jeu de fiction

Spesso il pensiero analogico si manifesta sotto forme inattese. Fra queste, una delle più rilevanti per la costruzione delle categorie giuridiche, in modo particolare delle categorie civilistiche (come sarà confermato anche dall’analisi della traslazione del concetto di proprietà fra campi disomogenei, nella parte II), è senz’altro la finzione, strumento già noto ai giuristi romani, che si basa sul confronto con una situazione possibile ma non reale (sebbene realistica) come dimostra un caso emblematico riguardante una situazione non-ordinaria (ma non per questo impossibile) di diritto successorio. La questione è quella del figlio nato dopo la morte del padre, nel caso in cui questi non avesse previsto tale possibilità nel suo testamento. Come trattare il caso in cui nel testamento non si istituisse o diseredasse il figlio nascituro? L’interrogativo richiede per la sua soluzione pratica una riflessione teorica su alcuni concetti: il problema dell’erede nato dopo la morte del padre interessa la definizione della sfera di potere che investe il meccanismo della filiazione, dal quale viene a dipendere la capacità a succedere: nascere “nella sfera di potere di” (nascor in potestate) rendeva il figlio erede “proprio” del padre (per questa ragione suus), una qualità prima di tutto sociale e giuridica. Ora, nel caso in cui alla morte del padre il figlio non sia ancora nato, bisogna evidentemente trovare un meccanismo che permetta di omogeneizzare la situazione di fatto con la previsione giuridica che, nella sua ordinarietà, non prevede tale possibilità. Ciò

155 Cfr. Jean-Luis Fabiani, ibidem; altri sociologi si sono interessati esplicitamente della divisione dei fatti della realtà secondo diversi livelli di generalizzazione. Secondo queste teorie (cfr. A. Cicourel) prima di trattare il fatto sociale come cosa indipendente, lo si deve osservare in quanto prodotto di un particolare livello di generalizzazione.

156 Le grandi categorie frutto della generalizzazione, quelle che Fabiani chiama “grandes theories

unificatrices”, se indebolite, non conducono necessariamente ad un empirismo radicale, ma a

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richiede una riflessione di carattere generale sul concetto di potere che porti ad esaminare la circostanza, sebbene marginale, nella quale il figlio nasca dopo la morte del padre o del nonno; oltre a questa analisi sul potere, è necessario riflettere sulle modalità della definizione del soggetto nel diritto romano antico, poiché da queste due linee può tracciarsi una convergenza che permetta la comprensione della situazione di fatto, e soprattutto che permetta di stabilire una soluzione coerente con i principi dell’ordinamento giuridico.

Per determinare astrattamente il momento a partire dal quale un essere umano esista, bisogna confrontarsi con le teorie di Aristotele e degli Stoici, idee che i giuristi non ignoravano affatto, e dalle quali, al contrario, vennero presumibilmente influenzati. Le tematiche principali intorno a tali questioni giuridiche erano l’aspettativa e la speranza di un evento futuro (spes nascendi), l’aspettativa e speranza in capo (e qui sta l’interrogativo) sotto certi aspetti al nascituro, sotto altri al padre, sotto altri ancora alla società intera. Per dare rilevanza anche ad una terminologia più recente, il diritto soggettivo è quello di una pluralità, per cui esso non ricade soltanto nella sfera di competenza di uno fra i soggetti elencati (figlio, padre, società), ma piuttosto in un’unità relazionale di ordine genealogico, all’interno della quale le varie posizioni sono ricomprese. Dunque già a questo livello dell’osservazione può notarsi la forza descrittiva delle generalizzazioni, che sono proprio in quanto si deve trovare una soluzione e soprattutto in quanto tale soluzione deve essere, se possibile, applicabile a molte situazioni di fatto. E’ significativo a proposito che il più risalente diritto civile romano chiami ‘persona’ non l’individuo singolo, ma l’intera classe degli eredi; ‘persona’ non era quindi un individuo concreto, ma un’entità classificatoria, inserita all’interno di un sistema successorio che mal sopportava la presenza di lacune e che puntava piuttosto a garantire una continuità.

Il problema giuridico dell’erede proprio ruota attorno al soggetto del verbo “sperare” e alla sua determinabilità, essendo esso ambiguo e potenzialmente mutevole. Qual è il soggetto che ha un’aspettativa, il padre o il nascituro? Intorno a questioni teoriche di questa natura si snodano già in epoca romana le riflessioni più profondamente giuridiche, che possono esserre sciolte soltanto attraverso passaggi di generalizzazione in cui si possano trovare linee definitorie che siano comprensive di questioni differenti: in altri termini, attraverso passaggi argomentativi ma anche predicativi che permettano di

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ricomprendere le determinatezze di casi differenti fra loro. Nell’esempio considerato, quello del nascituro che non riesce ad essere inquadrato giuridicamente in modo diretto come soggetto capace giuridicamente, la soluzione può essere trovata nella collocazione del soggetto in una finzione:157 i testi dei commentatori di questo caso postulano che il nascituro si deve trovare in una condizione tale per cui, se il padre fosse stato ancora vivo, il figlio sarebbe nato sotto la potestà del padre, in modo tale da poter realizzare la sua capacità di essere erede legittimo (suus heres). Questa condizione non ha nulla di pertinente con la dimensione fisiologica o biologica, ma corrisponde ad una esigenza di localizzare la sfera di competenza della potestà a livello giuridico. Come ha notato Yan Thomas riportando le considerazioni di Gaio: “les

posthumes qui, s’ils étaient nés du vivant de leur ascendant paternal, se seraient trouvés sous sa puissance, sont eux aussi ses héritiers en tant que siens. (…) les posthumes aussi, c’est à dire ceuz qui sont dans l’utérus, à condition, d’être tels que, s’ils étaient nés, ils seraient sous notre puissance, comptent au nombre de nos héritiers en tant qu’ils sont nos ‘héritiers siens’. (…) s’ils son dans cette conditions où, s’ils naissaient de notre vivant, ils tomberaient sous notre puissance ».158 Considerare dunque l’erede nato la morte del padre come già nato induce a considerarlo immediatamente all’interno della sfera di competenza giuridica nella quale, a causa del gioco di finzione analogica fondato sul riferimento ad una situzione simile ma non identica, egli è capace a succedere.

Questo meccanismo che permette, tramite una finzione rappresentativa, di trovare una soluzione alla lacuna nella continuità della sfera d’azione della potestà del padre, è legato in profondità con il problema della qualificazione dell’attributo latino « suus », associato ad « heres : si tratta della definizione di erede « proprio ». Quando è « proprio » un erede? E a quale contesto si riferisce il concetto di « proprietà »? Al padre, che in un certo senso « possiede » il figlio, e in particolare ha un’influenza sulla sua sfera giuridica, oppure al figlio, quindi interpretando l’idea di « proprio » nel senso di un’una attitudine a ricadere sotto una determinata definizione, che è quella universale? Se il « proprio »

157 E’ interessante notare che la virtualità della dimensione teorica-definitoria a cui si fa riferimento è chairamente data dall’uso frequente di locuzioni quali “come se”, che concernono evidentemente la proiezione in uno spazio virtuale, in cui si effettua per eccellenza la teorizzazione. Yan Thomas ha definito questo caso come quello de “l’enfant à naître et l’’héritier

sien”.

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debba essere interpretato come soggetto di un verbo o di un’azione, se è già, o se invece è in divenire, se esiste, se nasce, se è atteso, se cessa invece di essere « suus » e perde il suo diritto, sono tutte espressioni e contesti in cui il « suus » è soggetto grammaticale, il che prova il fatto che anche nella stessa espressione di « proprio » non vi è alcuna relazione di possesso con l’individuo-padre, con l’ascendente. Secondo questa linea argomentativa il nascituro va quindi considerato come soggetto di diritto come se fosse già nato, in questo senso acquisendo la capacità a seguito di una virtuale « estensione » di una situazione potenziale ma non ancora compiuta, che è la sua esistenza conseguente alla nascita.159

I piani del discorso sono essenzialmente due: da un lato, la dimensione delle pratiche in senso stretto, che riguarda direttamente la ricerca di soluzioni coerenti e compatibili con l’ordinamento normativo, da trovare per i casi complessi (come appunto questo del nascituro il cui padre muoia senza aver fatto testamento). Dall’altro lato, a partire dalla ricerca di soluzioni per questi casi « estremi », da intendere come casi non previsti che richiedono una maggiore profondità della riflessione, che si spinga oltre il processo di associazione di un fatto ad una norma, si apre una dimensione ulteriore, che è quella in cui vengono create nuove linee interpretative, connessioni impreviste in cui si costruiscono ragionamenti a partire da rappresentazioni, descrizioni di mondi nuovi a partire da questioni concrete. Come ha osservato Yan Thomas, a partire dai casi più difficili si opera la generalizzazione di un principio – una generalizzazione che culmina spesso con discorsi che sono comprensivi di tutti i livelli differenti del processo applicativo e della dimensione ermeneutica;160 come nel caso dell’erede nato postumo, in una condizione di anomalia rispetto all’ordinaria situazione in cui sarebbe invece ricaduto nella sfera di competenza giuridica del padre. Per la soluzione del caso, che i giuristi romani, come si è detto, trovarono nell’estensione (per certi analogica) di una situazione simile al caso da risolvere, furono coinvolti trasversalmente temi all’apparenza svincolati o comunque non centrali: le condizioni temporali e fattuali per la definizione

159 Questa costruzione linguistica della definizione dimostra che a fianco alla dimensione ermeneutica ed argomentativa su cui poggiano le evoluzioni generalizzanti della teoria, vi è sempre un meccanismo di comprensione delle stesse evoluzioni all’interno di relazioni di potere, le quali sono influenzate originariamente dalla descrizione delle categorie, ma a loro volta le influenzano determinandole in relazione al contesto storico-politico.

160 Y. Thomas, L’enfant à naître et l’’héritier sien, in 1 Annales. Histoire, Sciences Sociales, p. 29-68 (2007) .

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della nascita e della morte in relazione all’esistenza di una capacità giuridica che non è semplice far corrispondere esattamente con i tempi e gli spazi biologici, la definizione di ‘erede’ e soprattutto il contenuto dell’attributo ‘suus’, la cui semantica comprende sia la prospettiva del figlio (suus in quanto pronto a succedere, in quanto ‘proprio’, ovvero ‘nella condizione adatta’) sia da quella del padre (suus nel senso di ricadente in una sfera virtuale di possesso, nel senso di disponibilità). L’inclinazione a considerare la condizione del nascituro

come se fosse diversa da quella che di fatto invece è, rappresenta il risultato di

una finzione, meccanismo costruito sulla assimilazione di situazioni differenti e sulla pretesa che ci si trovi in una delle due, simulando ciò che non è per compensare la difficoltà che riguarda ciò che è. Finzione che peraltro è nel suo fondamento strutturata sul pensiero analogico, poiché a partire da una somiglianza (e non una identità), fa corrispondere una inferenza che permette di capire la situazione più complessa attraverso la grammatica di quella già interpretata e, per questo, più accessibile. Il meccanismo della finzione è tutt’altro che estraneo al discorso giuridico, tanto nell’accezione di « menzogna », « inganno », o « simulazione », quanto in quella più elaborata di « rappresentazione », « creazione », o « trasformazione ».161 Entrambe queste dimensioni riaprono, con meccanismi differenti, la dinamica della rappresentazione: tanto chi mente quanto chi inventa o spiega per mezzo di un modello, forniscono immagini della realtà non conformi al modo di essere delle cose nella stessa realtà. Quest’ultima viene a costituire, in questo meccanismo, una prospettiva da confrontare con la raffigurazione, che è una realtà difforme dalla percezioni, ma del tutto conforme con la virtualità delle rappresentazioni lingusitiche. La dinamica della finzione sostituisce di fatto un modello alla realtà, quando questa non è sufficiente a comprendere la questione giuridica in discussione.162

I luoghi di elaborazione razionale del diritto sono molto spesso

161 Come ha giustamente osservato L. Nivarra nel suo intervento Le parole del diritto: finzioni, in Europa e diritto privato 2 (2005), pp. 389-399.

162 Come scrive sempre L. Nivarra (ibidem): “ciò che dice o ciò che fa si traduce in una consapevole, voluta, sebbene non sempre manifesta, presa di distanza dalla realtà: di talché, se la verità è, secondo il ben noto paradigma di Tarsky, corrispondenza alla realtà, la finzione ne rappresenta il polo esattamente opposto” (p. 390). La finzione restituisce inoltre ulteriore rilevanza alle considerazioni sulla necessaria astrattezza delle definizioni giuridiche, che devono andare a costituire categorie valide per casi anche molto differenti; per questo il diritto è intrinsecamente connesso con la finzione intesa in quanto rappresentazione, poiché soltanto in una dimensione simile gli ideali di coerenza e compatibilità fra definizioni possono essere perseguiti e realizzati. Il meccanismo rappresentativo che è alla base della finzione è molto

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consegnati a circuiti prevalentemente informali e tali processi di elaborazione pongono in essere prodotti supportati da grande autorevolezza – si pensi agli scritti dei giuristi romani – ma talora sprovvisti di una immediata efficacia precettiva. Soltanto nelle pratiche, che dalla analisi dei casi concreti vengono ad istituzionalizzarsi dopo la risalita attraverso passaggi di teorizzazione, si possono poi davvero stabilizzare quelle soluzioni ottenute attraverso la speculazione linguistica (come appunto succede con l’uso di finzioni, analogie, metafore). Peraltro non sempre la dicotomia auctoritas/ratio presenta confini tanto netti da poter realmente distinguere un elemento dall’altro : il diritto, infatti, non è un prodotto puramente autoritativo e nemmeno soltanto razionale, come è dimostrato dal fatto che l’influenza del pensiero giuridico è forte in ogni meccanismo decisionale o predicativo ; allo stesso modo, nel diritto romano la verbalizzazione della regola formale è generalmente scompagnata dalla giustificazione razionale che è reperibile altrove nell’opera dei giuristi, la logica, in altri termini, si accompagna all’analogia, in un rapporto dialettico per cui la risultante, l’ana-logica, ha i caratteri di entrambe.163

La dicotomia

auctoritas/ratio aiuta inoltre a comprendere la diffusione della fictio nella

tradizione giuridica romana, che è un espediente verbale (come nel caso delle più classiche ipotesi di finzione, come la lex Cornelia, la fictio civitatis, le actiones

ficticiae) con cui il legislatore estende ad una fattispecie la disciplina dettata con

riferimento ad altra fattispecie, comparando ed equiparando le due diverse dimensioni. Il medesimo risultato avrebbe potuto essere raggiunto, in astratto, tramite l’uso del ragionamento analogico al posto della finzione; ma la linea argomentativa in senso stretto, che corrisponde, nella citata dicotomia, alla ratio, non veniva percorsa volentieri dagli interpreti romani, i quali alla tecnica di estensione fondata sulla spiegazione razionale preferivano invece la tecnica di assimilazione basata sulla legittimazione della auctoritas. Richiamando quanto già detto nel primo capitolo a proposito della auctoritas della traditio perpetrata simile a quello che sta alla base del pensiero analogico, tanto che a mio avviso si potrebbe parlare di una incorporabilità della finzione nel discorso e nel sapere analogici, tanto per quanto concerne la rilevanza argomentativa quanto quella predicativa e concettuale. Sempre Nivarra ricorda che “al di là delle evidenti differenze che passano tra un’ideologia fondata su un tratto costitutivo della norma giuridica – l’astrattezza – e un’ideologia fondata su una convenzione condivisa da tutti gli attori dell’esperienza giuridica – la non creatività/innovatività dell’interpretazione giudiziale -, la finzione occupa una scala istituzionale, nel senso che in sua assenza il diritto come ordinamento non si darebbe, o non si darebbe in quella forma, ovvero si darebbe in una forma radicalmente diversa” (p. 391).

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dai prudentes attraverso l’interpretazione del diritto, si può questo punto affermare che la consacrazione della fictio come dispositivo fondamentale nel diritto si concretizza in un quadro in cui si da rilevanza tanto al dato culturale, quanto a quello istituzionale; ciò è comprensibile se si pensa ad esempio all’ideale di continuità che si vuole preservare all’interno dell’ordinamento normativo romano.

Tutte le riflessioni dei giuristi romani, partono da considerazioni di natura generale sulla idea di padre, di figlio, di vita o di morte, di esistenza; tutti questi approcci partono a loro volta da considerazioni anche sul contesto storico, politico e sociale in cui le riflessioni vengono ad inserirsi, e vanno a ricercare – su un piano più profondo – la vera natura dei concetti, natura che per la sua stessa origine è trasversalmente connessa con la dimensione storica, con l’origine dei concetti e con la loro descrivibilità . Per questa inclinazione, Yan Thomas si è spinto a parlare di una vera e propria « philologie juridique »,164 che è lo strumento per eccellenza utile quando la soluzione di un caso dipende dalla definizione del campo semantico di un concetto, processo che passa attraverso l’osservazione critica dell’uso di metafore, analogie, e più in generale di dispositivi (sotto forma, spesso, di modelli) propri della teorizzazione giuridica.165 I contorni dei concetti giuridici vengono così a definirsi come risultanti di una elaborazione di un processo linguistico, e si lasciano ricostruire soltanto a partire dai mezzi della riflessione filologica e semantica: la scelta di un termine, di un contenuto da associare a quel termine (ad esempio, ‘potestas’), è l’espressione più concreta del mondo astratto delle definizioni giuridiche. E’ in questi passaggi del discorso giuridico che il pensiero analogico, nella completezza delle espressioni che ne costituiscono il campo semantico (concetto,

predicazione, argomento, giudizio), viene ad inserirsi e ad operare. Nella ricerca di

164 Tanto che la discussione sulla vera natura dell’heres suus si è sviluppata anche intorno al significato storico di suus: il grande linguista indo-europeista Benveniste ha, a tal proposito, rilevato che *swe significa “appartenenza a gruppo di eredi propri”, inteso come gruppo domestico allargato, ed ha la stessa radice del termine ‘sé’, la cui semantica è associata alla riflessività; infatti, prima di divenire un aggettivo possessivo, suus qualificava, come la radice sanscrita sva, tutti gli appartenenti ad un gruppo chiuso e per questo “propri” di quell’insieme circoscritto.

165 Yan Thomas ha osservato (ibidem, p. 56): “Ces représentations n’appartiennent pas à l’histoire

sociale, mais sont plutôt l’effet d’une contrainte herméneutique. Les mêmes juristes qui s’employaient à isoler comme substantif une locution figée et donc abstraite de sa valeur possessive n’avaient de cesse, dan leurs commentaires comme dans leur casuistique, de réintroduire pleinement potestative que selon eux le droit civil exigeait”.

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un’idea uniforme di ‘filiazione’, che possa valere per situazioni differenti, si fa appello agli attributi comuni, a concetti intermedi che possano mettere in comunicazione contesti differenti. Nel caso esaminato, per mettere in relazione il caso in cui il padre muoia senza lasciare un testamento e prima della nascita del figlio, e il caso ordinario in cui alla nascita del figlio il padre sia ancora in vita oppure, seppur già morto, abbia messo in forma in un testamento la propria volontà. I concetti che trasversalmente funzionano da medi fra questi due casi, simili ma non identici, sono quelli di ascendenza e discendenza. L’uso di un dispositivo trasportato da un contesto ad un altro, nel caso riportato dalla linea collaterale, in cui i parenti di gradi anche lontani potevano essere legati, alla cosiddetta linea diretta, in cui a partire da una certa distanza in poi tutti i rapporti di parentela divenivano impossibili, dimostra le dinamiche attraverso cui viene a definirsi una coerenza interna del sistema giuridico romano proprio a partire dallo studio della profondità semantica di un termine.

Per concludere, il caso dell’erede proprio dimostra la ricchezza argomentativa del caso singolo che si erge ad esemplare di una categoria, quella della stra-ordinarietà rispetto al contenuto di una norma, che è capace di tracciare creativamente nuove interpretazioni, di svelare, attraverso la scoperta di una possibile nuova linea ermeneutica, un significato escluso ma non eliminato.166

Come ha fatto notare Yan Thomas:

“L’examen d’un cas-limite invite ainsi à soulever un coin de voile et à decouvrir,

bien au- delà des mécanismes de la filiation et du droit successorial, une véritable architecture juridique de la vie.”167

166 A proposito del caso qui esaminato, nella cultura giuridica antica, nascere significava entrare a far parte di un mondo che esisteva già, in una società nella quale il nuovo arrivato era già

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