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Univocità, equivocità, e principio di analogia come “omogeneizzatore” 121 Con lo sviluppo della dottrina dell’analogia presso gli Scolastici, il

Nel documento Ana-logica (pagine 99-103)

PARTE PRIMA

CAPITOLO SECONDO

5. Predicazione analogica e discorso giuridico

5.1 Univocità, equivocità, e principio di analogia come “omogeneizzatore” 121 Con lo sviluppo della dottrina dell’analogia presso gli Scolastici, il

problema dell’interpretazione non consiste più soltanto nell’esegesi dei testi sacri, ma inizia ad estendersi oltre, finendo per corrispondere alle questioni di generalizzazione tipiche della dimensione ermeneutico-teoretica su cui si fonda la riflessione filosofica (e non più soltanto teologica) sull’analogia. Ciò si verifica in maniera particolare a seguito dello sviluppo delle questioni di filosofia della natura, disciplina che con la tradizione Scolastica acquista rilevanza, e attraverso un processo di valutazione della compatibilità fra la divinizzazione della natura e la secolarizzazione della teologia, l’analogia diventa l’unico principio con cui è possibile spiegare la natura, in rapporto ad una simmetria che si instaura fra divino e natura. Nella costruzione dello spazio relazionale fra queste due categorie, quello analogico è il principio che per eccellenza funziona da omogeneizzatore fra grammatiche differenti, rappresentando il dispositivo su cui viene a strutturarsi ogni forma di coerenza e compatibilità fra elementi appartenenti a dimensioni distinte, proprio come nel diritto il meccanismo analogico è prima di tutto quello attraverso cui si effettuano valutazioni sulla adattabilità fra semantiche disomogenee, ma che possiedono qualche elemento di continuità.122

121 Sono tre le principali forme di predicazione per la tradizione Scolastica: univocità, equivocità e analogicità: “Si deve sapere che un termine si può predicare di molte cose in tre modi: univocamente, equivocamente e analogicamente. Si predica univocamente quando si ha identità di nome e di concetto (secundum idem nomen et secundum eandem rationem), ossia di definizione, come quando si predica “animale” dell’uomo e dell’asino. L’uno e l’altro sono infatti animali, cioè sostanze animate sensibili, che è la definizione di animale. Si predica equivocamente, quando il nome è lo stesso ma il concetto è diverso (secundum idem nomen et secundum diversam rationem). Si dice infine che un termine si predica analogicamente (analogice) se si predica di molte cose i cui concetti e definizioni sono diversi ma si riferiscono a una stessa realtà (rationes et definitiones sunt

diversae, sed attribuuntur uni alicuieidem). Per esempio, ‘sano’ si dice del corpo dell’animale, della

urina e della bevanda, ma non secondo un significato completamente identico in tutt’e tre i casi” (San Tommaso, Summa Theologiae, Op. cit.). Qui si tratta si sviluppare il discorso che mette in relazione equivocità ed univocità nelle teorie medievali del linguaggio, e lo si deve fare scavando nelle dinamiche del pensiero analogico - il quale è peraltro stato confuso molto spesso con “ambiguo”.

122Nella Metafisica, testo fondamentale durante il Medioevo, Aristotele, dopo aver sollevato il

problema del termine ‘essere’ e dei suoi possibili significati, introduce la cosiddetta equivocazione nota come “pros hen” (dal Greco, “in relazione ad uno” o “in funzione di uno”, in

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Il meccanismo di omogeneizzazione va ritenuto fondativo sia quando si tratti di analogia attributiva sia quando si abbia a che fare con l’analogia proporzionale. Quest’ultima, come si è anticipato nei paragrafi precedenti, è quella forma di concettualizzazione, giudizio o inferenza che consiste in un’espansione della proporzione matematica, che conduce all’omogeneizzazione potendo fungere quindi da principio universale di razionalizzazione. L’analogia attributiva d’altro canto è relativa al rapporto fra

esemplare ed esempio, sorgendo da un’inversione del normale procedimento di

induzione dal noto all’ignoto (e notoribus), con la peculiarità di essere “attributiva” perché qualitativamente non riconducibile ad una proporzione verificabile, né a livello quantitativo né sul piano comparativo. Nell’analogia attributiva i termini non sono quattro, come in quella proporzionale, ma sono soltanto due, e per questa ragione essa è più primitiva dell’altra; nel processo di attribuzione di un predicato, si può andare dall’effetto alla causa, o dalla creatura al creatore, e il secondo dei due termini è sempre inconoscibile. Il passaggio da un effetto alla sua causa richiede che vi sia una negazione preliminare dell’identità degli attributi: ad esempio, la saggezza dell’uomo non può essere uguale alla saggezza di Dio, ma soltanto ad essa assimilabile per certi aspetti e non assimilabile per altri. L’attribuzione è, per questo motivo, quasi sempre equivoca e non univoca: per cui la teonimia (la ricerca dei nomi divini), per il

base al significato attribuito alla particella “pros”), che corrisponde all’idea che diversi sensi possono essere unificati attraverso la relazione con un senso centrale, universale. A completare questo quadro, la Metafisica di Avicenna, che viene tradotta in Latino durante il XII secolo. In questo testo Avicenna sostiene che l’essere (ens) non è né un genere, né un predicato che viene predicato ugualmente per tutti i termini subordinati ad esso; piuttosto, l’essere è una nozione più complessa (che coinvolge la intentio), in cui vi sia accordo fra il genere ed i possibili predicati. La rilevanza della analogia nel Medioevo si è dunque originariamente sviluppata sulla soglia di separazione fra termini univoci e termini equivoci. I termini analogici sono intermedi fra i termini equivoci e quelli univoci, sebbene il fatto che abbiano punti di contatto con entrambe le tipologie li rende sostanzialmente più vicini agli equivoci. La coesistenza di univocità ed equivocità nei termini (e nei concetti) analogici richiama molte delle domande che si sono sviluppate intorno alla interpretazione del diritto nella tradizione del XX secolo. Penso per esempio ad H.L. Hart, che a partire dal problema della vaghezza dei termini giuridici ha sviluppato la teoria della “open texture” del diritto. Solo per inciso va fatto un breve riferimento all’uso di “vago” nel discorso giuridico, per amplificare la rilevanza della storia dello sviluppo del pensiero analogico già nel Medioevo. Un termine “vago” è un termine i cui criteri di applicazione sono dubbi, in rapporto un dato oggetto o insieme di oggetti, e in un tempo preciso. Inoltre, i dubbi relativi all’uso del termine non devono essere il risultato di una carenza di competenza del soggetto che si appresta ad usarlo o del contesto linguistico in cui il termine deve essere utilizzato. La vaghezza deve essere, in questo senso, intrinseca. Possono esistere, nel diritto, diversi livelli di dubbio, che a loro volta sono misurabili in modi diversi. Intesa in questo modo, la vaghezza è uno dei principali contesti di dubbio in cui gli interpreti del diritto fanno ricorso a strumenti quali l’analogia.

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senso di trascendenza che è richiesto dalle sue attribuzioni, si fonda sulla equivocità dei nomi, come è dimostrato nel De divinis nominibus di Pseudo- Dionigi, in cui viene spiegato il principio semantico della teonimia, il quale consiste non solo di una semantica puramente equivoca, ma anche di spostamenti di significato regolati da un criterio di gradualità; gli stessi predicati, secondo questo principio, cambiano di significato a seconda del grado di intensità che viene loro attribuito con il prefisso. Quindi quando si parla di Dio, bisogna far corrispondere all’attributo bonum il predicato hyperagaton, all’attributo divinum il predicato hypertheon, a sapiens hypersophon. Nel caso dell’uso graduato degli attributi divini per mezzo del prefisso hyper- è il criterio

intensivo della eccedenza usato per gli attributi teonimici (nella loro funzione di

attributi per la descrizione di Dio) che, coniugato insieme alla astrazione dai riferimenti concreti, finisce per circoscrivere il campo della trascendenza.123 L’elemento della risalita dall’effetto alla causa ricorda l’altrettanto rilevante elemento di risalita presente nei processi di generalizzazione a cui richiama il prefisso ana- e la sua semantica nel greco antico.124

La matrice metonimica presente nel meccanismo di correlazione fra causa ed effetto conduce a presupporre che esista una qualche forma di causa prima negli elementi, verso la quale ogni processo di generalizzazione, di analogizzazione su base attributiva, o più genericamente di risalita da un livello più concreto ad uno più astratto ed universale è sempre contenuta anche nei cosiddetti exemplaria, che sono altrettanto importanti per comprendere la natura mediatrice fra univocità ed equivocità della analogia. La matrice che accomuna gli esemplari di tutte le cose, che è in un certo senso l’arché dei paradeigmata, è per Dionigi (e per la Scolastica in genere) il theos, che è il creatore delle idee e dei paradigmi più che delle cose concrete: i paradeigmata sono le ragioni pre-esistenti in Dio che danno che danno sostanza alle cose rendendole coerenti e solidali con l’origine, e per questo facendo di esse delle predeterminazioni che sono per definizione buone, poiché espressione di un’intenzione divina. Per cui, Dio ha predisposto e creato le cose per mezzo delle ragioni esemplari, le quali sono dunque principio originante e principio informatore degli esseri.

123 E. Melandri, ibidem (2004), p. 97.

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L’equivocità della teonimia ha un altro aspetto di grande rilevanza per l’evoluzione storica del sapere e del pensiero analogici, il fatto che essa, pur essendo necessaria alla definizione delle nozioni trascendenti, non è sufficiente, perché per il linguaggio teologico occorre sempre anzittutto valorizzare gli attributi, ovvero i predicativi orginali che si identificano negli exemplaria, i quali servono da sostantivi «di grado superlativo». Gli esemplari sono per loro stessa natura analogici, nella misura in cui tali archetipi, nel pensiero medievale, non corrispondono con dei trascendentali logici, ma sono anche precipitati singoli, sia arche-tipi che tipi in senso stretto. Il problema logico dell’equivocità finisce per assumere anche un aspetto ontologico, nel caso in cui i predicati vengano interpretati come nomi di attributi, ovvero di proprietà qualitative o relazionali: il significato (variabile, in un contesto di equivocità) di un termine predicativo ammette variazioni considerevoli a livello quantitativo e qualitativo, a seconda della funzione svolta nella proposizione. Questo è di fatto il valore fondamentale dell’equivocità: sull’invarianza del significato si fonda la sillogistica aristotelica, il calcolo delle classi, ma ciò non rappresenta tutte le possibilità della logica nella realtà; con le spiegazioni introdotte dalla logica proposizionale, il singolo nome non è più sufficiente a spiegare il significato. Con la fondazione proposizionale della logica, il significato di un predicato può variare, all’interno dell’invarianza del termine, in relazione alla struttura della proposizione e agli altri elementi presenti in essa.125 L’equivocità, e l’uso analogico di un nome, sono dunque possibili in un constesto in cui il significato varia a seconda degli elementi presenti nella proposizione e della struttura interna della stessa: come aveva già fatto notare San Tommaso, «ista nomina

significant idem secundum rem, sed secundum rationes diversas».126 Un termine, se preso a sé ed inteso quale «nome» in senso proprio, ha un significato secundum

rationem, in tal caso il suo uso in quanto predicato si riduce ad un nome. Al

contrario, se un nome viene usato in un giudizio, ad esempio un giudizio analogico, assume un significato ulteriore secundum rem, il che è identificabile con il concetto di definizione contestuale o implicita. Presi isolatamente, due predicati differenti hanno lo stesso significato secundum rationem soltanto se sono sinonimi in senso stretto.

125 E. Melandri, ibidem, p. 104. 126 Summa Theol., I° P., q. xiii, art. 4, 2.

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La teoria del giudizio di Tommaso, costruita sulle definizioni di equivocità ed univocità, è attualmente per molti aspetti inconfutabile, poiché da essa consegue che non bisogna confondere il significato referenziale, statico e assoluto di un nome (id a quo imponitur nomen ad significandum) con il significato che il nome assume quando diventa strutturale, operativo all’interno di un giudizio e in questo senso relativo più ancora che referenziale (id ad quod

significandum nomen imponitur). Equivocità ed univocità non lavorano, in ogni

caso, su piani differenti; univoco ed equivoco finiscono spesso per scambiarsi le parti e ciò che è univoco in accezione nominale può diventare equivoco in una dimensione proposizionale. 127

L’analogia si inserisce nella dialettica fra equivoco ed univoco e si comporta come principio non autonomo: è, piuttosto, un meccanismo di restrizione, bilanciamento, ed adattamento della equivocità. Adottando la prospettiva del principio di analogia, in logica, in teologia, ed anche nel diritto, si comprende quanto sia incompleta la supposta stretta alternativa fra univocità ed equivocità: il principio di analogia è omogeneizzatore poiché non potrebbe mai condurre a distinguere, recisamente e dicotomicamente, la dimensione dell’equivoco da quella dell’univoco, rappresentando il meccanismo che le mette in comunicazione.

Nel documento Ana-logica (pagine 99-103)