Anche laddove l‘esperienza masanelliana non si legò a eventi locali di questa portata675, il «florido sottobosco di testi, cronache, memorie, relativo ai fatti del 1647-48»676 ha permesso, comunque, di avviare riflessioni altrettanto importanti, a dimostrazione del fatto che è nelle congiunture cruciali che «province, città e centri minori rivendicano prepotentemente il diritto ad un protagonismo storico che il primato della Capitale del Regno tende troppo spesso a schiacciare»677. Per questo motivo anche altri storici abruzzesi descrissero gli eventi locali riconducibili all‘eco dei moti masanelliani. In queste opere emerge il punto di vista degli scriventi, strettamente correlato alla posizione socio-politica che quelli ricoprivano nella propria città e che intendevano difendere a colpi di penna.
Uno dei primi a fornire un quadro dettagliato di quegli eventi fu il sulmonese Vincenzo Mazzara678, autore del manoscritto perduto Katasthù Catastule, ovvero tumulto racchetato
del Regno di Napoli679. Fino al ‘46 egli era stato ripetutamente impegnato a Chieti perché, in qualità di uditore delle Province dei due Abruzzi, aveva dovuto ufficializzare
674 G. NICOLINO, Historia, cit., Lib. I, pp. 21-22.
675 Chiaramente, nel quadro storico raffigurato dal Nicolino, la lente d‘ingrandimento dello scrivente era puntata principalmente sul problema della vendita della città, causa scatenante di una violenza, di cui l‘eco dei moti napoletani non costituiva altro che un‘appendice, capace di acutizzare ulteriormente il clima di tensione che ormai lacerava la città da diversi anni.
676 G. FOSCARI, La rivolta di Masaniello e le storie municipali: il caso di Salerno, in Il libro e la piazza, cit., p. 293.
677 A. MUSI, Salerno moderna, Avagliano, Cava de‘ Tirreni 1999, p. 55.
678 Scrive Ignazio Di Pietro sul Mazzara: «dopo aver imparato nella sua Patria le lettere umane, condussesi di tenera età in Napoli allo studio della Giurisprudenza, ove fu molto stimato dal proprio maestro Francescantonio Bonacina. Prese poscia nell‘almo Collegio di quella Città le Insegne Dottorali, ma comechè tosto comparve uomo di gran sapere, e di somma prudenza, così volle impiegarlo la Regia Corte in rilevantissimi affari, ed in molte cariche di Giudicature» (I. DI PIETRO, Memorie storiche degli uomini
illustri della città di Solmona, cit., pp. 166-168). La biblioteca di questa importante famiglia sulmonese era
ricca di antichi libri manoscritti e a stampa, e risulta andata per la maggior parte dispersa, a tal punto che tuttora ne spuntano periodicamente disiecta membra sul mercato dell‘antiquariato.
679 G. PAPPONETTI, Storici ed eruditi fra Cinque e Seicento, in L‟Abruzzo dall‟Umanesimo all‟età barocca, cit., p. 140.
l‘infeudamento del capoluogo marrucino e svolgere le indagini sulle rivolte e sui contrasti che si erano scatenati in città680. Nel ‘47 aveva fatto rientro a Sulmona, richiamato da
Febonio, il quale stava allora ricoprendo la carica di vicario della diocesi peligna e di lì a poco si sarebbe impegnato a reperire, insieme a Holstenio, gli scritti di Ciofano. In quei mesi la città fu trascinata dall‘eco della sommossa napoletana e Mazzara rischiò in prima persona la vita, essendo particolarmente esposto alla diffidenza dei rivoltosi, a causa delle alte cariche che ricopriva al servizio della corte spagnola e per la posizione privilegiata che contraddistingueva il proprio casato nella società sulmonese. Ricorda Ignazio Di Pietro:
«La Nobiltà, che dubitava di eccessi maggiori e, che non intendeva di macchiare il proprio candore, unitasi insieme si rivolse a frenar l‘impeto popolare: i Mazzara specialmente s‘impegnarono per cosi fatta quiete ma i sollevati nel numero di 45 occuparono la di loro casa e ne scacciarono Vincenzo Mazzara che trovandosi allora al Real Servigio come Avvocato Fiscale era all‘istessa Plebe sospetto, e nella di lui casa sostentaronsi per qualche tempo a sue spese: quindi dovè il medesimo uscirsene dalla Patria, ricoverarsi in Roma donde colle genti Regie venute a Celano militò per la ricuperazione di quel Castello già presidiato dal Popolo e ritornato poi in Solmona ove trovò sedati i tumulti per opera delle altre famiglie Nobili che fecero pagarne la meritata pena ai principali motori fu commendato alla Maestà del Re dal Generale Luigi Poderico per Vassallo fedele e degno di rimunerarsi colla Toga»681.
Nella Miscellanea di Mazzara si conserva ancora la copia delle lettere che il viceré don Giovanni d‘Austria inviò ai sindaci, al mastrogiurato e agli altri eletti della città il 21 e il 22 aprile del ‘48, dopo che quelli, per primi (il 17 aprile), si erano rivolti all‘autorità regia, comunicandogli di aver represso «los quarteles q. estavan inobedientes sacando la guarnicion popular», decisi a rinsaldare quel rapporto di fedeltà che la città da sempre aveva mantenuto con la corona spagnola. Il ritrovamento del Katasthù Catastule consentirebbe di acquisire una conoscenza più approfondita di quegli avvenimenti, oltre che di esaminare il potenziale storiografico di quest‘erudito, che poté avvalersi degli stimoli metodologici e culturali di Febonio e di Holstenio. La stessa Miscellanea testimonia che Mazzara si adoperò nella raccolta delle fonti e dei documenti locali sulla storia civile della città, e anche di quelli religiosi, compresi nella sua Historia legalis
Cathedralis Ecclesiae Sulmonis, redatta in difesa della diocesi sulmonese e rimasta
tutt‘oggi inedita.
In particolare, tra i documenti che l‘uditore si preoccupò di trascrivere682, desta particolare attenzione l‘elenco delle casate sulmonesi «che avevano la facoltà di dare voce nel Parlamento generale indicando un proprio rappresentante in seno al Consiglio,
680 Qui i rapporti tra gli esponenti di alcuni importanti casati delle due città s‘infittiscono. Ricordiamo infatti che Giuseppe Toppi si era trasferito a Sulmona per ricoprire la carica di Governatore e poi quella di Giudice della città. Qui sposò in prime nozze Margherita Mazzara e, dunque, non è da escludere una conoscenza diretta del Mazzara con più d‘uno esponente della famiglia Toppi al tempo della vendita della città di Chieti.
681 I. DI PIETRO, Memorie storiche della città di Solmona, cit., pp. 345-346.
rigorosamente uno per famiglia e d‘età superiore ai 25 anni»683. Le liste, ben distinte tra loro, erano state stilate nel 1572, all‘indomani dell‘infeudazione della città, quando il Viceré don Antonio Perrenoto, nell‘intento di placare i malumori che gli esponenti dei casati più rilevanti avevano espresso in quella circostanza, aveva inviato un suo delegato – il commissario Ginnesio de Cassino – per «riformare il sistema di quel Governo secondo la forma e le Capitolazioni di Cosenza»684. Erano ammessi alle cariche pubbliche «tanto delli nobili quanto delli onorati cittadini, non facendo arte alcuna [...] et delle casate degli uomini artesciani». Si trattava, dunque, di una «sistemazione estremamente rigorosa, la più precoce e la più rigida in Abruzzo, un‘autentica chiusura aristocratica»685, basata soltanto sul censo e sulla ricchezza. La famiglia Mazzara compariva, ovviamente, tra i casati più antichi e più importanti della città. Lo «splendore» di questo lignaggio era progressivamente accresciuto nel corso dei secoli, grazie ai titoli che alcuni suoi esponenti avevano acquisito e che avevano garantito alla famiglia un ruolo politico686 e sociale di prestigio nella città e nei rapporti con la capitale687.
Non conosciamo il punto di vista di questo nobile sulmonese di fronte alla reazione violenta che la massa popolare ebbe nei confronti dei rappresentanti del potere in città, ma
683 F. MAIORANO, Sulmona dei Nobili e degli Onorati: la storia, le famiglie, gli stemmi, Accademia degli Agghiacciati, Regione Abruzzo-Assessorato alla Cultura, 2007, p. 15. Sulmona vantava la presenza di un forte ceto nobiliare, che aveva rafforzato il suo potere nel corso degli anni; nel XIII secolo era stato istituito in città lo Justitiariatus Aprutii, in cui si riscuotevano i tributi di tutta la regione. Quale sede della corte regia, Sulmona aveva visto accrescere il suo prestigio, la sua rilevanza culturale e artistica, anche grazie alla presenza di due Accademie, quella degli Arditi e quella degli Agghiacciati, e, come si è visto nel capitolo precedente, continuava a rafforzare la propria autorevolezza attraverso la celebrazione del suo illustre passato. La forte rilevanza del ceto nobiliare fu attestata dall‘istituzione di una manifestazione che vantava origini antichissime, attestata con certezza a partire dal 1484 e attestata fino al 1643. La Giostra Cavalleresca si svolgeva nell‘arco di due giorni in concomitanza dei due principali eventi fieristici della città, il 25 marzo, giorno dell‘Annunciazione, e il 15 agosto, in cui si celebrava l‘Assunzione. In queste due ricorrenze i rampolli delle principali casate locali gareggiavano in questo torneo, le cui 44 regole furono raccolte e date alle stampe da Cornelio Sardi, esponente di un‘altra illustre casa sulmonese, nel 1583. Probabilmente alla metà del Seicento la Giostra fu dismessa – a detta del Pacichelli – «per disapplicazione e mancanza de‘ guerrieri», e sarebbe tornata a vivere nella rievocazione che dalla fine del secolo scorso la città celebra ogni estate.
684 I. DI PIETRO, Memorie storiche della città di Solmona, cit., p. 326. Fino alla metà del XV secolo, la città era stata governata da un numero esiguo di cittadini appartenenti ai ceti privilegiati. La riforma emanata nel 1472 da Ferdinando d‘Aragona sancì la creazione di un Consiglio e di un‘Aggionta di trentadue cittadini, impegnati a governare la città. La Costituzione del 1521 apportò ulteriori modifiche al sistema politico e amministrativo, ma l‘evento che rivoluzionò significativamente l‘assetto governativo della città fu l‘applicazione degli Statuti di Cosenza. Furono separati i casati dei nobili ex genere, i casati degli onorati del Popolo e i casati degli artigiani. Tra i primi, i soli ai quali spettavano i titoli di magnifico e di nobile, si censirono 42 casati con 104 famiglie diramate, mentre tra gli onorati del Popolo si contarono 65 casati con 92 famiglie separate. Insieme, queste due prime liste raggiungevano le 195 famiglie; il numero fu ritenuto sufficiente ad eleggere gli Officiali, ma automaticamente portò all‘esclusione degli artigiani dalla gestione della res publica.
685 R. COLAPIETRA, Gli organismi municipali nell‟Abruzzo d‟antico regime, in BDASP, XLVII-XLIX (1976-1978), pp. 25-26.
686 La famiglia Mazzara ebbe illustri giureconsulti alla guida della città. Si veda G. DI CROLLALANZA,
Appunti genealogici sulla nobile famiglia Mazzara di Sulmona, direz. del Giornale Araldico, Pisa 1875.
687 Nel Medioevo un rampollo dei Mazzara, Francesco, ebbe le insegne di cavaliere sotto la dinastia di Re Roberto d‘Angiò. Ferdinando d‘Aragona elevò il casato alla dignità nobiliare; inoltre esso strinse parentela con le principali casate nobili della città, tra cui i Meliorati, i Capograssi, i Corvi, i Sardi, i de Letto ed i Tabassi.
possiamo ricorrere alla testimonianza di un altro nobile, il cui lignaggio è anch‘esso ricordato nella lista dei casati più antichi e più illustri di Sulmona. A distanza di anni, infatti, Emilio De Matteis avrebbe ripercorso, nelle sue Memorie storiche de‟ Peligni, i momenti cruciali di quegli eventi, di cui era stato testimone oculare all‘età di diciassette anni:
«L‘anno 1647 fu molto infausto al Regno di Napoli, già che alli 7 di luglio tumultuando in Napoli il popolo, et ad esempio della Metropoli l‘altre Città, e luoghi del Regno nello spatio di nove mesi per tutto si udirono incendij, stragi, e ruine. Il primo motore fu un tale Maso Aniello, dal quale presero il nome l‘altri seditiosi, che lo seguirono. In Sulmona sollevatasi la plebe contro la nobiltà prese l‘armi creando il magistrato, e regendo il tutto a sua modo per molti giorni. Furono incendiati due palazzi, uno dei quali si diceva fosse stata habitatione delli Re Aragonesi. [...] Hora dubitandosi di maggiori eccessi la nobiltà unitasi insieme si rivolse a reprimere la baldanza della plebe, la quale benché maggiore in numero, parte fu posta in fuga, parte fu resa soggetta, e parte fatta prigioniera, e molti stimati capi, et origine di quei tumulti pagarono la pena colla vita restando per gran tempo esposte le loro teste a pubblico spettacolo nelle porte della Città. Cessate l‘insolenze della plebe sulmonese, non cessarono i travagli della Città afflitta da i continui passaggi de soldati, sino che restituita la Città di Napoli alla pristina quiete restò anco tranquilla il Regno tutto».
L‘archivista pubblico esprimeva tutto il suo disappunto nei confronti della rivolta di Masaniello e le successive sommosse scatenatesi in tutto il regno. Egli non accennava minimamente all‘insostenibile pressione fiscale che premeva sulla popolazione del Mezzogiorno. Chiamava i rivoltosi «seditiosi», colpevoli di «insolenze», e si soffermava a descrivere, in una parentesi di idillico interesse artistico, uno dei due palazzi aragonesi distrutti dai sulmonesi in quella circostanza e di cui rimanevano solo «miserabili avanzi». Il potere veniva, dunque, descritto unicamente attraverso il potenziale sostegno economico con il quale poteva supportare la società, e in questo caso specifico l‘arte, e l‘intervento armato della nobiltà era visto come un‘urgenza imprescindibile, utile ad evitare i «maggiori eccessi».
Lo stesso De Matteis, avvocato per la Real Camera della Summaria e Luogotenente del Grande Ammiraglio per le Province d‘Abruzzo, nonché nipote del giureconsulto Fabrizio De Matteis, ricoprì sempre importanti incarichi in città e, con la sua opera e i suoi finanziamenti, volle rappresentare un punto di riferimento per la comunità sulmonese. In particolare, egli s‘impegnò a sostenere, con la cospicua dote della moglie, la realizzazione del Collegio dei Gesuiti, da poco in città, a dimostrazione della fiducia che il nobile riponeva nell‘istituzione religiosa per la salvaguardia etica della cittadinanza. Inoltre, in numerose pagine delle Memorie, egli non fece altro che valorizzare il ruolo preminente che i suoi predecessori avevano rivestito a Sulmona. Ultimo esponente di questo illustre casato,
De Matteis poteva addirittura vantare tra i suoi antenati un pontefice, Innocenzo VII688 e, dedicandogli il primo capitolo del terzo libro, non faceva altro che recuperare «un topos dell‘agiografia medievale: il binomio nobiltà-santità»689, attraverso il quale ribadire che «la perfezione morale e spirituale difficilmente potesse essere raggiunta da persone che non provenissero da una stirpe illustre»690. Per questo egli si mostrava certo delle proprie ragioni e, spronato dalla sua fervente religiosità, interpretava la peste del 1656 come il castigo divino, la «Divina Giustizia», con cui il popolo era stato punito una volta per tutte, dopo la repressione degli eserciti. Al tempo stesso, egli vedeva nello «scampato pericolo dei Sulmonesi dal contagio della pestilenza»691 un segno provvidenziale692:
«Nell‘anno 1656 un‘horribile contaggio afflisse il Regno di Napoli, et una gran parte d‘Italia. Nella sola città di Napoli trionfò la morte più di trecento mila vite d‘huomini. Per speciale privilegio, e per la protettione de i Santi Tutelari restò esente Sulmona da così terribile flagello; già che essendo rimaste infette le due Provincie d‘Abruzzo con facilità soggiacer dovea alle communi miserie. [...] In ringratiamento della sua preservatione, la Città haveva edificata una nobile cappella al suo protettore S. Panfilo, li di cui prieghi trattennero li colpi della Divina Giustitia»693.
Inevitabilmente affiorava, in queste parole, il «distacco dell‘aristocratico per un moto popolano di grande importanza, che volutamente si tende[va] a ridurre a minimi termini»694. In Abruzzo, come in tutto il Regno, la rivolta del 1647-48 non poteva tramutarsi nell‘inizio di una nuova storia politica del Mezzogiorno perché «la fedeltà dei baroni napoletani alla Spagna si nutriva di motivazioni che, ancora una volta, andavano al di là della consonanza vera o supposta con i dominatori»695: fino ad allora la pax hispanica aveva garantito feudi, privilegi, titoli che una potenziale autonomia del Regno non avrebbe
688 Si chiamava Cosma Miliorati (Sulmona, 1336 – Roma, 1406). Entrato nel clero secolare, fu presto nominato rettore della chiesa della SS. Annunziata. Dal 1370 al 1381 gestì, con questo titolo, una cospicua parte delle transazioni economiche locali, durante il vescovato di Andrea Capograssi. I documenti testimoniano che a partire dal 1373 egli ricoprì la nomina di arciprete della città; un decennio più tardi era preposito di Valva, cioè capo dei due capitoli di S. Panfilo e di S. Pelino che costituivano la diocesi valvense. Da quel momento in avanti la sua carriera ecclesiastica sarebbe stata in continua ascesa fino alla nomina pontificia, giunta nel 1404 (A. DE VINCENTIIS, Innocenzo VII, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 581-584).
689 A. L. SANNINO, Le storie genealogiche, in Il libro e la piazza, cit., p. 148.
690 A. VAUCHEZ, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Age, École française de Rome, Roma 1981 (trad. It. La santità nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989), p. 129. Sull‘argomento si veda anche J. CHELINI, Histoire religieuse de l‟Occident médiéval, A. Colin, Paris 1958, p. 71.
691 G. PAPPONETTI, De Mattheis ritrovato, in RivAbrTeramo, XL (1987), 2-3, p. 114.
692 In queste convinzioni sono stati letti i «segni inequivocabili ed espressioni genuine» della forte influenza che le credenze mistico-religiose esercitavano in quel tempo sulla popolazione locale (E. MATTIOCCO,
Sulmona, in L‟Abruzzo dall‟Umanesimo all‟età barocca, cit., p. 577).
693 E. DE MATTEIS, Memorie storiche de‟ Peligni, cit., p. 295.
694 G. PAPPONETTI, De Mattheis ritrovato, cit., p. 114.
potuto assicurare. Per questo gli amministratori della città di Sulmona erano stati tra i primi a rinnovare la propria «antigua y encorruttible fidelidad al Rey»696.
Nel contempo, essi non avevano mai pensato di cogliere l‘occasione dei moti per opporsi all‘ormai datato status feudale della città. Al contrario, la nobiltà sulmonese aveva mantenuto sempre un atteggiamento reverenziale nei confronti delle diverse casate straniere che avevano esercitato il loro predominio sulla patria comune. Esso non venne meno neanche nel corso del Seicento e, anzi, con l‘arrivo dei Borghese si rese ancora più evidente. Si considerino nuovamente i continui riferimenti encomiastici di cui Mazzara aveva corredato i propri scritti, in cui si tessevano le lodi del casato Borghese e dei suoi principali esponenti, mediante la costruzione di disegni mitologici697 comuni tra le origini di quel lignaggio e la storia del centro peligno. Attraverso quei discorsi letterari Mazzara si faceva portavoce di un pensiero condiviso da tutta la nobiltà cittadina: si preferiva sottostare all‘autorità di un padrone lontano e poco presente, che però garantisse l‘armonia tra i poteri locali, anziché trovare una soluzione governativa autonoma. Fu per queste ragioni che i ceti dirigenti non sostennero l‘iniziativa popolare e anzi la condannarono, rinunciando definitivamente alla possibilità di liberarsi della presenza spagnola nella penisola e di costruire un‘unità politica libera dal «piede straniero». Sulmona, nel suo piccolo, ripristinava l‘ordine interno e il suo ceto nobiliare tornava ad affermare il proprio ruolo forte, ridefinendo i propri privilegi politici e sociali e rinsaldando la rete di interessi economici e di vantaggi che il rapporto con la monarchia e con la grande nobiltà romana aveva fino ad allora garantito.
696 V. MAZZARA, Miscellanea (1661), Vol. II c. 17v. Si riconferma, in queste pagine, la dichiarazione di fedeltà che i sudditi riconoscono al monarca e non alla patria napoletana. Si veda R. VILLARI, Per il re o
per la patria. La fedeltà del Seicento, Laterza, Roma-Bari 1994.
2.2 Il Settecento tra antiche e nuove tendenze
L‘attenzione che gli uomini di lettere e gli antiquari del XVII secolo avevano rivolto allo studio della tradizione italica non passò inosservata agli occhi degli eruditi del secolo successivo, che a più riprese si accostarono a quel passato remoto e cercarono di perfezionare il metodo storico attraverso il quale acquisirne una conoscenza più obiettiva. Le storie seicentesche erano quasi sempre rimaste ancorate a progetti controriformistici, a «dispute religiose e politiche [che] avevano pervaso la storia e screditato lo storico»698 e nel nuovo secolo si sentiva la necessità di rinnovare i criteri della ricerca storiografica, «analizzando a fondo le fonti e attingendo, possibilmente, a testimonianze diverse da quelle offerte dagli storici del passato»699.
Già nel 1698, Giacomo Mascitti, medico e sacerdote nativo di Peltima, aveva scritto un‘opera storica sull‘antica città di Corfinio, facendo affidamento quasi completamente sulle prove archeologiche – «scavi di pavimenti, di piante di edifici privati, bagni pubblici con musaici, monete, idoletti e gioie»700 – rinvenute nella Cappella di Pentima tra il 1697 e il 1698701. La silloge si presentava, agli occhi dello stesso Mommsen, «uberrima nec sine diligentia elaborata»702 e testimoniava la consapevolezza dell‘autore della «distinzione tra fonti originali e storici non contemporanei»703, che svolgevano un ruolo secondario nella trattazione. Al tempo stesso questo contributo dimostrava che lo scrivente e l‘ambiente culturale, disposto ad accogliere la sua opera, erano vivamente consapevoli del ruolo