Altra grande protagonista delle sfere del potere locale fu la Chiesa che, tra il XVI e il XVII secolo, s‘impegnò nel riaffermare il suo ruolo preminente, cercando di recuperare quelle giurisdizioni che negli ultimi tempi erano state messe in discussione da più parti. Numerosi erano, infatti, i corpi che opponevano resistenza alle diocesi abruzzesi, in primis quelli interni alla stessa Chiesa – i monasteri, le confraternite e gli ordini religiosi da poco istituiti –, i quali non intendevano sottomettersi all‘autorità dei vescovi. Sul versante politico la grande feudalità fu la prima a rivendicare i propri diritti, in virtù di una pratica consuetudinaria che ormai la legava da tempo alla gestione di numerosi benefici ecclesiastici, ma anche i governi cittadini ed il potere regio fecero la loro parte nella rivendicazione dei propri diritti sulle giurisdizioni locali.
I vescovi abruzzesi, coerentemente con quanto stabilito dal Concilio di Trento, cominciarono a risiedere stabilmente nelle proprie diocesi e a visitare con regolarità tutte le comunità sottoposte alla propria guida. Le principali diocesi abruzzesi erano quelle dell‘Aquila, di Chieti, Teramo, Atri, Penne, Sulmona e Valva, Lanciano, Cittaducale e la diocesi dei Marsi (con sede a Pescina dal 1580). A queste si aggiungevano le sedi minori di Ortona (1570), Campli (1600), e, nel Teramano, quella di Montalto (1586) e la Diocesi
nullius amministrata dagli abati Acquaviva (1530-1795). Nei centri maggiori vennero
istituiti i seminari, nei quali era possibile ospitare e fornire un‘adeguata formazione ai candidati al sacerdozio. Tuttavia, questa iniziativa non fu sempre sostenuta dal potere civile: a Teramo il vescovo Vincenzo Busciatti di Montesanto70, che in passato aveva ricoperto la carica di commissario generale dell‘Inquisizione romana, avviò la costruzione del seminario cittadino, promossa dai predecessori Piccolomini e Ricci, ma entrò subito in contrasto con l‘amministrazione comunale, che premeva invece per l‘inserimento dei Gesuiti nella città e l‘istituto, aperto nel 1596, fu chiuso dopo soli sette anni per motivi ancora poco chiari. A Penne furono le difficoltà economiche a rallentare i lavori, tanto che si dovettero alternare tre vescovi e passare tre decenni prima che Silvestro Andreuzzi di Lucca, eletto nel 1621, potesse inaugurare l‘istituto; lo stesso accadde all‘Aquila dove lo spagnolo Juan de Acunha, eletto da Pio IV su consiglio di Filippo II, di cui era il confessore, fondò il seminario, ma i costosi lavori edili voluti dal pastore toscano accrebbero le difficoltà economiche della diocesi e resero più difficile il mantenimento dell‘istituzione. Nel 1581 il successore Mariano de Racciaccaris convocò il primo sinodo diocesano, occasione ricercata per discutere sulle tante problematiche che la circoscrizione episcopale viveva, a partire dai conflitti che intercorrevano tra gli abati della sua diocesi e i vescovi vicini. Francescano devoto alla Madonna del Carmelo, il vescovo chiamò in città i Padri Carmelitani per rinnovare e sostenere la vita spirituale della comunità aquilana, in linea con la tendenza generale diffusissima tra Cinque e Seicento, nella regione e nel resto
70 F. VECCHIETTI – T. MORO, Biblioteca picena, o sia notizie istoriche delle opere e degli scrittori, Tomo III, Quercetti, Osimo 1793, p. 112.
della penisola, di inserire in città antichi e, soprattutto, nuovi ordini religiosi nati nello spirito della Controriforma.
Nel 1596, su richiesta dei Magistrati aquilani, il padre gesuita Roberto Bellarmino, superiore della Provincia Napoletana, incaricò due religiosi della Compagnia di fondare il
Collegium Aquilanum per «servizio e aiuto spirituale di quel popolo»71. Per oltre un trentennio, dal 1563 fino al novembre 1596, la comunità si era spaccata in due tra un partito filogesuita ed uno contrario che ne temeva un‘invadenza eccessiva nella vita cittadina e per questo si attivò alacremente per il «potenziamento dell‘istruzione pubblica»72. Al contrario, i primi, sostenuti dal viceré e da Claudio Acquaviva, Preposito Generale dell‘Ordine, fecero il possibile per ottenere l‘apertura dell‘istituto, insistendo su quel non plus ultra culturale con cui l‘iniziativa avrebbe arricchito la città e come realmente poi si riscontrò73. A Teramo l‘introduzione della Compagnia di Gesù fu sostenuta dai rappresentanti del ceto possidente, giunto al potere in seguito alla svolta oligarchica che, avvenuta nel 1562, avrebbe ancorato al potere gli esponenti delle quarantotto famiglie teramane emergenti fino alla metà del XVIII secolo (da qui nasceva la denominazione del governo del quarantottismo). Muzio Muzii, appartenente ad una famiglia influente e autore di un Dialogo della storia di Teramo, partecipò in prima persona all‘evoluzione politica cittadina proponendo attivamente, anche attraverso la propria opera, questa riforma politica. Il suo programma comprendeva ogni aspetto della vita cittadina e rispecchiava pienamente la «cultura neonobiliare e controriformista, legando una ristrutturazione politica rigorosamente oligarchica ad una esigenza di rigore morale e di rinnovamento della vita culturale cittadina»74 e, in quest‘ottica, l‘ordine gesuitico «interpretava la riforma della Chiesa nei termini che più potevano interessare, almeno per tutto il Cinquecento, gli intellettuali laici, realizzando [...] un compromesso tra
71 Così si legge in una lettera di Claudio Acquaviva al Conte di Conversano scritta in data 22 novembre 1596 (ARSI, Neap. Fundationes Collegiorum, 5, c. 171v).
72 A. CLEMENTI, L‟Università dell‟Aquila dal Placet di Ferrante I d‟Aragona alla statizzazione.
1458-1982, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 49-105, in particolare p. 58.
73 «L‘impianto del collegio aquilano rappresenta il momento più alto dell‘attività educativa dei Gesuiti in Abruzzo tanto che, a ragione, il suo livello può essere considerato di grado universitario» in A. CLEMENTI,
Storia dell‟Aquila: dalle origini alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 137; si veda,
inoltre, G. GAMBONI, I Gesuiti all‟Aquila dalla fine del Cinquecento ai nostri giorni, Bodognana, L‘Aquila 1941. In quegli anni giunse in città un gesuita originario di Paterno Calabro, padre Sertorio Caputo, che aveva maturato numerose esperienze frequentando ambienti ecclesiastici diversi tra Cosenza, Napoli. Questi avviò all‘Aquila una scuola di matematica, come aveva già fatto nel centro cosentino, e si dedicò anche alla fondazione di una congregazione detta dei Chierici. Ebbe inoltre un ruolo attivo nell‘Accademia dei Fortunati che, nel 1598, prese il nome di Accademia dei Velati, anche grazie all‘intervento del gesuita.
74 L. ARTESE, Introduzione a M. MUZII, Storia della città di Teramo, a cura di L. Artese, manoscritto Ashburnham 1261 della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, Biblioteca Provinciale ―Melchiorre Delfico‖, Teramo 1954, p. XIII. Scrive in merito Olmo: «Ad ogni tappa del suo sviluppo, la società rielabora i propri ricordi in modo da adattarli alle condizioni presenti del suo funzionamento. Mediante un processo di ricostruzione perenne, la memoria esprime l‘interpretazione del passato a partire da quella del presente: come memoria collettiva, essa rafforza la coesione del gruppo a cui appartiene, è parte integrante della sua essenza, si trasforma a mano a mano che il gruppo si evolve». La citazione è tratta da C. OLMO e B. LEPETIT (a cura di), La città e le sue storie, Einaudi, Torino 1995, p. 38.
la cultura laica, legata ancora all‘esperienza umanistica, e le tendenze della Chiesa postridentina»75.
D‘altro canto, agli occhi dei Gesuiti, l‘Abruzzo acquisiva i colori di una terra avvolta nelle tenebre della superstizione e dei culti paganeggianti, tanto da essere etichettata con l‘espressione «Indie degli Abruzzi»; inoltre la frammentata articolazione insediativa rendeva più difficile l‘opera di predicazione, come padre Dionisio Vasquez, responsabile del collegio teramano, confidava al generale dell‘ordine:
«Nelle montagne, che sono grandi e molto vicine, habbiamo un‘India in ignorantia et bisogno di aiuto spirituale; nelle quali, quando vanno li nostri, che è frequentemente, sono ricevuti come angeli di Dio, et domesticandosi molto, imparano la dottrina cristiana et obbediscono alli padri. Grande è la fatiga d‘andare per le montagne a predicare et insegnare la dottrina, ma molto è maggiore il frutto che si vede riuscire. Vengono dalle castella a chiamar li nostri ogni settimana dei doi o tre lochi, perché le castella sono più di centocinquanta, ma tutte piccole, come in montagne»76.
Il collegio gesuitico fu attivo per soli cinque anni nella città teramana e molteplici furono i tentativi, da parte del ceto dirigente, di favorirne la riapertura tant‘è che ancora nei primi decenni del Seicento sia i Muzii sia gli Urbani disposero, nei propri testamenti, ingenti lasciti in favore dell‘ordine. A remare contro questa possibilità erano i vescovi, preoccupati di perdere la propria preminenza nei vari compiti riconfermati nel Concilio tridentino; l‘altro tasto dolente che frenava la riapertura dell‘istituto religioso riguardava la presenza di un Acquaviva ai vertici della Compagnia: Claudio77, quinto Preposito Generale dell‘ordine, nel suo lungo generalato (dal 1581 fino alla morte avvenuta nel 1615), accrebbe il numero dei membri dell‘ordine da cinquemila a tredicimila religiosi, portò a compimento la redazione della Ratio Studiorum e contribuì all‘accrescimento del prestigio della Compagnia a tutti i livelli sociali, ma la forte influenza che egli esercitò sul vescovo teramano per la gestione dei benefici ecclesiastici tormentò a lungo il governo della città,
75 L. ARTESE, Introduzione, cit., p. XIV.
76 Relazione del P. Dionisio Vasquez al P. Francesco Borgia, Generale della Compagnia di Gesù, Teramo
1571, in P. TACCHI VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, tomo I, Civiltà cattolica, Roma
1931, p. 367.
77 Nel 1606 furono inaugurati ad Atri, città nativa dell‘ecclesiastico, un collegio e, appositamente per i novizi, una casa di probazione. La città picena divenne allora un basilare punto di riferimento per l‘attività missionaria dell‘ordine nella regione. Sulla figura dell‘Acquaviva e sull‘operato dei Gesuiti durante il suo generalato si veda M. ROSA, Acquaviva, Claudio, in DBI, 1 (1960), pp. 168-178; R. AURINI, Acquaviva
d‟Aragona Claudio, in Dizionario bibliografico della Gente d‟Abruzzo, Ars et Labor, Teramo 1958, Vol. III,
e nella nuova edizione ampliata, a cura di F. Eugeni, L. Ponziani, M. Sgattoni, Andromeda, Colledara 2002, Vol. III, pp. 55-62; A. GUERRA, Un generale fra le milizie del papa, la Vita di Claudio Acquaviva scritta da
Francesco Sacchini della Compagnia di Gesù, Franco Angeli, Milano 2001; G. DI FILIPPO, Claudio Acquaviva, in U. RUSSO e E. TIBONI (a cura di), L‟Abruzzo dall‟Umanesimo all‟età barocca, Ediars,
Pescara 2002, pp. 411-416; P. BROGGIO – F. CANTÙ – P. A. FABRE – A. ROMANO (a cura di), I gesuiti
ai tempi di Claudio Acquaviva. Strategie politiche, religiose e culturali tra Cinque e Seicento, Morcelliana,
anche in virtù dei mai sopiti interessi che la casa Acquaviva aveva sempre nutrito per la città aprutina.
Nell‘opera missionaria di risveglio spirituale della regione abruzzese, a partire dal 1593 fu Chieti la nuova base strategica dei Gesuiti: la città aveva avuto i suoi primi contatti con l‘ordine dopo il 1587, ma in realtà essa respirava già da anni l‘aria controriformistica, grazie alla presenza di un altro ordine, istituito nel 1524 dal protonotario apostolico Gaetano Thiene insieme con Bonifacio de‘ Colli, Giampietro Carafa (assurto il 23 maggio 1555 al soglio pontificio col nome di Paolo IV) e Paolo Consiglieri, tutti membri dell‘Oratorio del Divino Amore, spronati dalla volontà di contribuire al progetto di rinnovamento ecclesiastico, attraverso la riforma del clero, la denuncia dei casi di corruzione, e il recupero della prima regola della vita apostolica: i chierici regolari di quest‘ordine prendevano il nome di Teatini dall‘antico nome della città, Teate, di cui Carafa fu vescovo per ben due volte78. La città di Chieti rappresentava per la Curia romana «il centro di una estremamente vasta, ricca e influente diocesi, ove presso che dall‘origine [avevano] avuto diffusione e influenza insediamenti francescani, e importanti iniziative [nascevano e avevano] fortuna prima e dopo il Concilio di Trento»79: oltre alla fondazione dei Teatini e al ruolo rilevante che Paolo IV esercitò prima dell‘ascesa al pontificato, bisogna infatti ricordare le missioni in Oriente di Alessandro Valignani, e poi ancora il contributo dei fondatori di altri due ordini della Controriforma, Francesco Caracciolo dei Chierici Regolari Minori e Camillo de Lellis dei Ministri degli Infermi, entrambi originari della diocesi teatina (provenienti rispettivamente da Villa Santa Maria e da Bucchianico), in un quadro sociale particolarmente complesso, «tra le persistenze della religiosità popolare e rurale e l‘azione di difficile innovazione dei vescovi tridentini»80.
Agli inizi del XVI secolo, Chieti aveva perso una buona parte del proprio territorio a seguito dell‘emanazione, da parte di Leone X, della bolla di erezione del vescovado lancianese (1515), ma un decennio più tardi, nel 1526, otteneva il suo riscatto, promossa da Clemente VII a Metropoli e arcidiocesi81. Perdute presto le suffraganee Penne, Atri e la stessa Lanciano, che nel 1562 veniva elevata anch‘essa ad arcidiocesi da Pio IV, Chieti
78 Cfr. A. VANNI, «Fare diligente inquisitione». Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Viella, Roma 2010.
79 A. SALADINO, Il peso della storia in una difficile modernizzazione, in Teate Antiqua. La Città di Chieti, Vecchio Faggio, Chieti 1991, p. 428.
80 Ibidem. Si veda I. FOSI – G. PIZZORUSSO (a cura di), L‟Ordine dei Chierici Regolari Minori
(Caracciolini): religione e cultura in età postridentina, Atti del Convegno, Chieti, 11-12 aprile 2008,
Loffredo, Napoli 2010.
81 In quello stesso anno la Metropoli teatina otteneva anche la giurisdizione religiosa dell‘Abbazia di San Giovanni in Venere e di tutti i paesi che da essa dipendevano, da parte della Congregazione dell‘Oratorio di San Filippo Neri, il cui feudo era stato concesso in perpetuo da Sisto V nel 1585. Nel clima controriformistico italiano, il ruolo delle confraternite cittadine era, infatti, di primaria importanza: anch‘esse, come gli ordini religiosi, tendevano a sottrarsi al controllo dei vescovi e, attraverso la loro azione comunitaria – legata soprattutto alla istituzione di monti frumentari e di ospedali – costituivano un notevole punto di riferimento per l‘economia locale. Tra le confraternite più diffuse in Abruzzo si individuano quelle del Sacramento e del Rosario. A Lanciano svolse un ruolo ragguardevole la Congregazione ―Morte e Orazione‖, devota a San Filippo Neri e fondata, nel 1608, per l‘impegno civico di limitare l‘espandersi della peste che in quegli anni dilagava in Abruzzo Citeriore.
avrebbe successivamente ottenuto sotto la propria direzione Ortona (20 ottobre 1570) e Campli (12 maggio 1600). La già imponente architettura ecclesiale si ampliò ulteriormente dopo che, su decreto tridentino, anche qui fu istituito il seminario diocesano; in quegli anni nuovi e vecchi ordini religiosi competevano tra loro e questo provocò «un vero e proprio processo di trasformazione del tessuto di interi quartieri cittadini, destinati a giardino nella prima metà del Cinquecento, adibiti quindi ad edilizia civile e poi diventati aree conventuali»82.
Ma in questi anni l‘azione della Chiesa avanzò su due fronti: da una parte Roma dovette reagire all‘onda riformatrice di Lutero e dei successivi cambi di rotta interni al mondo cristiano, adoperandosi per fornire una risposta dottrinale alle questioni ora sollevate, riformarsi ad ogni livello della gerarchia ecclesiastica e consolidare la propria presenza sul territorio; dall‘altra, preoccupata per la sempre più incalzante minaccia turca nel Mediterraneo, sollecitò la politica europea a reagire e trovò nella figura di Filippo II il guardiano dell‘ortodossia cattolica, pronto a coordinare una Lega santa in grado di fermare l‘avanzata ottomana, soprattutto in seguito all‘occupazione dell‘isola di Cipro, ultimo avamposto cristiano nel Mare Nostrum dei Romani, nel ―Mare Bianco‖ dei Turchi.
Quando, nel 1582, Margherita d‘Austria acquistò Ortona dai Lannoy per 54.000 ducati, la città era ormai semidistrutta a causa delle incursioni saracene che lungo il XVI secolo l‘avevano devastata ripetutamente. Il Regno di Napoli rappresentava l‘avamposto dei domini spagnoli nella dura lotta contro i Turchi e le coste abruzzesi, come quelle pugliesi, costituivano il primo spazio esposto alla loro minaccia. Lasciate in abbandono per pura pratica di malgoverno, esse si presentavano spesso inaccessibili agli invasori e ai pirati perché l‘inefficienza del governo centrale tendeva spesso ad assumere le forme di una scelta strategica in linea con la «teoria dei bastioni», secondo la quale le province imperiali più esterne erano chiamate a proteggere il cuore dell‘Impero.
Nel ―laboratorio politico‖ del Regno napoletano la lotta contro i Turchi si presentava come una nuova occasione per rinnovare la «logica del compromesso» tra la Corona spagnola e la feudalità meridionale, ma i costi di questo compromesso ricadevano ancora una volta sulle popolazioni rurali della periferia83. Agli abitanti dei centri costieri di Francavilla, Ortona, San Vito, Vasto fu più volte ordinato di abbandonare i propri alloggi sul litorale e di ritirarsi nelle fasce collinari dell‘entroterra; chi si ostinava a rimanere vide le proprie case saccheggiate e distrutte84. Il predicatore domenicano Serafino Razzi, in visita tra il 1574 e il 1577 presso le principali abbazie della regione, fu testimone oculare di alcuni episodi di attacchi pirateschi sulla costa adriatica. I suoi resoconti di viaggio
82 G. VITOLO – A. MUSI, Il Mezzogiorno prima della questione meridionale, cit., p. 133.
83 Riferendosi alla delicata posizione del Mezzogiorno, esposto per primo alla violenza delle popolazioni islamiche, Ajello riprende il concetto di «frontiera» utilizzato da Pepe e arriva a parlare di «frontiera disarmata» (R. AJELLO, La frontiera disarmata. Il Mezzogiorno avamposto d‟Europa, in L. BALBI (a cura di), Futuroremoto 1992. Il mare, Cuen, Napoli 1992, pp. 45-95). Si vedano inoltre A. MUSI (a cura di), Nel
sistema imperiale: l‟Italia spagnola, ESI, Napoli 1994; ID. (a cura di), Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, Guerini e associati, Milano 2003, pp. 42-44.
tracciano un vivido affresco delle esperienze vissute personalmente nella notte del 6 giugno 1575 a Francavilla, nove anni dopo la memorabile incursione del ‗66: «l‘armata generale del Turco […] fra l‘altre saccheggiò questa Terra, e le recò tanto danno che ancora se ne sente e sentirà qualche anno, essendo le chiese per la maggior parte ruinate et abruciate, senza campane che furono da quei malvagi portate via, et in molta povertà, e per non si essere fino a quì rifatte le mura che la cingevano, ma standosene in molti luoghi per terra, ove furono da quei cani gittate, il povero popolo, che con la fuga verso i monti in quel sacco si salvò, ritornato istà sempre con timore di peggio, et ogni picciolo sospetto lo fa sollevare»85. La flotta veneziana era responsabile della sicurezza marittima («i clarissimi signori Viniziani, per esser‘istata, come dicono, data loro dalla Chiesa la guardia del Golfo Adriatico, non permettono, per quanto possono, che altri legni armati ci siano tenuti fuori dei loro») ma, come il predicatore riferisce in tono polemico, non sempre svolgeva questo compito in maniera rigorosa e diligente, appropriandosi essa stessa dei bottini dei pirati86. Lepanto rappresentò la grande occasione per rilanciare la Spagna tra le grandi potenze europee e nella lotta contro il Turco l‘Abruzzo apportò un valido contributo, inviando nutrite spedizioni militari sulle galee venete comandate a Lepanto dal Barbarigo87. Numerosi furono i nobili abruzzesi che, al seguito di Marcantonio Colonna, signore della Marsica, tornarono vincitori dalla grande battaglia. Operosa fu la partecipazione dei vicari delle diverse diocesi – in primis quella dell‘arcivescovo di Chieti Giovanni Oliva – i quali incoraggiarono attivamente le collettività a mandare nutrite schiere di uomini a Lepanto; il vescovo di Penne, Paolo Odescalchi, fu inviato da Pio V come Nunzio apostolico presso il comandante generale della flotta cristiana, don Giovanni d‘Austria. Questi, nel 1573, sarebbe entrato trionfalmente nella città dell‘Aquila, di cui allora Margherita d‘Austria, sua sorella, era governatrice; anche il figlio della Madama, Alessandro, avrebbe visitato il centro abruzzese dopo aver partecipato come volontario alla storica battaglia.
Lepanto seguiva di soli dodici anni la pace di Cateau Cambrésis, che aveva definitivamente messo la parola fine alla tormentata epoca delle guerre italiane, in cui, ancora una volta l‘Abruzzo aveva subito la misera condizione di terra di confine e, dunque, di passaggio per gli eserciti delle «preponderanze straniere», che alcuni decenni prima avevano assunto i volti di Carlo V e di Francesco I, ed ora quelli di Filippo II ed Enrico II.
85 S. RAZZI, Vita in Abruzzo nel Cinquecento. Cronache di viaggio in Abruzzo negli anni 1574-1577, Polla, Cerchio 1990, p. 27.
86 «Deesi da poi notare, come è fama tra questi popoli, che le galee Viniziane a bella posta lascino entrare le fuste nimiche nel Golfo acciò che poi cariche di preda nell‘uscire diano loro nelle mani, e, prendendole e somergendole, la roba sia tutta loro» (Ivi, p. 87).
87 Sul contributo dell‘Abruzzo nella battaglia di Lepanto cfr. L.RIVERA,La vittoria di Lepanto e l‟Abruzzo,
in RivAbrTeramo, III (1950), 3, pp. 102-106. Il saggio offre valide indicazioni circa l‘apporto che la letteratura e le arti abruzzesi diedero per suggellare la vittoria cristiana sul nemico: furono elaborate pale d‘altare, sonetti, laudi per immortalare la fine di un periodo di martoriazioni, tensioni e guerre che la regione