La memoria e la storia locale 1. Le tradizioni memorialistiche
1.5 Storie di famiglie
Occupa una posizione fondamentale nella cosiddetta «cultura del ricordo»293 la memoria familiare, la cui configurazione richiede necessariamente la presenza di riferimenti spazio-temporali ben saldi, di elementi attraverso i quali essere ricostruita e di un legame fermo con la comunità d‘appartenenza294. Essa è già presente nelle società antiche, ancorata alla necessità di venerare il ricordo degli antenati e di valorizzare l‘antichità del proprio ceppo e, prima dell‘avvento della scrittura, al pari dei racconti sull‘intera comunità, comprende la storia delle origini, generalmente incardinata a riferimenti mitici, e le vicende che hanno coinvolto la famiglia nelle ultime quattro generazioni295.
292 A. ORLANDI, Niccolò Toppi bibliografo: la Biblioteca Napoletana in rapporto alla produzione
repertoriale seicentesca, relazione presentata nel Convegno di Studi Niccolò Toppi patrizio teatino.
Erudizione e diritto a Napoli nel Seicento, Chieti 12-13 dicembre 2007, organizzato dalla Deputazione di Storia Patria degli Abruzzi e dall‘Università degli Studi ―G. D‘Annunzio‖ di Chieti.
293 J. ASSMANN, La memoria culturale, cit., p. 5. Analogamente a quanto si è detto in apertura del capitolo in merito alla memoria collettiva, anche per quanto riguarda le memorie familiari le società antiche prive di scrittura tendevano a concentrare la propria attenzione su due momenti: il ricordo delle ultime quattro generazioni e la storia, spesso mitica, delle origini del proprio ceppo. L‘avvento della scrittura avrebbe permesso di oggettivare i contenuti del racconto storico e di fissare indelebilmente la memoria della propria famiglia.
294 G. CIAPPELLI, Memoria collettiva e memoria culturale. La famiglia fra antico e moderno, ―Annali dell‘Istituto Storico Italo-Germanico in Trento‖, XXIX (2003), pp. 13-32.
Il termine francese ―marque‖296, inteso come marchio, impronta, immagine, icona, rimanda alle maschere dell‘antica Grecia, ai profili dei principes sulle monete romane, ai ritratti dell‘imperatore presso i Bizantini e a tutte le rappresentazioni artistiche capaci di immortalare il volto dei grandi. La Roma repubblicana e imperiale, le dinastie dei re nel Medioevo, i principi rinascimentali avevano attinto avidamente a queste forme di raffigurazione dell‘immagine per esprimere la volontà di perpetuare la propria memoria e quella dei familiari. Questa tradizione non accenna a scomparire nei secoli a venire, se solo si pensa ai ritratti di famiglie fiamminghi commissionati nel corso del Seicento.
Come le espressioni dell‘arte, anche la penna degli storici è stata messa al servizio del potere affinché garantisse la salvaguardia della memoria dei propri avi perché, ricordava l‘arcade Isidoro Nardi nella Genealogia della famiglia Valignana (1686), «Fidia, e Prassitele, con tutti i più celebri Scultori, arebbero sepolta nella tomba della dimenticanza, insieme con le loro famosissime Statue, la fama del proprio nome, se le penne d‘Historici valevoli ad immortalarne le memorie non avessero i loro scalpelli celebrato». Proprio in questo senso si sono mossi gli scrittori dei secoli precedenti, cercando nel passato le prove che legittimassero uno status sociale e politico raggiunto o da convalidare – dalle liste genealogiche regali dell‘antichità fino alle ricostruzioni dinastiche prodotte in età moderna – perché «non si dà nobiltà senza memoria»297.
L‘identità delle famiglie si definisce nel corso dell‘età medievale, epoca in cui si consolidano i primi cognomi nobiliari, si definiscono le insegne araldiche, gli stemmi dei casati. A mantenere il monopolio della tradizione scritta sono principalmente le istituzioni ecclesiastiche, che affidano ai propri uomini il compito di perpetuare la memoria collettiva. Per questo gli eruditi abruzzesi, tra Sei e Settecento, indagano alacremente i registri conservati nei monasteri e negli archivi delle chiese locali, alla ricerca delle prove più antiche sulla storia delle famiglie locali, oltre che della vita collettiva298. Parallelamente, a
296 P. RICOEUR, Ricordare dimenticare perdonare. L‟enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 9-50. Il titolo originale di questo saggio, apparso inizialmente in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1, 1998, pp. 7-32, è appunto La marque du passé (trad. it. L‟enigma del passato). Ricoeur ha dedicato buona parte dei suoi studi al tema della memoria, del ricordo e dell‘oblio. Tra i suoi contributi più importanti si ritiene opportuno ricordare in questa sede: ID., Tempo e racconto, trad. it. a cura di Giuseppe Grampa, 3 Voll., Jaca Book, Milano 1986-1988; ID., L‟écriture de l‟histoire et la représentation du passé, «Annales. Histoire, Sciences Sociales», a. 55, 2000, 4, pp. 731-747; ID., La memoria, la storia, l‟oblio (2000), ed. it. a cura di Daniella Iannotta, Cortina, Milano 2003. Un‘attenta riflessione su quest‘ultimo contributo è stata offerta da F. BÉDARIDA, Une invitation à penser l‟histoire: Paul Ricœur, La mémoire, l‘histoire et l‘oubli, «Revue historique», 3/2001 (n° 619), pp. 731-739. Sull‘immagine quale strumento di perpetuazione della memoria si vedano i lavori di Lina Bolzoni: La cultura della memoria, Palazzo Vecchio, Firenze 1989; La
stanza della memoria. Modelli letterali e iconografici nell‟età della stampa, Einaudi, Torino 1995; Memoria e memorie, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1995; Il senso della memoria, Accademia Nazionale dei
Lincei, Roma 2002; La rete delle immagini, Einaudi, Torino 2002.
297 O. G. OEXLE, Memoria als Kultur, in ID (a cura di), Memoria als Kultur, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1995, p. 38. Cfr. G. CIAPPELLI, Memoria collettiva e memoria culturale. La famiglia fra antico e
moderno, cit., pp. 13-32; ID. - LEE RUBIN P. (edited by), Art, memory, and family in Renaissance Florence, Cambridge University Press, Cambridge 2000; ID., Memoria, famiglia, identità tra Italia ed Europa nell‟età moderna, Quaderni dell‟Istituto Storico Italo-Germanico in Trento, Il Mulino, Bologna
2009.
298 Si pensi al lavoro scrupoloso svolto da Antinori con i regesti dei documenti conservati presso la Chiesa di Santa Maria Maggiore a Lanciano.
partire dall‘età bassomedievale, le famiglie più influenti nel panorama locale, sull‘esempio delle autorità reali, cominciano a commissionare genealogie e cronache a figure professionali che, da questo momento, sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale nella costruzione delle identità sociali. Esse sentono il bisogno di trasmettere ai posteri la propria memoria genealogica perché il rango di una famiglia è «definito da ciò che essa stessa e le altre famiglie sanno del suo passato»299. Il più delle volte la necessità di elaborare le memorie familiari emerge di fronte alla premura di stabilizzare o di rinvigorire la propria posizione sociale, economica, politica, come accade nel caso in cui si avverta la minaccia del declino o della perdita del proprio potere, oppure in seguito all‘acquisizione di nuovi privilegi. Per questo motivo, nel corso dell‘età moderna, si riscontra una nutrita diffusione delle «prove di nobiltà»300 – accompagnate da una serie di documenti che possano comprovare questo status sociale – e delle ―genealogie‖, non sempre attendibili e anzi, in alcuni casi, risultato di vere e proprie falsificazioni.
Nel territorio abruzzese esiste una pluralità di scritture legate alla memoria familiare, che comprende, prima di tutto, genealogie, memorie, documenti e privilegi, appunti, prove di nobiltà: si tratta di materiale quasi del tutto inedito, redatto in alcuni casi da esponenti della famiglia preoccupati di conservare e trasmettere alle generazioni successive le prove della vetustas del proprio lignaggio.
Una forma ibrida di scrittura è quella dei «libri di memorie»301, in cui le vicende familiari si intrecciano alle informazioni sul patrimonio amministrato dagli esponenti di rilievo del casato. Generalmente la prima parte del testo, composta da un compendio della storia familiare con il relativo albero genealogico e la trascrizione dei privilegi e dei documenti che attestano la nobiltà del casato, occupa uno spazio inferiore rispetto alla seconda parte, quella in cui si riporta il bilancio economico della famiglia, con la serie delle entrate e delle uscite principali. La prima diffusione di questo modello di scrittura nel panorama italiano è riconducibile agli anni che intercorrono tra il Due-Trecento e il primo Cinquecento, ma il genere è destinato a riproporsi fino all‘età contemporanea. Gli studi più recenti dimostrano che Firenze è stato il laboratorio più prolifico, mentre nel resto della penisola lo sviluppo di questa scrittura percorre un tracciato meno rigoglioso, ma comunque significativo per capire l‘atteggiamento delle famiglie più influenti nello spazio locale e il loro rapporto con la scrittura.
299 J. ASSMANN, La memoria culturale, cit., p. 15.
300 Ne è un valido esempio la Somma di notizie historiche raccolte da Vari Autori / Della Nobiltà della
Famiglia de Pizzi della Città di Ortona, e di altre che con essi hanno contratto Parentela. Il compilatore,
Domenico Antonio De Pizzis radunò tra il 1517 e il 1717 tutti i documenti (redatti in triplice copia) relativi alla storia del casato, ritenuti utili per l‘ammissione all‘Ordine di Malta. Il manoscritto è oggi conservato nella Raccolta privata dell‘architetto Battistella a Lanciano: è composto da due fascicoli e da alcuni fogli sparsi che sono stati rilegati dall‘attuale proprietario.
301 Su questa pratica di scrittura cfr. A. CICCHETTI – R. MORDENTI, La scrittura dei libri di famiglia, in
Letteratura italiana, III, Le forme del testo, 2, La prosa, Einaudi, Torino 1984, pp. 1117-1159; A.
CICCHETTI – R. MORDENTI, I libri di famiglia in Italia, I, Filologia e storiografia letteraria, Edizioni di storia e Letteratura, Roma 1985; L. PANDIMIGLIO, Famiglia e memoria a Firenze, I, Secoli XIII-XVI, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010; i vari contributi editi nella sezione Memoria familiare cittadina:
L‘unico esemplare annoverabile in questo genere all‘interno della produzione abruzzese è quello elaborato, sul finire del Settecento, da Erasmo Muzii302, esponente di spicco del casato teramano, il quale, alla morte del fratello Giovanni, nel 1793, assume il controllo di tutti i beni familiari e ne attua un incremento mai riscontrato fino ad allora, grazie ad un‘attiva e incessante politica di acquisti. Nel 1785 Erasmo avvia la redazione di questo
Libro delle memorie della famiglia Muzii, in cui traccia la storia del casato e registra
numerosi documenti, in parte ancora conservati presso il Fondo Muzii della Biblioteca provinciale e in parte andati perduti. È lui a decidere di raccogliere tutti gli atti e gli appunti di Muzio e a trascriverne una copia dei Dialoghi. Il manoscritto, rilegato e ordinato, presenta numerosi fogli bianchi, in cui con tutta probabilità avrebbero dovuto prender posto altri capitoli del Libro. L‘autore stesso aggiunge ulteriori notizie in anni successivi e, come si nota sul recto della carta 6, anche Augusto Muzii – il promotore dell‘edizione critica dei Dialoghi di Muzio Muzii, realizzata nel 1893303 – aggiornerà, a distanza di un secolo, la storia della famiglia inserendo le proprie vicende personali e quelle dei suoi cari fino al 1874. Erasmo cerca un contatto con quel lontano antenato, consapevole di aver segnato anch‘egli in maniera significativa uno spaccato della vita del casato. Come abbiamo visto, a Teramo non era mai esistito un vero e proprio ceto nobiliare, ma solo un nutrito gruppo di ricchi possidenti terrieri, che si erano ―imposti‖ alla guida della città nella seconda metà del Cinquecento, tramandando ai propri discendenti il diritto di governare. Dopo la riorganizzazione amministrativa stabilita dal potere centrale nel 1770, il quadro politico in parte cambiò; tuttavia, ancora per diversi decenni la vecchia
élite locale continuò a detenere il controllo della situazione. Alla fine del secolo Erasmo
Muzii si sarebbe schierato dalla parte del partito borbonico teramano e nel 1799 sarebbe stato eletto sindaco della città. In quegli anni avrebbe seguitato a compilare il Libro delle
Memorie, desideroso di realizzarne una stesura definitiva. Nel momento dell‘ascesa
economica e politica, subentrava quindi l‘esigenza di lasciare un‘impronta del proprio operato, utile prima di tutto nella quotidianità e anche come esempio per i posteri. Accanto al quadro economico familiare, lo scrivente inseriva la breve memoria familiare, orgoglioso di accostare il proprio nome a quello di altri meritevoli esponenti del casato, primo fra tutti Muzio, che per primo aveva dedicato ampio spazio nel Dialogo al proprio lignaggio. Tuttavia, la ricostruzione storico-genalogica non poteva che ridursi a quelle pagine introduttive anche in virtù del mancato ―splendore‖ dei casati teramani.
Totalmente diversa è, invece, la logica che contraddistingue l‘elaborazione delle storie
di famiglia, formulate «come un mezzo di propaganda e di dichiarazione e
pubblicizzazione di nobiltà»304. Queste opere vivono una discreta fortuna editoriale nella
302 BPTe, Fondo ―Muzii‖. Sulla figura di Erasmo e sulla famiglia Muzii cfr. D. DI DONATO, Per un
inventario del Fondo Muzii nella Biblioteca “M. Delfico” di Teramo (secc. XVI-XX), Tesi di Laurea in
Archivistica e scienze ausiliarie della storia, Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Materie Letterarie, A.A. 1996-1997.
303 M. MUZI, Della storia di Teramo: dialoghi sette (fine sec. XVI), con note ed aggiunte di G. PANNELLA, Tip. del Corriere Abruzzese, Teramo 1893.
regione, collocabile nell‘arco temporale compreso tra l‘inizio del XVII secolo e la prima metà del Settecento305. A finanziarne la compilazione sono le più antiche famiglie feudali presenti sul territorio abruzzese, che nel tempo hanno occupato un posto sui seggi napoletani e, in cambio di fedeltà nei confronti dell‘autorità centrale, hanno conseguito titoli e benefici legati al possesso di piccoli e medi centri urbani, in Abruzzo come nel resto del Regno. I funzionari al loro seguito sono, dunque, chiamati a raccogliere tutti i dati utili alla costruzione della memoria familiare, da trasmettere ai posteri e da ricordare ai presenti per perpetuare la grandezza del casato. I titoli conseguiti nel tempo, gli incarichi ufficiali concessi dall‘autorità centrale, i nomi dei feudi posseduti vengono depositati nella coscienza collettiva attraverso la scrittura, ancora una volta ―scrigno‖ sicuro della memoria.
Il paratesto concorre a solennizzare la funzione celebrativa di queste storie. In virtù dell‘attenzione di cui queste opere godono da parte dei committenti, gli scriventi si preoccupano di curare scrupolosamente, in vista della stampa, l‘allestimento dell‘apparato paratestuale e di tutti gli elementi puramente estetici del volume. L‘antiporta, il frontespizio, l‘apparato illustrativo, l‘epistola dedicatoria, destinata ad un esponente della famiglia, i componimenti encomiastici, gli imprimatur, lo stile grafico delle notizie bibliografiche, l‘architettura della pagina tipografica nel suo complesso sono tutti elementi seguiti con cura, espressione della grandezza del casato descritto.
L‘esempio più eloquente è fornito dall‘Istoria della famiglia Acquaviva Reale
d‟Aragona, edita nel 1738 da Baldassarre Storace, presso l‘editore romano Rocco Bernabò.
Essa è corredata da numerose vignette calcografiche con le quali l‘incisore spagnolo Miguel de Sorello impreziosisce il testo: nelle pagine della lettera dedicatoria, una coppia di angioletti sorregge la corona che sovrasta lo stemma familiare, mentre in primo piano compaiono un copricapo vescovile, un cappello nobiliare e altri elementi emblematici, attraverso i quali si indicano i principali incarichi svolti da alcuni esponenti del casato nel campo ecclesiastico e in quello civile. Analogamente il frontespizio, le lettere capitali e le testate dei singoli capitoli sono valorizzati da altrettante raffigurazioni, accuratamente scelte per la loro valenza simbolica. La lettera dedicatoria alla duchessa di Atri, Eleonora Pio di Savoia, e l‘Avviso a‟ Lettori occupano un ampio spazio nel volume; in essi lo scrivente si dilunga in riflessioni di natura etica, oltre che di ambito storico-genealogico. Reiterato nel tempo, il legame con il casato dei Pio di Savoia rientra tra gli «splendidissimi parentadi contratti con le più distinte Famiglie d‘Italia», che rafforzano i «molti ragguardevoli pregi, à quali va gloriosa [...] la chiarissima Casa Acquaviva». Al Lettore Storace chiarisce quali siano i giovamenti che potrà trarre dalla lettura di quest‘opera, quali «utile e diletto» raggiunti mediante la conoscenza delle gesta dei grandi del passato e del presente; dopodiché si dà avvio al Discorso Prodromo / Alla storia / Della famiglia
Acquaviva / Reale d‟Aragona / in cui dà una idea generale della nobiltà / de‟ nomi delle
305 La prima è l‘Historia della famiglia Cantelma di Pietro Vincenti e risale al 1604, mentre l‘ultima pubblicazione compare nel 1738, con l‘Istoria della famiglia Acquaviva Reale d‟Aragona di Baldassarre Storace.
famiglie, e dell‟insegne degli antichi, e de‟ moderni. In questo spazio di riflessione, il
letterato recupera l‘oggetto di un ampio dibattito che si era acceso, sin dalla seconda metà del Quattrocento, sulla genesi e sulla consistenza della vera nobilitas: Poggio Bracciolini, Cristoforo Landino, Diomede Carafa, Tristano Caracciolo, Giovanni Pontano, Belisario e Matteo Acquaviva «avevano avviato un‘operazione di ridefinizione dell‘identità aristocratica meridionale»306. In realtà la questione era stata oggetto di discussione già nei secoli precedenti, quando Dante, nel quarto libro del Convivio, aveva definito la nobiltà «seme di felicitade, messo da Dio ne l‘anima ben posta»307, i cui frutti erano le virtù morali. Così scrivendo, egli si era opposto alle convinzioni allora dominanti: «quella attribuita all‘imperatore Federico II di Svevia, il quale ―domandato che fosse gentilezza, rispuose ch‘era antica ricchezza e belli costumi‖; e l‘altra sostenuta quasi da tutti, secondo cui uno era nobile se ―di progenie lungamente stata ricca‖»308. Nel corso del Cinquecento, la tesi dantesca veniva recuperata da quei ceti emergenti che volevano rivendicare un ruolo dominante nella società, in nome della propria virtus, come accadeva a Teramo e all‘Aquila. Dal lato opposto, si assisteva al proliferare di una letteratura storico-genealogica che cercava di soddisfare «il bisogno di eternità»309 del vecchio ceto nobiliare. Nel 1580 Scipione Ammirato pubblicava Delle famiglie nobili napoletane310, testo pioniere per questo filone della memorialistica cui «dava una dignità scientifica fornendolo di canoni affidabili e sicuri»311. Per l‘Ammirato la ―nobiltà perfetta‖ era data da «antiquità e splendore», sostenute dallo status del momento, e dunque dalle ricchezze. Storace recuperava questa definizione e la applicava al casato degli Acquaviva, che risultava esserne pienamente idoneo. Riconosciuto tra i più antichi lignaggi della penisola, nel corso delle epoche esso si era andato espandendo «dalla modesta cornice teramana fino ai vertici della Chiesa ed al panorama internazionale delle armi e della lettere»312. Aggregata al patriziato napoletano nel Seggio di Nilo, come già ricordava Scipione Mazzella nella
Descrittione del Regno di Napoli313, oltre ai tradizionali privilegi, la Casa Acquaviva aveva ricevuto, nel 1479, dal re Ferdinando d‘Aragona il singolare privilegio di poter aggiungere al proprio cognome e alle proprie insegne (il leone rampante) il cognome della Casa Reale e i simboli aragonesi. Il titolo era stato concesso già due anni prima (16 settembre 1477) a Giovanni Antonio Acquaviva, Marchese di Bitonto, e la sua scomparsa non aveva
306 A. L. SANNINO, Le storie genealogiche, in Il libro e la piazza, cit., p. 121.
307 D. ALIGHIERI, Convivio, Libro Quarto, Capitolo XX, par. 9.
308 C. DONATI, L‟idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 3.
309 Dal titolo dell‘opera di M. A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli
in età moderna, Guida, Napoli 1988.
310 S. AMMIRATO, Delle famiglie nobili napoletane di Scipione Ammirato, parte prima, le quali per levar
ogni gara di precedenza sono state poste in confuso, G. Marescotti, Firenze 1580.
311 G. MUTO, I trattati napoletani cinquecenteschi in tema di nobiltà, in Sapere e/è potere. Discipline,
Dispute e Professioni dell‟Università Medievale e Moderna. Il caso bolognese a confronto. Atti del 4° Convegno. 13-15 aprile 1989, III, Dalle discipline ai ruoli sociali, a cura di A. DE BENEDICTIS, Il Mulino,
Bologna 1990, p. 340.
312 R. COLAPIETRA, Lettera all‘autrice, in G. MANETTA SABATINI, Albero genealogico della Famiglia
Acquaviva d‟Aragona, Paper‘s World srl, Bellante 2009.
ridimensionato la considerazione del sovrano nei confronti del casato atriano, sebbene in passato esso fosse stato coinvolto nella congiura dei baroni. Per questo il successivo destinatario del privilegio era stato ancora un Acquaviva, Giuliantonio, padre di Giovanni Antonio, con la garanzia che l‘―adozione‖ reale avrebbe incluso l‘intera discendenza. La ricostruzione storica condotta da Storace recuperava la vasta tradizione bibliografica che, da Bartolomeo Facio a Jacob Wilhelm Imhof, passando per Flavio Biondo, Leandro Alberti, Tommaso Costo, Scipione Mazzella, Francesco Elio Marchese, Giovan Antonio Summonte e molti altri, aveva ragionato intorno alle origini del casato. Al tempo stesso l‘erudito spazzava via tutte le «genealogie incredibili» che avevano avuto una larga diffusione nel corso della prima età moderna, anticipando le critiche che la storiografia della seconda metà del ‗700 avrebbe scatenato contro i cosiddetti falsari. Di questa stessa casa, nel 1576 Alfonso Ceccarelli, che Tiraboschi avrebbe definito «un de‘ più furbi e de‘ più arditi impostori, che siensi al mondo veduti»314 aveva composto due opere, il De