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Il libro come dono dell‘autore alla città e ai suoi governanti

La memoria e la storia locale 1. Le tradizioni memorialistiche

2.2 Il libro come dono dell‘autore alla città e ai suoi governanti

Sin nelle pagine introduttive e nelle dediche di apertura compaiono, quindi, le posizioni ideali di fondo che animano questa come le altre storie locali. Sul finire del Seicento, la dedica si presenta come un «microgenere letterario, che rispecchia lo schema della

laudatio, dell‘adulazione, con il ricorso al topos dell‘abbassamento dei meriti dell‘autore e

dell‘opera di contro alla magnificazione delle virtù e delle doti del dedicatario»363. È pertanto evidente che in questo periodo il rapporto tra il letterato e il suo patrono è totalmente sbilanciato a sfavore a sfavore del primo, come se l‘opera acquistasse valore solamente grazie al prestigio del dedicatario e non viceversa.

In realtà, non era sempre stato così in passato. Nel corso del Cinquecento la ben più ampia diffusione delle opere aveva, infatti, progressivamente annullato la simbologia gerarchica, resa esplicita dalle raffigurazioni inserite fino ad allora nei testi. Questa svolta testimoniava «un‘affermazione vigorosa dell‘identità specifica dello scrittore»364. Egli diveniva, cioè, consapevole dell‘importanza del proprio ruolo e intendeva sostenerne la dignità.

L‘«affermazione di una coscienza autoriale»365, ampiamente riscontrata negli scrittori parigini all‘indomani della scoperta di Gutenberg, riguardava anche i letterati della penisola, e tra questi gli abruzzesi: ne sia esempio il caso dell‘aquilano Bernardino Cirillo, il quale inseriva nell‘edizione degli Annali della Città dell‟Aquila (1570) un ritratto che lo immortalava nell‘atto della lettura. Nella dedicatoria «Alli Magnifici Signori, et Cittadini Aquilani», il prelato che non aveva rinunciato a ridimensionare il valore del proprio contributo, secondo la consueta prassi letteraria366, imperniava il suo discorso sull‘elogio del ruolo pedagogico della storia, «perché dal legger che si fa diverse historie, l‘huom viene a diventare instrutto nell‘attioni humane, facendosi esperto, & prudente per se, & per altri»367. Cirillo si mostrava quindi pienamente cosciente del valore della propria fatica letteraria e la scelta di anteporre il proprio ritratto alla dedica, in qualche modo, lo certificava.

363 M. PAOLI, Il sistema delle dediche, cit., p. 153.

364 R. CHARTIER, Cultura scritta e società, cit., p. 40.

365 C. J. BROWN, Text, Image, and Autorial Self-Consciousness in Late Medieval Paris, in S. HINDMAN (a cura di), Printing the Written Word. The Social History of Books circa 1450-1520, Cornell University Press, Ithaca and London 1991, p. 142. «Tale rappresentazione – aggiunge Chartier – vale per qualsiasi opera, qualsiasi autore, in quanto designa in modo generico la ―funzione-autore‖ per usare il termine di Foucault» (p. 42).

366 In particolare, l‘autore aveva insistito sul fatto che la ricostruzione storica fosse stata realizzata sul modello annalistico e che quindi egli aveva rinunciato ad assegnare allo scritto «per nome di vero titolo d‘historia, perché confesso di non saperla scrivere, richiedendosi in essa parole eleganti, ragioni distinte delle cose, ordine di tempi, descrittione de i luoghi, consegli, discorsi, orationi, vituperi, & lodi opportune [...]».

367 Dedica Alli Magnifici Signori, et Cittadini Aquilani, in B. CIRILLO, Annali della Città dell‟Aquila, G. Accolti, Roma 1570, pagina prive di numerazione.

Del resto, Scipione Ammirato era giunto ad affermare che «sono tali le ―prerogative‖ dei letterati al punto che ―l‘esser da loro biasimati reca in processo di tempo alle famiglie grandezza, solo perché son menzionate da quelli‖»368. Negli stessi anni gli autori delle storie cittadine condividevano quell‘orgoglio letterario, e la loro autostima cresceva in virtù della consapevolezza di quanto fosse importante il proprio contributo ai fini di una costruzione della memoria collettiva.

Non per questo scompariva il contesto mecenatesco: il «rapporto tra gli attori [continuava ad essere] regolato sullo scambio dei doni, [attraverso la] retorica dell‘adulazione»369, e spesso le opere presentavano molteplici dediche, di cui una indirizzata alla cittadinanza ed un‘altra al patrono, che aveva agevolato le ricerche dell‘autore370.

Negli apparati paratestuali del secondo Cinquecento si rendeva, quindi, esplicita «la dichiarazione della ―reciproca scambievolezza‖ che lega principi e poeti, scettri e penne, oro e alloro, forza e ingegno»371. Il rapporto tra scrivente e mecenate era, ora, suggellato da una «santa amicizia», in cui il patrono forniva i mezzi per «agiatamente attendere alli studi» (libertà di accedere ad archivi privati, protezione), e il letterato gli assicurava in cambio l‘immortalità. Entrambi erano spronati da un motivo in più, affinché si giungesse

368 M. PAOLI, Il sistema delle dediche, p. 150. Paoli riporta un passo della dedica al principe Luigi Carafa delle Rime (Sermatelli, Firenze 1584).

369 Ivi, p. 153.

370 Scrive Chartier: «Il rapporto di patrocinio e di protezione, quale si manifesta nelle scene di dedica, non scompare quindi con la prima affermazione dell‘identità e della funzione autoriale – peraltro anteriore all‘invenzione della stampa» (in Cultura scritta e società, p. 41).

quanto prima al completamento dell‘opera: la volontà di offrire un tributo alla propria patria, di cui potessero entrambi rivendicare la paternità.

Questa «figura arbitrale immaginaria», la Patria, era divenuta uno degli elementi fondamentali nella costruzione dell‘identità collettiva «con cui la nobiltà, che ne è l‘ideatrice, si mette[va] ad interloquire in un rapporto di tipo esclusivo e privilegiato»372. Non a caso, alcune storie locali della prima età moderna erano indirizzate alla città stessa, o comunque ai concittadini e ai rappresentanti del potere civico, chiamati a conoscere l‘exemplum dei propri avi per affrontare degnamente il presente.

Sul finire del XVI secolo, un facoltoso cittadino teramano, tenuto in grande considerazione da Toppi, elaborò una storia locale intitolata Della storia di Teramo.

Dialoghi sette373, che, dopo vari tentativi, sarebbe stata finalmente pubblicata nel 1893, per volere di un discendente, Augusto Muzii.

Nell‘introduzione, Alli generosi giovani Teramani, Muzio Muzii illustrava le motivazioni che lo avevano spinto a scrivere quest‘opera: in qualità di Signore del Reggimento, egli aveva ricevuto l‘incarico di fornire informazioni sulla storia della città di Teramo all‘agostiniano Angelo Rocca, impegnato in quegli anni nella redazione di una descrizione completa dell‘Italia374.

Nelle pagine introduttive vengono illustrate le spinte e lo spirito ideale che muovono l‘autore dell‘opera: Muzii si accingeva ad elaborare un‘opera che illustrasse l‘antica origine della città abruzzese perché quest‘otium rientrava appieno nei doveri di un cittadino verso la Patria. L‘erudito dichiarava le motivazioni che avevano sollecitato il suo lavoro, chiamando in causa «quattro Preti Giovani, e letterati»375 con i quali avrebbe riflettuto sul significato di quest‘impresa:

«Il Dott. Medoro Urbani, uno di questi Preti, mi disse, che il parlar mio dimostrava, che Io fossi ben informato delle cose della Città, e però le dovessi ponere in carta, acciò i

372 F. CAMPENNÌ, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 78.

373 M. MUZII, Della storia di Teramo. Dialoghi sette (1596), a cura di G. PANNELLA, Tip. del Corriere Abruzzese, Teramo 1893.

374 Angelo Rocca (Arcevia, 1545 – Roma, 1620) fu il fondatore della prima biblioteca italiana aperta al pubblico, la Biblioteca Angelica. L‘agostiniano curò l‘edizione della Vulgata commissionata da Clemente VIII (1592) e adottata ufficialmente dalla Chiesa fino al 1979; seguì la stampa di diverse opere di patristica e fu anche un attento storico. Inoltre, ancora oggi, presso l‘Angelica e in parte nell‘Archivio degli Agostiniani, si conserva una raccolta di disegni prospettici di oltre novanta città italiane – di cui una settantina sono meridionali –, collazionata dal marchigiano tra il 1583 e il 1584. Questa produzione testimonia l‘interesse rivolto, in epoca rinascimentale, alla cartografia urbana; in particolare, Angelo Rocca intendeva realizzare un

Atlante di città meridionali e per questo aveva avviato una sistematica ricognizione del territorio, affidata ai

priori dei conventi agostiniani. Per la città di Teramo egli dovette prendere contatti direttamente con l‘élite governativa, e in particolare con Muzii che aspirava ad una maggiore vivacità culturale della comunità. Tuttavia, nella collezione non è stato individuato alcuno studio specifico sulla storia della città di Teramo, né se ne conserva una raffigurazione cartografica.

375 M. MUZII, Della storia di Teramo, cit., p. 4. Questa precisazione sembra voler sottolineare la saggezza dei quattro uomini: la loro fede religiosa, unita alla giovane età e alla ricca formazione culturale, rafforza la validità e l‘importanza delle parole che uno di loro, il dott. Medoro Urbani, pronuncia di lì a seguire. Vedremo in seguito il motivo di tale attenzione riservata ai religiosi.

Posteri ne avessero notizia, altrimenti avrei mancato al debito mio, e forse con carico di mia coscienza, ascondendo il talento, che Iddio mi avea dato»376.

Nel terzo paragrafo, lo scrivente si rivolgeva, ai Giovani Teramani, affinché quest‘opera fosse loro utile per il bene della Patria. Muzii introduceva parole-chiave fondamentali – «valore», «nobiltà», «onore» - in anni in cui si assisteva ad un recupero dell‘ideologia cavalleresca ed il dibattito sul concetto di nobilitas coinvolgeva le ricerche erudite più raffinate:

«Vorrei che questa mia fatica non fosse vana, e non aver speso il tempo invano, e però desidero, che sia letta, non già da Forastieri, perché non ne gusteranno, ma da Voi generosi Giovani, alli quali fò (sic) questa lunga diceria, perché veggio risplendere dai vostri volti un certo che di valore, di nobiltà, e desio di onore, che mi danno speranza dover voi, e l‘eccelse opere vostre far risuscitare le antiche grandezze di questa Patria. Leggetela adunque e rendetevi certi di aver a cavare insieme dilettazione e non poco di utile»377.

Il concetto di nobiltà che Muzio Muzii andava elaborando nella sua opera presentava forme rinnovate rispetto al pensiero tradizionale. Ciò si spiega con la consapevolezza che il letterato si rivolgeva ad un ceto non nobile, un ceto possidente cittadino che esigeva una riformulazione dell‘idea stessa di nobilitas378. La redazione dei Dialoghi era cominciata all‘indomani di quella svolta oligarchica che nel 1562 aveva portato al potere le quaranta famiglie emergenti, tra le quali figuravano, naturalmente, anche i Muzii. L‘opera rientrava, quindi, in un complesso progetto culturale che l‘esponente del governo della città perseguiva da tempo: egli aspirava a riformare la società teramana e a preparare adeguatamente la futura classe dirigente. Centrale era l‘attenzione che Muzii riservava ai campi dell‘istruzione, dell‘educazione e della cultura: nel 1591 aveva pubblicato il Padre

di Fameglia379, esplicita testimonianza dell‘influenza che la cultura controriformistica aveva esercitato sull‘erudito. L‘oligarca aveva, inoltre, promosso l‘istituzione di accademie che favorissero la circolazione delle idee e stimolassero la temperie culturale della cittadina

376 Ibidem. Nella citazione alcuni termini sono stati espressi in corsivo per evidenziarne il significato all‘interno dell‘opera.

377 Ibidem.

378 Questo fenomeno rientra nella più generale crisi d‘identità che il ceto nobiliare attraversa dalla metà del secolo, soprattutto nel Mezzogiorno d‘Italia: nei contrasti tra vecchia e nuova nobiltà si rafforza l‘esigenza, da entrambe le parti, di un supporto storico e storiografico che provi e confermi la propria posizione sociale e politica.

379 Il Padre di fameglia. Opera utilissima nella quale per modo de‟ istitutione si ragiona di quanto sia

necessario ad un buon capo di casa. Scritta da Mutio de‟ Mutij della città di Teramo Aprutina a Francesco suo figlio, I. & L. Facii fratelli, Teramo 1591. L‘opera rientra in «una produzione culturale complessa,

all‘interno della quale si vengono codificando e raffinando quelle norme, quei comportamenti, quelle categorie mentali che costituiscono il quadro intellettuale, ma potremmo anche dire la ―coscienza‖ di tutta un‘epoca per quanti oggi indagano e si sforzano di penetrare nella ―diversità‖ dell‘antico regime» (D. FRIGO, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell‟«economica» tra

abruzzese380. Ma soprattutto, egli mise in gioco tutto il suo prestigio perché «fosse presente in Teramo, al servizio del potere comunale quello che riteneva uno dei mezzi per l‘affermazione ideologica del ceto possidente»381: la stampa. Non a caso il Padre di

Fameglia fu la prima opera edita in città dai capiscuola dell‘editoria teramana, i fratelli

Isidoro e Lepido Facii.

I due tipografi si sarebbero ben presto trasferiti nella vicina Campli, poi all‘Aquila, prima di interrompere definitivamente la loro collaborazione e proseguire ciascuno per suo conto nell‘attività tipografica. Sul finire del secolo, Isidoro tornò a lavorare nella città natale per conto del vescovo. Qui egli avviò un‘azione legale nei confronti del comune e dello stesso erudito: «al primo chiedeva il pagamento dei salari dovutigli, mentre con lo storico teramano giungeva ad una composizione in base ad una ―riparazione aquilana‖, quale risarcimento per le promesse che Muzii aveva fatto non solo relative al pagamento dei salari, ma anche sulla possibilità di riprendere la propria attività in Teramo»382. Tutto ciò dimostra la perseveranza con cui l‘oligarca aveva continuato a credere nella possibilità di mantenere attiva in città la stamperia.

Se il letterato avesse portato a termine la redazione dei Dialoghi e se l‘attività dei Facii non si fosse interrotta così presto, certamente Muzii ne avrebbe curato la stampa nella propria città, rispecchiando una scelta che sembra accomunare quasi tutti gli eruditi abruzzesi del Cinquecento383. Nel secolo successivo questi si sarebbero affidati alle tipografie delle due capitali, Roma e Napoli, residenza, nella maggior parte dei casi, dei propri protettori.

Fino alla fine del Cinquecento, invece, - escludendo l‘opera di Cirillo, che fu stampata a Roma dove il letterato viveva ormai da anni - tutte le altre storie locali giunte all‘edizione a stampa vennero pubblicate in Abruzzo e, nello specifico, esattamente nelle città che esse descrivevano. È quindi evidente che, in questi anni, intercorreva una stretta collaborazione tra le autorità locali, gli eruditi e il mondo editoriale, e questo dato contribuisce a testimoniare il forte orgoglio municipalistico che si celava dietro l‘elaborazione di queste opere. Per quanti in città si mostravano fieri di quel passato glorioso che finalmente tornava alla luce grazie alle fatiche dei letterati, la scelta di dare alle stampe quegli scritti

380 Fondamentale, per conoscere il pensiero di Muzii, è l‘ultima opera che egli redasse sul finire del secolo, i

Dialoghi curiosi utili e dilettevoli. La prima parte dell‘opera fu data alle stampe dal figlio Francesco (Facij,

Chieti 1612); la seconda, invece, rimase manoscritta e successivamente andò dispersa. Ne conosciamo il contenuto grazie al riassunto che l‘Antinori ne fece nel Volume L della Corografia degli Abruzzi (pp. 384-395).

381 L. ARTESE, Cultura e società nella Teramo del „500 attraverso le opere di Muzio Muzii, in M. MUZII,

Storia della città di Teramo, a cura di L. Artese, manoscritto Ashburnham 1261 della Biblioteca

Mediceo-Laurenziana di Firenze, Biblioteca Provinciale ―Melchiorre Delfico‖, Teramo 1954, p. XXI.

382 Ivi, p. XX.

383 Si veda la Tabella 2 (p. 118), relativa ai luoghi di edizione delle storie. In questa riflessione non tengo conto la Cronica di Ciechi, che – come si è già detto – non è altro che una rivisitazione popolare della

Descrittione di Alberti, e la Lettera di Giovan Battista De Lectis, essendo solo l‘introduzione ad un‘altra

opera, la Vita di San Tommaso. Tuttavia, anche in questi casi la stampa avvenne in città molto vicine all‘Abruzzo: la Cronica fu stampata a Viterbo da un abruzzese, Colaldi, e l‘opera di De Lectis a Fermo.

nella propria patria cittadina era interpretata come la più naturale, per tramandarne degnamente la memoria ai posteri.

2.3 I lettori delle storie locali e le testimonianze di stima indirizzate