La memoria e la storia locale 1. Le tradizioni memorialistiche
1.1 Storie cittadine
Come si è illustrato nell‘introduzione, è difficile elaborare un discorso compatto per le storie locali abruzzesi. Dal censimento dei testi editi e di quelli manoscritti è emersa una produzione composita, che tende a diramarsi in molteplici forme di scrittura. Inoltre è emerso che, nell‘arco degli stessi anni, gli eruditi si sono rapportati a identità territoriali ben diverse tra loro: accade nella prima metà del Seicento, quando Francesco Brunetti è impegnato nella stesura di una descrizione storica dell‘intero territorio abruzzese, mentre Emilio De Matteis si sofferma sulla storia del popolo italico dei Peligni e Nicola Alfonso Viti ha invece rivolto i suoi interessi unicamente alle memorie di uno spazio urbano, la sua Vasto.
Certamente esistono elementi ricorrenti all‘interno di questa produzione memorialistica, che ne permettono anche un diretto confronto con le storie locali elaborate in altre realtà territoriali della penisola, ma risulta, comunque, necessario stabilire una ripartizione interna che aiuti a distinguere le varie tipologie di scrittura – storie cittadine, storie di
popoli, storie regionali e storie di uomini e di famiglie – e ponga in evidenza i molteplici
interessi che hanno mosso nel tempo la penna degli scrittori abruzzesi, in concomitanza con l‘evoluzione storiografica e culturale italiana.
Nel corso del Cinquecento la tipologia che tende a prevalere, in linea con l‘andamento generale riscontrato nella penisola, è quella delle storie cittadine: gli eruditi abruzzesi circoscrivono le proprie ricerche entro lo spazio urbano, impegnati ad esprimere un radicato senso di appartenenza alla propria città e decisi quindi a celebrarne la grandezza passata e – seguendo una linea consequenziale – quella presente, garantendo così alla propria comunità un confronto storico e culturale con gli altri centri italiani210.
L‘affermazione del concetto di ―patria‖ in riferimento allo spazio cittadino si era consolidato nel corso del XV secolo, quando più di un toscano, «da Leonardo Bruni a Matteo Palmieri ad Alamanno Rinuccini, da Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini
210 Studi affini sono stati condotti da Francesco Campennì sulla costruzione dell‘identità cittadina in Calabria. Si vedano F. CAMPENNÌ, La patria ed il sangue, cit.; ID., Dalla «patria» alla «nazione». La costruzione
e a Donato Giannotti»211, aveva apportato il proprio contributo nella costruzione semantica del sentimento di appartenenza alla propria comunità. Questa forte autocoscienza cittadina si sarebbe presto radicata all‘interno di molti centri urbani italiani, accomunando indistintamente le élites cittadine centro-settentrionali e quelle del Mezzogiorno. Nella capitale partenopea, autori quali Diomede Carafa, Giuniano Maio e soprattutto Giovanni Pontano avevano avviato con largo anticipo questa riflessione sul tema della corte e del principe, essendo totalmente estranei al linguaggio e alle categorie del patriottismo repubblicano. Il Regno si sarebbe configurato, già a partire dalla prima metà del Seicento, «nei termini di una nazione regionale»212, in cui la capitale riusciva ad «omologare efficacemente i ceti dominanti del territorio attraverso l‘offerta di spazi di visibilità e di potere sovra-locali (uffici, corte, esercito)»213. Questa costruzione identitaria ―centralizzante‖ non escludeva però che nelle molteplici realtà locali del Regno gli eruditi fossero invece impegnati ormai da tempo a definire la presenza della propria comunità nel contesto regionale e nel panorama nazionale, cercando nel passato le radici della propria identità cittadina, e supportando il ruolo politico dell‘élite locale.
All‘Aquila la riflessione sul concetto di patria cittadina era stata avviata con largo anticipo sul panorama della cronachistica meridionale, grazie ai sonetti politici di Buccio di Ranallo214, redatti tra il 1355 e il 1363. A un secolo circa dalla fondazione della città, il poeta aveva ripercorso i momenti salienti della storia aquilana, stimolato dalle particolari vicissitudini che negli ultimi anni avevano coinvolto la comunità, e cioè la lotta per il predominio tra le famiglie più potenti. Buccio partecipò attivamente alla vita politica della città, ma volle esprimere il suo punto di vista anche attraverso la scrittura letteraria,
211 G. MUTO, Fedeltà e patria nel lessico politico napoletano della prima età moderna, in A. MEROLA - G. MUTO - E. VALERI - M. A. VISCEGLIA (a cura di), Storia sociale e politica. Omaggio a Rosario Villari, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 495-522, in particolare questa e la successiva citazione sono a p. 498. Del resto, il senso di appartenenza alla patria cittadina e alla terra natale scaturiva già di per sé, e in maniera naturale e inconsapevole, dal legame quotidiano che univa ogni collettività alla propria terra, e di cui una prova era rintracciabile anche nelle documentazioni archivistiche, come dimostra un testo spagnolo del 1611 – il Tesoro de la lengua castellana di Sebastian de Covarrubias –, in cui la patria viene definita come «la tierra donde uno ha nacido. Es nombre latin», ponendo in chiara luce lo stretto vincolo che legava ciascun individuo con la terra natale, prima che la sua sudditanza ad uno Stato. Questa nuova «identità retorica del territorio, meglio ancora dell‘essere cittadini di un territorio» (p. 496), a Firenze sarebbe sfociata nel sentimento del patriottismo repubblicano, esaltato dal Machiavelli, sentimento che non sarebbe stato più pensabile nel nuovo equilibrio raggiunto a metà Cinquecento nella società italiana, ora impegnata «a privilegiare da un lato il principe e la corte, dall‘altro l‘egemonia nobiliare ed il suo codice di valori» (p. 499).
212 L. MANNORI, Introduzione a Nazioni d‟Italia. Identità politiche e appartenenze regionali nello spazio
italiano di Sette-Ottocento, Atti del convegno di Studi, tenutosi a Napoli il 13 e 14 novembre 2009, che
saranno pubblicati a breve da Viella, curati da A. De Benedictis, I. Fosi e L. Mannori.
213 Ibidem.
214 Sulla figura e sull‘opera di Buccio di Ranallo si segnalano alcuni riferimenti bibliografici: V. DE BARTHOLOMAEIS (a cura di), Cronica aquilana rimata, Forzani & C., Roma 1907; C. MUTINI, La
cronaca aquilana nella poesia di Buccio di Ranallo, in «Bullettino dell‘Istituto Storico Italiano per il Medio
Evo e Archivio Muratoriano», n. 74 (1962), pp. 175-211; ID., Buccio di Ranallo, in DBI, 14 (1972), online; C. DE MATTEIS, Buccio Ranallo: critica e filologia per la storia letteraria dell‟Italia mediana, Bulzoni, Roma 1990; ID. (a cura di), Buccio di Ranallo. Cronica, edizione critica e commentata, Ed. del Galluzzo, Firenze 2008. Sulla produzione cronachistica aquilana, invece, si veda L. CASSESE, Gli antichi cronisti
aquilani, da Buccio di Ranallo ad Alessandro de Ritiis, in «Archivio Storico delle Province Napoletane», a.
precorrendo una tendenza che si sarebbe diffusa nelle epoche successive. Il suo contributo non rimase isolato e nel corso dei due secoli successivi numerosi epigoni incrementarono il
corpus delle cronache aquilane, a partire da Niccolò da Borbona, Francesco di Angeluccio
di Bazzano, dall‘Anonimo dell‘Ardinghelli, Bernardino da Fossa, Alessandro de Ritiis e, in ultimo, Vincenzo di Basilii di Collebrincione, che interruppe la narrazione al 1529. Per i letterati aquilani di Antico Regime il confronto con questa importante produzione - prevalentemente medievale - fu un passaggio obbligato: essa rappresentava un unicum nel panorama meridionale e testimoniava quanto fosse radicato il senso di appartenenza alla comunità da parte della cultura locale.
Ai primi del ‗500 la memorialistica aquilana fu chiamata a vivere una nuova stagione, dettata dall‘ennesima dura prova inflitta dal dominatore di turno, il governo spagnolo. Parallelamente, anche le altre città abruzzesi si prepararono ad esibire il proprio contributo erudito, dal momento che l‘élite si stava appropriando degli spazi politici e religiosi e si costruivano modelli culturali tali da consolidarne il potere; le storie cittadine divenivano allora la prova evidente di una continuità tra le glorie del passato e la prosperità del presente.
La provenienza socio-culturale degli autori delle storie cittadine e delle altre storie locali non può che essere in prevalenza aristocratica, e rimane tale fino al tardo Seicento e ai primi decenni del secolo successivo. Variano, nello specifico, i ruoli sociali ricoperti dagli scrittori cinquecenteschi, a seconda dei contesti cittadini e dello specifico status consolidato dalla propria famiglia: Bernardino Cirillo è un autorevole uomo di Chiesa che, grazie alle sue capacità e soprattutto ai favori di cui gode, raggiunge i ranghi più alti della gerarchia ecclesiastica. Ercole Ciofano è un letterato nativo di Sulmona, pienamente inserito nei principali circoli culturali romani e veneziani: desideroso di ottenere un posto da precettore presso importanti casati, come quello degli Orsini e dei Farnese, rimane puntualmente deluso dalle proposte di lavoro ed è costretto a far ritorno a Sulmona, dove grazie all‘intercessione del governatore Cesare Rivera può istituire una scuola pubblica215. Amico di Ciofano è un canonico della Diocesi di Valva e Sulmona, il conterraneo Marcantonio Lucchitto, che scrive una Brevis elucidatio sulla metropoli dei Peligni, l‘antica Corfinio, pubblicata presso la stamperia di Marino D‘Alessandri nel 1583216 e dedicata a Vincenzo Donzelli, vescovo di quella diocesi. Due sono i medici abruzzesi che, vissuti a cavallo tra Cinque e Seicento, decidono di dedicarsi alle memorie patrie. La vasta cultura che li contraddistingue consente di riconoscere, nell‘aquilano Salvatore Massonio e nel lancianese Giacomo Fella, la tipica figura di erudito tardo-rinascimentale a tuttotondo, in grado di accostarsi a campi del sapere diametralmente opposti tra loro, spaziando tra la medicina, la poesia e la storia. Il ruolo svolto nella vita pubblica da Fella non si limita alla
215 E. DE MATTEIS, Memorie storiche dei Peligni, a cura di E. Mattiocco e G. Papponetti, DASP, Colacchi, L‘Aquila 2006, introduzione, p. X.
216 Il confronto culturale e la stima reciproca che legava i due eruditi è testimoniata da una lettera che Ercole Ciofano rivolse al canonico, ringraziandolo del libro ricevuto da lui in dono e aggiungendo alcune osservazioni in merito ai loci classici rinvenuti su Corfinio.
professione medica: egli infatti «assurse alle più alte cariche cittadine e insegnò retorica in Lanciano»217 e, dunque, il suo impegno storiografico va interpretato alla luce di questa sua attiva partecipazione alla realtà politica, sociale e culturale della città.
Le dediche e l‘apparato paratestuale dei vari scritti dimostrano che il principale collante capace di sollecitare la produzione delle storie cittadine abruzzesi rimane, come nel resto del Regno, il forte nesso tra storia e politica. La cultura si pone al servizio del potere e le storie cittadine diventano lo strumento della dialettica politica. Se fino alla fine dell‘età medievale la storia era stata in molti casi opera privata, tra Quattro e Cinquecento essa finisce per acquisire in molteplici circostanze una funzione pubblica, conferendo allo storico un carattere ufficiale: sono quindi «i rappresentanti del potere – principi o consigli cittadini – a dare a uomini di loro fiducia l‘incarico di raccontare vicende di alti personaggi, città, Stati»218, come nel caso del civitese Sebastiano Marchesi, funzionario di corte al seguito del duca Ranuccio Farnese, impegnato nella ricostruzione storica delle numerose città appartenenti agli Stati farnesiani d‘Abruzzo. Laddove, invece, mancassero eruditi locali pronti a redigere le memorie patrie, la corte principesca o il governo cittadino si mobilitano per convocare scrittori stranieri, ―professionisti‖ disposti a redigere una scrittura storica che rievochi la grandezza passata della città, senza disdegnare il ricorso a miti di fondazione e a storie leggendarie senza tempo. Altrove sono proprio i protagonisti della vita pubblica cittadina a celebrare in prima persona le glorie passate della città da loro amministrata, presentate come evidente prefigurazione del proprio ―buon governo‖ (si pensi a Giacomo Fella o a Muzio Muzii, appartenente ad una delle più antiche famiglie teramane e nominato nel 1599 signore di uno dei quattro reggimenti della città).
In più di un‘opera risulterà allora evidente che le occorrenze del presente tendono a giustificare il ricorso ad ogni tipo di fonte purché l‘elaborato apporti esempi universalmente validi per sostenere le proprie tesi e per celebrare le glorie della propria città e di chi la governa. Del resto, nel corso della prima età moderna la storia è studiata come parte della retorica e, imperniata sul principio dell‘analogia, essa pone il suo fondamento sul confronto con i modelli precedenti: «il testo […] è una delle fonti principali cui si ricorre per rappresentare l‘antico. Esso, però, non è altro che una raccolta di exempla, che conta più di mille occorrenze: una sorta di enciclopedia dell‘antico, divisa per temi e contenente un ampio ventaglio di aneddoti, […] conciliabili con le più diverse istanze di rappresentazione»219. Si preferisce sfruttare in primo luogo scritti storici precedenti piuttosto che materiale documentario di prima mano; di conseguenza opere come quelle di Flavio Biondo e dell‘Alberti sono destinate a costituire «per secoli il solido scheletro per tutti gli storici, italiani e non italiani, che si occuparono di storia,
217 C. MARCIANI, La chiesa e il convento di S. Francesco di Lanciano, in ID, Scritti di storia, R. Carabba, Lanciano, 1974, Vol. 1, p. 162.
218 E. FASANO GUARINI, Prefazione a E. FASANO GUARINI – F. ANGIOLINI (a cura di), La pratica
della storia in Toscana. Continuità e mutamenti tra la fine del „400 e la fine del „700, Franco Angeli, Milano
2009, p. 8.
219 N. BAZZANO, Introduzione a F. BENIGNO - N. BAZZANO (a cura di), Uso e reinvenzione dell‟antico
specialmente di quella del medioevo»220. Le ricerche d‘archivio subentrano unicamente quando le fonti letterarie vengono a mancare e sono destinate ad assumere il loro debito ruolo nell‘indagine storica solo a partire dal XVII secolo. Il primo interesse degli scrittori è, infatti, quello di «trarre un insegnamento dalla narrazione (vera o falsa)»221 e non di verificare l‘attendibilità delle fonti e la veridicità dei fatti esposti perché «la verità era considerata prima di tutto un problema di persuasione, legato solo in maniera marginale a un controllo oggettivo dei fatti»222.
L‘avvenimento è ciò che bisogna supporre per organizzare i documenti, per passare dal disordine all‘ordine; è il postulato e l‘avvio della scrittura storica ma quest‘ultima è frutto di un‘elaborazione che va oltre il semplice evento. Essa tende ad assumere, in questo senso, i tratti della poiesis, del fare che produce un ordine possibile dei fatti: «è un discorso misto che narrativizza e semantizza»223, che tende ad orientare il lettore verso l‘acquisizione di un‘immagine manipolata e controllata della storia, di quella che è stata chiamata la «memoria sbiadita» perché, come avvertiva Platone nel Fedro, «fidandosi della scrittura gli uomini si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei». È evidente che avere la facoltà di controllare, e anche governare, un potente mezzo quale è la scrittura, consente di ―fondare‖224 la memoria collettiva secondo la propria prospettiva politica e ideologica.
Le storie di città tendono a presentare, nella loro complessità, una struttura esplicativa abbastanza stabile. Ad eccezione di quelle storie manoscritte giunte a noi incomplete o puramente abbozzate, i testi editi e quelli che, per una certa organicità del testo, dovevano essere probabilmente prossimi alle stampe sono generalmente suddivisi in libri e capitoli, il che consentiva agli scriventi di sistemare più agevolmente la corposa materia storica. Il racconto prende avvio dalla ricostruzione della storia delle origini che, in alcuni casi isolati – come quelli del Dialogo dell‟origine della Città dell‟Aquila di Salvatore Massonio e del
De Teate Antiquo di Lucio Camarra –, diviene oggetto unico della narrazione, mentre nella
maggior parte degli altri scritti occupa esclusivamente i capitoli iniziali delle opere. In queste pagine proliferano abbondantemente quei miti fondativi che, estrapolati dalle fonti classiche e dai chronica medievali, si sono diffusi a macchia d‘olio nella tradizione locale dei piccoli e grandi centri abruzzesi e circolano nella letteratura quattro-cinquecentesca, grazie agli scritti di Biondo, di Collenuccio, di Alberti e di altri protagonisti della scena
220 E. FUETER, Storia della storiografia moderna (1911), trad. it. a cura di Altiero Spinelli, R. Ricciardi, Milano-Napoli 1970, p. 139.
221 Ivi, p. 75.
222 C. GINZBURG, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 22.
223 Scrive Michel De Certeau: «la scrittura storica – o storiografica – è una pratica sociale che fissa al suo lettore un posto ben determinato ridistribuendo lo spazio dei riferimenti simbolici e imponendo così una «lezione»; è didattica e magistrale [magistérielle]. Al tempo stesso, però, funziona come immagine invertita; fa posto alla mancanza e la nasconde; crea dei racconti del passato che sono l‘equivalente dei cimiteri delle città; esorcizza e confessa una presenza della morte in mezzo ai vivi» (M. DE CERTEAU, La scrittura
dell‟altro, cit., p. 97). Cfr. anche K. POMIAN, Che cos‟è la storia, cit., pp. 187-189.
224 Inteso secondo il significato del termine tedesco begründen («fondare» in senso astratto), distinto da
gründen, che vuol dire «fondare» in senso proprio. Cfr. JUNG-KERENYI, Introduzione a Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino 1966, p. 20, n.1.
italiana. Dopo aver narrato le origini mitiche della propria città, facendo riferimento a storici e geografi della classicità, ciascun autore illustra le vicende storiche locali, preoccupandosi di porre in evidenza la mai sopita fedeltà del governo cittadino nei confronti del monarca, al di là dell‘evoluzione politica del Regno e del succedersi delle diverse dinastie regnanti. Alla descrizione della storia civile segue il racconto della storia sacra – e dunque «il culto del santo patrono, le reliquie, l‘elencazione di vescovi, cardinali, pontefici»225 –, delineata, nella maggior parte dei casi, in un capitolo – o libro – a sé stante, segno evidente del considerevole potere esercitato dal mondo ecclesiastico sul territorio locale, che bene si specchia nella fisionomia cittadina. La descrizione dello spazio urbano e suburbano consente, infatti, di individuare, nel profilo di chiese, monasteri, ospedali, conventi, vescovadi e palazzi nobiliari, quei luoghi che significativamente testimoniano il complesso gioco di poteri esercitato nello spazio comunale. Infine, accanto all‘enumerazione dei privilegi e degli statuti cetuali, non manca quasi mai «l‘attenzione araldico-genealogica»226 per i casati della nobiltà locale, affiancata quasi sempre da un catalogo delle famiglie e dei cittadini ―illustri‖, in cui quasi puntualmente ricorre il cognome dell‘autore dell‘opera.
Naturalmente le opere destinate alla stampa presentano una certa organicità e sono particolarmente curate nella forma espositiva; il latino, usato da più di un autore (si pensi a Fella, a Baroncini, a Camarra, a Febonio) tra Cinque e Seicento, esprime l‘intento di dare maggiore autorevolezza alla trattazione. Nel Settecento invece diventa una scelta sporadica, rintracciabile in casi isolati come quello dell‘abate Pollidori, perché a prevalere è invece la convinzione che l‘uso della lingua italiana sia necessario, vista la volontà di estendere la diffusione dell‘opera ad un pubblico più vasto227. Nel 1738, nella lettera introduttiva all‘Istoria della famiglia Acquaviva Reale d‟Aragona, indirizzata alla duchessa di Atri, Eleonora Pio di Savoia, l‘autore Baldassarre Storace motiva la sua decisione di adottare la lingua italiana, diversamente da quanto aveva fatto sei anni prima nella De
gente Acquaviva Aragonia dissertatio, descrivendo la propria opera come un incentivo
all‘apprendimento giornaliero condotto dalla nobildonna sulla «nostra Italiana favella»:
«oltre all‘aver in qualche maniera sodisfatto a‘ grandi obblighi, che professo alla Casa Acquaviva, ed alla Patria mia, mi par che siasi abondantemente proveduto al vostro quotidiano studio della nostra Italiana favella, come altresì alle richieste, e curiosità di molti, che dell‘origine di questa sì cospicua Gente d‘esser fatti chiari lungamente desideravano».
225 G. CIRILLO, L‟antico nella costruzione dell‟appartenenza cittadina: la storiografia urbana del regno di
Napoli in età spagnola, in Il libro e la piazza, cit., p. 70. Scrive a proposito Spagnoletti: «La ricostruzione
che si opera della memoria municipale nel Regno di Napoli è organizzata su elementi facilmente riconducibili ad un unico modello: la fondazione eroica e leggendaria della città, la vita del santo protettore, il rinvenimento miracoloso del suo corpo, la costellazione di chiese e di edifici sacri, la cronotassi episcopale» (A. SPAGNOLETTI, Ceti dirigenti e costruzione dell‟identità urbana nelle città pugliesi tra XVI
e XVII secolo, in A. MUSI (a cura di), Le città del Mezzogiorno in età moderna, cit., p. 37).
226 F. CAMPENNÌ, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 77.
Il desiderio di rendere le informazioni accessibili ad un pubblico più ampio viene ribadita, nello stesso anno, da Pietro Antonio Corsignani, anch‘egli scrittore bilingue:
«Quanto poi si aspetta alla Lingua, volevamo servirci della latina, siccome nelle altre nostre Opere (edite e inedite) abbiam fin qui praticato; ma dopo si è riflettuto, doverci prevalere della natìa per avvertimento dei virtuosi, e da quanto letto abbiamo nelle Prose del Bembo, o in Donato Acciajoli traduttore della Fiorentina Storia dell‘Aretino, dove la causa della traduzione riportando, più gradito e profittevole a i Cittadini essere il proprio linguaggio asserisce, come ad essi comune: maggiormente che le gesta de i Santi e Venerabili a benefizio comune inseriamo; e così all‘autorità del Consiglio cedere dovremmo, ed alla forza della ragione»228.
Per quanto riguarda la forma espositiva adottata, prevale il tradizionale trattato