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Tra moti rivoluzionari e crisi economica

Verso la metà del XVII secolo il malessere della popolazione divenne cronico: la Guerra dei Trent‘Anni aveva indirettamente consumato il Mezzogiorno italiano attraverso il sovraccarico fiscale che il governo spagnolo gli aveva imposto per sostenere le spese militari con cui si cercava di far fronte all‘ultima guerra di religione in Europa104. I moti popolari seicenteschi costituiscono il segno più evidente di una sofferenza collettiva che da decenni logorava il Regno, riconducibile ad una serie di cause – pressione fiscale, malgoverno del viceré, contrasti tra plebe e nobiltà – prontamente messe in luce dall‘occhio critico di Pietro Giannone: «I popoli […] si dolevano delle imposizioni rese pesanti dal bisogno non solo, ma dall‘avarizia de‘ viceré e de‘ ministri, da‘ quali erano stati ridotti a tale stato di miseria e di carestia, che non bastando la fertilità de‘ nostri campi, né la Sicilia istessa, che si reputa il regno fertile di Cerere ed il granaio d‘Italia, potendone essere esente, si cominciò da per tutto a patirsene penuria»105. Tra le manifestazioni di malcontento succedutesi nel corso del Seicento, quella avviata nel luglio del ‘47 da Tommaso Aniello d‘Amalfi, meglio noto come Masaniello, costituì l‘episodio più

101 A. BULGARELLI LUKACS, L‟economia ai confini del Regno, cit., p. 77.

102 P. PIERUCCI, L‟economia abruzzese nella crisi del Seicento, cit., p. 28.

103 G. BRANCACCIO, In Provincia, cit., p. 31. L‘espressione riportata nella citazione è di Serafino Razzi nei suoi Viaggi in Abruzzo (pp. 62-63). Il domenicano, nonostante avesse denunciato la decadenza in cui la fiera lancianese era caduta, seguitava ancora a definirla «il primo luogo fra le fiere d‘Italia», a causa del consistente corpo di uomini e imbarcazioni provenienti da molti paesi.

104 Braudel, analizzando il rapporto tra metropoli e paesi di seconda linea a partire dalla fine del Cinquecento, sosteneva che il principale interesse rivolto dal primo nei confronti del secondo riguardasse unicamente la volontà di difendere il territorio dagli attacchi esterni e dalle sollecitazioni interne. Questo periodo coincide, secondo Musi, con la terza e ultima fase con cui si conclude la dominazione spagnola in Italia (si veda Nel

sistema imperiale: l‟Italia spagnola, cit.).

105 P. GIANNONE, Sollevazioni accadute nel Regno di Napoli, precedute da quelle di Sicilia, ch' ebbero

opposti successi: quelle di Sicilia si placano, quelle di Napoli degenerano in aperte ribellioni, in Istoria civile del Regno di Napoli, Tomo V, G. Gavier, Napoli 1770, pp. 305. In merito cfr. A. MUSI, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Guida, Napoli 1989.

significativo106: l‘eco di quella rivolta si sarebbe presto avvertito in ogni angolo del Mezzogiorno e, in una rapida diffusione a macchia d‘olio, nuovi fermenti sovversivi avrebbero coinvolto i centri meridionali, tanto che «non avea tante fiamme il Vesuvio, quanto erano gl‘incendi ne‘ quali [il Regno] stava involto»107. Anche le città abruzzesi s‘inserirono nel flusso rivoluzionario napoletano e lo fecero perseguendo motivazioni e logiche differenti, che hanno permesso alla storiografia di riconoscere in questa regione «un osservatorio esemplare» in cui «si leggono tutti i più scottanti problemi delle popolazioni provinciali nell‘età spagnola»108.

In più di un‘occasione la pretesa abolizione delle gabelle, in particolar modo di quelle gravanti sugli alimenti di primo consumo, si aggiunse alla volontà di affrancarsi dal potere baronale: Lanciano insorse contro l‘infeudamento imposto dal marchese d‘Avalos e similmente si mossero altri piccoli e medi centri della regione, tra cui Ortona, Guardiagrele e Montereale. A Chieti l‘eco dei moti masanelliani giungeva in un momento delicato e alquanto difficile della vita civile teatina: la città era stata infatti venduta al duca di Castel di Sangro, Ferdinando Caracciolo, nel 1644 per 170 mila ducati109. Il disegno di infeudazione era stato incalzato dalla grande aristocrazia abruzzese e supportato dalla nobiltà locale che desiderava ridurre al massimo la presenza ingombrante dello Stato, ma il nuovo assetto politico istituzionale, che determinava l‘immediato trasferimento della Regia Udienza a Teramo, ridimensionava sensibilmente il ruolo della città marrucina sul territorio locale e nel panorama statale110. Per questo la comunità teatina aveva reagito duramente, nel desiderio di liberarsi dal peso del giogo baronale e di ottenere di nuovo tutte le prerogative che lo status demaniale le aveva fino ad allora garantito.

All‘Aquila i moti rivoluzionari risvegliarono malesseri che stavano lacerando la comunità ormai da più di un secolo, accentuando la spaccatura che si era aperta tra città e contado: furono proprio gli abitanti della campagna a svolgere parte attiva nella rivolta, insorgendo in molti Castelli contro i baroni che erano visti «tanto come feudatari quanto come aquilani più o meno bonatenenti»111. A complicare l‘assetto sociale della città si aggiungeva una «netta differenziazione» nella nobiltà aquilana tra «i titolati, che si divid[eva]no tra la ―congiura aristocratica‖ ed il lealismo spagnolo» e «i cadetti che, con

106 Sulla rivolta cfr. M. SCHIPA, Masaniello, Laterza, Roma-Bari 1925; R. VILLARI, La rivolta

antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Laterza, Roma-Bari 1973, A. MUSI, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, cit.; P. ROVITO, La rivolta costituzionale di Napoli (1647-48), in «Rivista

storica italiana», XCVIII (1986), pp. 367-462; L. RIBOT GARCÍA, Las revueltas italianas del siglo XVII, in «Studia historica. Historia moderna», Vol. 26 (2004), pp. 101-128; A. MUSI, Le rivolte italiane nel sistema

imperiale spagnolo, in «Mediterranea. Ricerche storiche», II (2005), n. 4, pp. 209-220; A. SPAGNOLETTI, Una mutazione di Stato fallita: il Regno di Napoli nel 1647-48, in «Mediterranea. Ricerche storiche», V

(2008), n. 13, pp. 281-292.

107 P. GIANNONE, Sollevazioni accadute nel Regno di Napoli, cit., p. 305.

108 A. MUSI, La rivolta di Masaniello, cit., p. 157.

109 Cfr. A. DE CECCO, “… acciò non siamo vassalli da liberi che siamo”, in L‟Abruzzo dall‟Umanesimo

all‟età barocca, cit., pp. 499-514.

110 R. COLAPIETRA, Società, istituzioni e politica dagli Angioini all‟Unità d‟Italia, in Chieti e la sua

Provincia. Storia, arte e cultura, Amministrazione provinciale, Chieti 1990, pp. 356-396.

l‘aiuto dei ceti borghesi emergenti»112, cercavano di sollecitare le masse, ma inevitabilmente fallivano nel loro intento, incapaci di instaurare un dialogo in cui far convergere gli obiettivi delle due parti.

Nel resto della regione il vortice della protesta portava a colpire ogni simbolo dell‘imposta fiscale, senza distinguere le due giurisdizioni, quella feudale e quella regia. Penne era stata tra i primi centri a cogliere il vento rivoluzionario e ben presto erano state incendiate tutte le strutture della fiscalità pubblica, «i casotti della gabella della farina, il fondaco dei sali, […] le case dei gabelloti»113. Nella città ducale, similmente a quanto accadeva a Sulmona, non si metteva in discussione il dominio dei Farnese – o dei Borghese nel caso dei sulmonesi – quanto piuttosto il «prepotere aristocratico degli Aliprandi, dei Castiglione, degli Scorpione»114 e di quanti nella nobiltà locale si erano progressivamente insinuati nel controllo della città durante la lontananza della grande feudalità parmense. Così anche a Guardiagrele, la popolazione era insorta contro i marchesi Caffarelli di Roma, responsabili dell‘inasprimento della pressione feudale, già attuata dai Colonna.

Il mese di settembre segnò l‘avvio della parabola discendente dell‘esperienza rivoluzionaria, che si concluse con l‘elaborazione dei Capitoli delle Università, in cui si ristabiliva il ruolo fondamentale dell‘istituto comunale e se ne riaffermava l‘autonomia rispetto all‘autorità baronale e a quella statale, definendo inoltre alcune distinzioni tra «pubblico» e «privato», decisive nella ripartizione dei carichi finanziari. Il 13 settembre Michele Pignatelli, Preside dell‘Abruzzo Citra e Governatore delle due Province, ristabilì l‘ordine all‘Aquila e riconfermò il mantenimento della Regia Udienza. Il suo lavoro era stato facilitato dalla rivalità che ancora emergeva tra città e campagna, e dall‘appoggio significativo dell‘aristocrazia locale: «per opera principalmente della Nobiltà che unitamente assiste sempre al nostro Preside in servitio di S. M., restò per gratia del Signore quietato detto tumulto»115. Di lì a pochi mesi, nel gennaio del ‘48, Chieti avrebbe riottenuto lo status demaniale, quando Ferrante Caracciolo, a soli quarantadue anni, era ormai morto da diversi giorni, chiamato in Terra di Lavoro a reprimere gli insorti.

La seconda fase dell‘esperienza masanelliana era infatti sfociata, in Abruzzo e nel Regno, nella «condizione di anarchia statale» in cui «il popolo si fa giurare fedeltà, remove i governatori del barone, l‘huomini del governo, ne crea altri in nome della repubblica et elegge un capopopolo»116, e mentre numerosi nobili locali approfittavano del momento di confusione generale per estendere i propri domini ad altre città, come Teramo minacciata

112 Ibidem.

113 A. MUSI, La rivolta di Masaniello, cit. p. 158.

114 R. COLAPIETRA, Le province del Mezzogiorno, cit., p. 117.

115 ASN, Collaterale, Diversi, II Serie, 11. L‘espressione è riportata in A. MUSI, La rivolta di Masaniello, cit., p. 161.

116 Sono le parole scritte da Gian Francesco Pasconio, uditore degli Stati farnesiani in Abruzzo nel febbraio del 1648, riportate in A. MUSI, La rivolta di Masaniello, cit. p. 158 e nuovamente in G. GALASSO, Il

da Alfonso Carafa, al potere centrale non restava altro che affidarsi alle forze di Giulio Pezzola117 e della sua banda.

Con la cattura del duca di Guisa e la definitiva cacciata dei Francesi dal Regno, il 13 aprile 1648 si pose definitivamente fine alla rivolta napoletana. Nella regione abruzzese, il nuovo Preside Bernardino Savelli riunì un esercito di alcune migliaia di uomini, in cui partecipavano varie forze – briganti, truppe al servizio del Regno, eserciti guidati dai nobili locali – e finalmente il 17 maggio espugnò le ultime due città in mano ai rivoltosi, Antrodoco e Cittaducale. La situazione tornò dunque a stabilizzarsi del tutto anche nella regione e la popolazione, ormai esausta, fu subito disposta a sottomettersi al potere centrale.

Dal canto suo, la Spagna usciva fortemente indebolita da un cinquantennio di scontri europei e di rivolte interne. Progressivamente il ramo iberico degli Asburgo si avviava all‘estinzione: Marianna d‘Austria, madre del piccolo Carlo II, succeduto a Filippo IV nel 1665, si mostrava inesperta alla guida del suo Regno ed la sua inefficienza amministrativa contribuì ulteriormente ad aggravare i problemi già evidenti di una monarchia proiettata verso un inevitabile declino. Inoltre la sconfitta contadina e la dura repressione di un governo dai caratteri definitivamente assolutistici avevano aperto le porte alle prime forme di brigantaggio, che nel corso degli avvenimenti del 1647-48 si era diffuso in maniera dirompente nel reame. Nel tentativo di facilitarne la repressione, nel 1684 il viceré Gaspare de Haro, su parere del Consiglio Collaterale e con il consenso del sovrano, istituì la terza sede dell‘Udienza regia a Teramo, che sottraeva il proprio territorio alla giurisdizione di Chieti118. Di fatto la nuova istituzione era ancora diretta dal preside di Chieti, mentre, per quanto concerneva l‘amministrazione finanziaria, dipendeva dall‘Aquila, ma essa costituiva sin da ora la prefigurazione della futura provincia dell‘Abruzzo Ultra I, istituita nel 1806 da Giuseppe Bonaparte con la legge 132 Sulla divisione ed amministrazione delle

province del Regno.

La condizione di malessere generale che la popolazione seguitò a vivere lungo tutto il secolo emergeva sotto vari aspetti: alla recessione demografica, già avviata sul finire del Cinquecento e imperante lungo tutto il secolo, si aggiunse in questi anni «una forte mobilità della popolazione sul territorio in cerca di nuove condizioni […] o in fuga dinanzi

117 Brigante nativo di Borgo Velino, allora centro abruzzese posto al confine con lo Stato Pontificio, Giulio Pezzola aveva già posto la sua banda al servizio del duca d‘Alba, Antonio Alvarez di Toledo, negli anni Venti quando era stato nominato Capitano di confine. Il 13 novembre del ‘47 fu chiamato a scortare dall‘Aquila a Napoli il nuovo Preside Raimondo Zagariga, terrorizzato dalla rivolta dei contadini; il suo contributo fu essenziale nella soppressione delle rivolte nell‘Aquilano e nel Regno, al fianco delle truppe reali del Pignatelli, e per questo suo impegno nel 1650 entrò in possesso, con il titolo di barone, del castello di Collepietro, che fu sottratto insieme agli altri suoi feudi ad Alfonso Carafa, colpevole di essersi ribellato alla corona spagnola, e due anni più tardi fu accolto a Madrid dal Re di Spagna e omaggiato con tutti gli onori. Il Pezzola descrisse con dovizia di particolari gli avvenimenti cui partecipò nel suo Memoriale, che in larga parte fu trascritto dall‘Antinori nei suoi Annali, insieme ad un‘altra importante cronaca anonima coeva, la Cronaca del Prete (cfr. G. MORELLI, Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo «Memoriale»

(1598-1673), Amministrazione Comunale, Borgovelino 1982).

118 Sul fenomeno del brigantaggio nel Teramano cfr. G. IEZZI, Cronaca teramana dei banditi, 1661-1683, a cura di G. Morelli, DASP, Colacchi, L‘Aquila 1983.

agli oneri tributari e a qualsiasi impegno di natura finanziaria»119; inoltre furono devastanti gli effetti della peste del 1656-57 e delle carestie che negli anni ‘70 misero in ginocchio la popolazione abruzzese, già afflitta dal peso fiscale e dalla forza brutale della repressione attuata dal potere centrale. Le popolazioni montane ebbero una resistenza maggiore al ristagno economico secentesco ma a partire dalla metà del secolo si registrò «l‘avvio di una inarrestabile fase di declino della montagna appenninica»120 di cui sfuggono i passaggi intermedi.