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L’impatto di un repentino e radicale mutamento

Significativa è la dichiarazione, riportata da Francesco Erbani, dell’architetto e storico Italo Insolera: “Le città non si possono buttare via e rifare, sono il punto in cui convergono tante funzioni – la residenza, il lavoro, gli uffici – che non si inventano […]”.54

Da questa prospettiva la città non è un mero agglomerato di edifici, contenitori di esseri umani e pratiche entro cui si svolgono determinate azioni di una qualche rilevanza, bensì è il “frutto di un processo di sedimentazione storico-sociale”55, cioè ha che fare col palinsesto della storia ed un tessuto urbano stratificato dove è possibile leggere le vicende culturali di ogni singolo livello e riportarle nel presente per comprendere la chiave del forte senso di radicamento rispetto ai propri

luoghi e alla propria città; quel radicamento che si potrebbe definite home-insideness56, il quale rimanda a quell’intimo sentirsi intimamente a casa (inteso come spazio abitato e territorio). Al fine di esprimere con maggior chiarezza questi nodi concettuali, ecco un esempio in cui la punta dell’ice-berg del linguaggio riesce a far affiorare l’intelaiatura della complessità sensibile ed emozionale di una comunità rispetto al suo luogo: “frammento di quella impalpabile struttura di

sentimento che conferisce spessore affettivo e culturale ai luoghi […]”.57 Il caso riportato è tratto da un’esperienza etnografica in merito al sisma del 1997, che colpì l’Umbria e le Marche, riferito all’evento del crollo della torre dei Trinci (detta il Campanaccio): “Senza il Campanaccio non siamo più noi” […]. La ricostruzione dei luoghi pubblici serve a rimettere in piedi la storia civica. […] Vedere la polvere che usciva dalla porta vecchia e udire il frastuono dei mattoni della rocca frantumarsi al suolo è stato così impattante che molte persone sono svenute”.58

Se una simile esperienza può valere per una collettività nei confronti di un elemento del paesaggio, che si potrebbe definire domestico e incorporato tanto individualmente, quanto sul piano affettivo della stessa comunità, una considerazione analoga vale significativamente per la propria casa. Il profondo senso di attaccamento ai luoghi rappresenta il più fecondo e intenzionale volano per la ricostruzione, ecco perché, come scrive il sociologo Guido Martinotti: “riferirsi alla new town, è del tutto infelice. L’esperienza inglese è completamente diversa, ma ci sono voluti decenni prima che molte di esse diventassero vivibili. Centri storici come quelli abruzzesi hanno valore non solo per gli aspetti fisici, ma perché offrono un invidiabile senso comunitario”.59

54 Erbani, F., Il disastro, op. cit., p.79.

55 Puglielli, E., Educare nel «cratere», op. cit., p.68. 56

De Fanis, M., Geografie letterarie, op. cit., p.42.

57 Ligi, G., Antropologia dei disastri, op. cit., p.79.

58 Marcorè, E., Abitare a Nocere Umbra dopo il terremoto del 1997, tesi di laurea non pubblicata, Università di Roma

La Sapienza, relatore prof. Sobrero, A., correlatore prof. Simonicca, a.a. 2004-2004, pp.132-134, cit. in: Ligi, G.,

Antropologia dei disastri, op. cit., p.79.

Il senso di attaccamento che ho avuto modo di esperire in Abruzzo, durante l’esperienza di campo, è particolarmente percepibile soprattutto quando è riferita ai piccoli paesi e borghi, nonché nei confronti del capoluogo, e ritorna costantemente nelle testimonianze raccolte e nelle interviste, come una triste melodia, iniziata con lo spopolamento dovuto alla massiccia emigrazione che dal dopoguerra ha dissanguato intere borgate. Ma quando le condizioni economiche lo consentono, si cerca di ritornare al proprio paese e in questo caso di studio, a Fontecchio, ciò trova conferma in molte persone che hanno operato questa scelta seppur costellata di numerosi sacrifici. Dunque “i luoghi si guadagnano l’anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati”60

Se dunque fra le icone scaturite dalla tragedia possiamo annoverare la casa dello studente, il

Palazzo del Governo e la Chiesa di Santa Maria del suffragio meglio nota come Chiesa della anime sante, fra le icone del dopo-terremoto non si possono non considerare le celebri New Town.61

Come sostiene Emanuela Cosetti: “Il caso del terremoto abruzzese ci offre un’occasione per cogliere dentro una dimensione quasi laboratoriale il formarsi di un’icona fotografica: la scritta del

Palazzo del Governo scomposta dal sisma”.62

Non è questo il momento e nemmeno la sede per discutere approfonditamente del tema iconografico derivato dagli effetti del sisma, è sufficiente quindi accennare quanto sia “evidente che all’interno della massa di offerte prodotte dall’industria delle immagini, il pubblico finisce per concentrare la propria attenzione, […] attorno ad un icona eletta”.63

Le città nuove, su cui fin da subito si cerca di canalizzare l’attenzione, si ergono a icona e modello di un processo di ricostruzione caratterizzato essenzialmente dall’enfasi sulla rapidità di realizzazione, la comodità e la sicurezza derivata dai particolari e decisamente vistosi elementi antisismici. Benché si tratti, nei fatti, di nuovi quartieri residenziali edificati su diciannove nuove lottizzazioni64, è opportuno attuare una lettura critica dei nuovi insediamenti attraverso un primo confronto con le esperienze nate in Inghilterra rispetto a questi nuovi insediamenti, integrando l’analisi con l’approccio e le lenti epistemologiche espresse nell’introduzione. Nell’indagine del

Comitatus Aquilanus65, che si basa sulle rilevazioni delle ortofotocarte in ambiente GIS, viene

60 Scimia, A., “Trèmalaterratrèmalaterratrèmalaterratrèmalaterratrè”, in: 6 Aprile…, op. cit., p.34.

61 Fra la popolazione vengono designate come con l’appellativo risematizzante di “Case di Berlusconi”, anche se fra i

collaboratori, progettisti e ideatori spiccano i nomi di Gian Michele Calvi e Guido Bertolaso.

62 Cosetti, E., “Dal disastro all’icona”, in: 6 Aprile…, op. cit., p.156. 63 Ibidem, p.155.

64 Il progetto C.A.S.E., come risulta anche dalla carta, si disloca nelle seguenti località: Arischia, Assergi 2, Bazzano,

Camarda, Cese di Preturo, Collebrincioni, Coppito 2, Coppito 3, Gignano, Paganica 2, Paganica Sud, Pagliare di Sassa, Roio 2, Roio Poggio, Sassa, S. Antonio, S. Elia 1, S. Elia 2, Tempera.

65 «Il Comitatus Aquilanus è stato costituito all’Aquila nell’aprile del 2009 ed è composto da Roberto De Marco, Vezio

De Lucia, Rita Innocenzi, Georg Joesf Frisch, Maria Pia Moretti, Armando Seccia, Antonio Perrotti», cit. in: Comitatus Aquilanus, L’Aquila. Non si uccide così una città?, op. cit., http://www.scribd.com/doc/21872747/Comitatus- Aquilanus-L-Aquila-Non-si-uccide-cosi-anche-una-citta-%C2%A0-2009

evidenziato il divario sproporzionato tra l’aumento degli abitanti e l’espansione del tessuto urbano. “Nel 1951, L’Aquila contava appena 54.633, cinquant’anni più tardi, nel 2001, la popolazione contava 68.503, unità: il 25,4% in più. Nello stesso lasso di tempo, l’urbanizzazione era cresciuta da 500 ha a 3100 ha, sei volte tanto […] Oggi il consumo di suolo all’Aquila misura complessivamente 452 mq per abitante”.66

Il problema della perdita progressiva ed inesorabile di territorio non rappresenta solo una questione meramente ambientale, bensì si configura anche come una potenziale fonte di rischio (sismico o idrogeologico, in questo caso). Scrive, su questo, Salvatore Settis: “Il suolo, si sa, è al centro degli equilibri ambientali: essenziale alla qualità della biomassa vegetale e dunque della catena alimentare, è luogo primario di garanzia per la biodiversità, per la qualità delle acque superficiali e profonde, per la regolazione di CO2 nell’atmosfera. Ma la cementificazione di terreni già agricoli

comporta la copertura del suolo (soil sealing), con perdita spesso irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema che esso aveva esercitato […]”.67 A questo si aggiunge il fattore legato all’incremento della vulnerabilità sociale poiché, come spiega Settis: “La morfologia del territorio italiano lo rende notoriamente assai esposto a terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni, e altre calamità, la cui frequenza e impatto crescono quando si alterano i già precari equilibri naturali: basti ricordare che negli anni 1999-2007 sono state censite in Italia 482.272 aree franose, che interessano il 7% del territorio nazionale”.68 Il tema del consumo di suolo, in contesto di emergenza, è molto delicato poiché, nonostante quella stessa edilizia possa sfuggire al rischio sismico, rientra in un contesto di avvertibile incremento costruttivo che può aprire la strada ad una gamma di ulteriori generi di rischi (ad esempio idraulico ed idrogeologico) non preventivati inizialmente.

L’effetto dell’incremento edilizio si accompagna ad una sua legittimazione che gioca sul terreno dell’efficenza energetica, dei minori costi e della sostenibilità, ovvero paradossalmente all’interno degli stessi paradigmi ambientali del risparmio energetico e della tutela ambientale, consentendo una netta assoluzione. Come rifiutare e opporsi al terzetto sicurezza antisismica, sostenibilità ambientale ed efficienza energetica? Il prezzo da pagare è certamente il mutamento radicale dei luoghi a cui si aggiunge l’instaurarsi di un nuovo modo di vivere che si va ad aggiungere alla tragedia del terremoto.

Infatti è abbastanza evidente che questi nuovi quartieri, pressoché isolati e distanti dal centro storico del capoluogo costringono ad una mobilità per lo più incentrata sull’uso dell’automobile o mezzi di spostamento privati i quali configurano le prospettive future, in relazione a quanto sarà rapida la

66 Comitatus Aquilanus, L’Aquila, op. cit., p.8, http://www.scribd.com/doc/21872747/Comitatus-Aquilanus-L-Aquila-

Non-si-uccide-cosi-anche-una-citta-%C2%A0-2009

67 Settis, S., Paesaggio costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino,

2010, p.9.

ricostruzione del centro storico, la necessità di creare nelle vicinanze alcuni servizi essenziali oggi assenti. Tuttavia la forma urbanistica del progetto C.A.S.E. sembra pensata anche a questo, infatti si legge nel volume dei Costruttori ForCase: “Nell’ottica di un completamento dell’insediamento sotto il profilo urbanistico si ipotizza la realizzazione di una spina centrale a carattere collettivo in cui trovano ubicazione strutture e servizi pubblici (scuole, asili, negozi, strutture sanitarie, religiose e civiche in genere), edifici singolari non standardizzati che possono essere costruiti in fasi successive”.69

In buona sostanza è evidente come le nuove lottizzazioni aspirino ugualmente a raggiungere lo status di nuove città, benché ora siano nel migliore dei casi, solo dei nuovi quartieri, non si può negare che la loro espansione non sia in qualche modo eventualmente prevista, anzi di fatto auspicata. “Infine, alle opposte estremità della spina pubblica, possono trovare spazio funzioni urbane quali attività commerciali, verde pubblico e attrezzature sportive”.70

Nell’ambito del volume edito dai Costruttori ForCase è interessante giustapporre problematiche che sorgono in relazione alla collocazione dei nuovi contesti edilizi, fin qui evidenziati, con gli intenti dei realizzatori del progetto C.A.S.E. La frammentazione del territorio non si può certo imputare, in prima battuta, alla realizzazione dei complessi antisismici, bensì ad un più lungo processo urbanistico che ha visto la successiva espansione ed edificazione di nuovi quartieri fuori dalle cinta murarie, inizialmente durante il fascismo e successivamente con una nuova spinta sulla scia del boom edilizio a carattere residenziale degli anni cinquanta e sessanta, fino ai giorni nostri, dove si assiste alla realizzazione dei grandi centri commerciali e capannoni artigianali e industriali, in relazione all’intensificarsi dei tracciati stradali che individuano nuove aree lottizzabili. Come verrà posto in evidenza, questa evoluzione della forma urbana che prenderà il nome di “città- territorio”71, affonda le sue radici anche negli istituti amministrativi e istituzionali territoriali, che a partire dalla fine degli anni venti, hanno visto un allargamento spropositato dell’area di pertinenza del capoluogo abruzzese sulle zone rurali circostanti. Questo “enorme atto di ampliamento del territorio comunale operato nel 1927 dal regime fascista, con cui furono annessi alla città i comuni di Paganica, Arischia, Bagno, Sassa, Preturo, Roio Piano e Camarda”72, ha portato il comune dell’Aquila nella lista dei primi dieci comuni italiani per estensione territoriale73. È evidente che un

69

Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), “L’idea”, in L’Aquila..., op. cit., p.63.

70 Ivi.

71 «termine che deriva da un’infelice trovata urbanistica degli anni ’70, finalizzata a un tentativo di legittimazione

linguistica di processi di ipertrofia urbana, che sfociano appunto in fenomeni di sprawl», cit. in: Ciccozzi, A., “Catastrofe e C.A.S.E.”, in: Aa.Vv., Il terremoto dell’Aquila, op. cit., p.36.

72 Ivi.

73 «Quest’accorpamento istituzionale, attuato anche per compensare la cessione di territorio per la coeva fondazione

della provincia di Rieti, non ha portato affatto alla costituzione, nel corso degli anni, di un’unità culturale: quasi sempre gli aquilani si sentono aquilani e gli abitanti dei paesi si sentono appartenere ai paesi […]», cit. in: Ciccozzi, A., “Catastrofe e C.A.S.E.”, in: Il terremoto dell’Aquila, op. cit., p.37.

accentramento amministrativo di questo calibro ha come conseguenza una ridefinizione del ruolo della città principale rispetto alle sue nuove frazioni e quindi consente, sul piano della pianificazione del territorio di gestire uno spazio complessivamente ampio e poco densamente popolato, che porta ad estendere idealmente i confini di una città al perimetro di pertinenza comunale. In anni recenti, il Piano Regolatore del 1975 accresce ulteriormente il consumo di suolo seguendo “un modello di crescita impostato sulla realizzazione di grossi insediamenti residenziali privi di servizi, aree produttive e centri commerciali”.74

Ciò significa che se la città ha scavalcato le mura dove per secoli è stata pensata e progettata anche in relazione alla campagna circostante, il termine «città-territorio» rimanda semanticamente e concettualmente ad un’area urbana vasta, spalmata su un territorio di pertinenza amministrativa, che va ben oltre L’Aquila storica e che si incontra e si scontra con le precedenti forme amministrative locali che avevano lasciato dei chiari marcatori leggibili nel territorio, i quali hanno permesso la costruzione di precisi e delicati equilibri territoriali e identitari; in relazione ad una funzionale unificazione geografica simbolica di luoghi decisamente eterogenei.

In questo contesto in costante evoluzione, che tiene raramente presente, in sede di progettazione e pianificazione urbana, della sismicità, definita da Eleonora Vianello come un “vincolo naturale”75, si inseriscono i nuovi quartieri del progetto C.A.S.E. Se dunque la frammentazione degli ambiti territoriali è lampante e apparentemente irrimediabile e la città-territorio una realtà consolidata, negli intenti dei progettisti dei complessi antisismici vi è l’idea di cogliere l’occasione del sisma per ridefinire e dare una nuova impronta al tessuto urbano. Così “la razionalizzazione della città comporta la sua mitizzazione nei discorsi strategici”76 che vede prevalere la retorica delle logiche urbane in contesti spuri, appesantendo e compromettendo il futuro delle decisioni nei termini di politiche del territorio in grado di salvaguardare i «vuoti urbani» e le «campagne periurbane», importanti marcatori non solo economici, bensì identitari e di beni comuni.

“Ogni area del progetto C.A.S.E. si è dovuta dunque confrontare con particolari contesti insediativi caratterizzati da elementi strutturanti di volta in volta differenti: dai contesti di dominanza rurale ed a elevato carattere paesaggistico o storico, alle condizioni di marginalità insediativa o alla consistente edificazione lungo le principali direttrici di collegamento. Nello specifico, le aree di Gignano, S. Elia, Paganica, Tempera, Roio, Cese di Preturo si sono poste come elementi di integrazione con i nuclei urbani esistenti. I progetti per le aree di Bazzano, Coppito, Sassa e Pagliare hanno posto alla base delle decisioni la necessità di ricucire situazioni conseguenti a

74 Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), “I risultati”, in L’Aquila... , op. cit., p.377. 75 Vianello, E., “L’Aquila bella me’”, op. cit., p.21.

76

Glucksmann, A., “Le totalitarisme en effet”, cit. in: Traverses, Ville-panique, n. 9, 1977, pp.34-40, in De Certeau, M.,

fenomeni di diffusione frammentata dell’espansione edilizia preesistente. […] Dunque il progetto dei nuovi quartieri si pone come un elemento di espansione ma, contemporaneamente, prefigura scenari di integrazione, di ricucitura e di valorizzazione delle parti del territorio della città dell’Aquila”.77 A questo ambito di pertinenza della pianificazione, tra gli obiettivi del progetto C.A.S.E. è esplicitato quello di dare forma a spazi pubblici per evitare che si formino dei quartieri dormitorio, come si legge di seguito: “nel posizionare le piastre, l’attenzione non è stata posta esclusivamente all’obiettivo del soddisfacimento del bisogno di una casa, ma il ragionamento è stato esteso agli spazi esterni intesi anch’essi come spazi dell’abitare dove ridefinire abitudini, bisogni e attività della persona […]. Le corti tra le C.A.S.E., gli spazi comuni, le strade, le aree di parcheggio non sono stati dunque definiti dentro e in relazione al perimetro dell’area progetto, bensì estendendo il ragionamento in relazione ai bisogni delle persone e al contesto territoriale”.78 Questa affermazione ha una pregnanza sotto il profilo antropologico, che oltrepassa la valutazione ex post in merito alla riuscita o meno di questi intenti, poiché si asserisce, da un punto di vista deterministico (che riflette il modello top-down dettato dalla costruzione d’emergenza ma comunemente diffuso in campo urbanistico in sede di pianificazione), che gli spazi realizzati non solo devono essere funzionali alla collettività, per quanto concerne i servizi (parcheggi, negozi, poste, farmacie, scuole), bensì devono essere pensati per imporre una matrice e dare un ordinamento ai comportamenti previsti in quegli spazi; puntando ad una serrata programmazione dalle cui fitte maglie è difficile trovare pertugi di reale scambio tra istanze degli abitanti o luoghi partecipativi.79 Ma tale approccio, dietro i propositi che sono in parte condivisibili, pone alla base un set di assunti i quali si riflettono nella lettura del paesaggio e nei racconti e nelle testimonianze di alcuni dei residenti, che ho avuto modo di incontrare. L’impressione complessiva che si ricava vede nella popolazione la destinataria di interventi puntuali, precisi e, a tratti, di stampo assistenzialista. Non intendo entrare nel merito della polemica dell’ «assistenzialismo» poiché ritengo che non sia la sede giusta per dibatterne, tuttavia ritengo che il coinvolgimento della popolazione in merito all’orizzonte della ricostruzione, soprattutto nelle prime fasi del dopo-terremoto, non sia stato preso in seria considerazione. L’enfasi della ricostruzione ha portato l’accento sulla competenza tecnocratica del processo di comprensione e sulle strategie di elaborazione del disastro, mettendo in secondo piano le persone, considerate troppo spesso depositarie di determinati interventi, relegate spesso ad un ruolo passivo e ricettivo.

77

Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), “I risultati”, in L’Aquila... , op. cit., pp.384 - 385.

78 Ibidem.

79 La progettualità e la programmazione riservata al progetto C.A.S.E. non è paragonabile alla realizzazione e

installazione dei M.A.P., i quali invece sembrano seguire una logica completamente diversa dal sapore assolutamente

provvisorio, benchè sia in molti casi evidente, in realtà, il carattere se non definitivo, di sicuro di lungo periodo delle