L’impulso alla ricostruzione è il filo rosso che collega tutti i terremoti che hanno colpito la città de L’Aquila. Immota Manet 24,il motto che si staglia sullo stemma cittadino, ai lati delle ali dell’aquila
nera, tra le varie attribuzioni di interpretazione che sembrano circondarlo, una fa riferimento proprio
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Paolucci, A., Il paesaggio come ritratto dell’Italia antica, cit. in: Castellucci, G., (a cura di), La memoria nel
paesaggio, Ricerche & redazioni, Teramo, 2011, p.185.
23 Vallerani, F., “La perdita della bellezza. Paesaggi veneto e racconti dell’angoscia”, in: Vallerani, F., Varotto, M., (a
cura di), Il grigio oltre le siepi, op. cit., p.163.
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Fra le diverse interpretazioni del motto, impresso nello stemma cittadino, una di queste sembra risalire alla caparbietà con cui la città ha resistito nei secoli all’abbattersi dei terremoti.
alla storia dei sismi succedutisi ma che non sembra abbiano intaccato la volontà dei suoi abitanti di ricostruirla sempre nello stesso luogo, di rimanere ferma, appunto.
Il capoluogo abruzzese, che conta poco più di settantatremila persone, immediatamente dopo il sisma si trova con circa sessantacinque mila sfollati tra centro storico e frazioni.25
Scrive Gianluca Ligi: “Dopo una catastrofe, il problema ingegneristico e urbanistico di ricostruire le strutture fisiche, architettoniche, del centro abitato, si traduce sempre nel problema strettamente antropologico di interpretare il senso di spaesamento (displacement) dei sopravvissuti, e di contribuire alla ricostruzione del loro paesaggio culturale”.26
Ma la ricostruzione richiede tempo, denaro e soprattutto richiede di essere supportata dal coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali di scelta e definizione del dove, del come e del cosa ricostruire; processi che per loro stessa natura non si caratterizzano per la rapidità, bensì per il continuo porre in essere il dibattito e la negoziazione, per una condivisa idea del processo ricostruttivo. La ricostruzione è un processo delicato rispetto alle comunità coinvolte, dilatato nel tempo e difficile nella sua attuazione. Nel suo insieme si tratta di un’operazione sociale tesa, come scrive Ligi, “a rifare il mondo”27 e che dunque ha a che fare con un tema decisivo, da un punto di vista antropologico: il mutamento sociale.
Non bisogna, quindi, cadere nel tranello di pensare la ricostruzione come un fatto isolato e avulso dal contesto sociale nel quale si situa: la ricostruzione ha a che fare in primo luogo con persone in carne ed ossa prima ancora che con piastre antisismiche, colonne metalliche e calcestruzzo. Di fatto, alla base del processo di ricostruzione si situa l’annoso quanto storico dibattito tra “provvisorio” o “definivo”, ovvero se ricostruire esattamente nei luoghi dei crolli secondo il celebre detto coniato durante il terremoto del Friuli del 1976, “dov’era com’era”28, oppure abbandonare il sito e costruire altrove. Questo annoso quanto dibattuto ritornello, si tradusse, per esempio, in Umbria e nelle Marche all’indomani del sisma del 26 settembre del 1997, nel dicotomico problema di “demolire
tutto o salvare tutto”.29
Appena otto anni prima del sisma friulano un altro terremoto aveva colpito la Sicilia Occidentale, tra le province di Agrigento, Trapani e Palermo, innescando le peggiori conseguenze nel bacino del fiume Belice. Anche in questo caso la scelta del posizionamento dell’edilizia d’emergenza è controverso e segue criteri anche molto diversi su aree che vengono individuate ed espropriate dalle autorità centrali. Così, Costantino Caldo, illustra le scelte dei villaggi temporanei nella valle del Belice: “Nel caso dei centri completamente distrutti nessun interesse legava più le popolazioni al
25 Nimis, P. G., Terre mobili, op. cit., p.87. 26 Ligi, G., Antropologia dei disastri, op. cit., p.76. 27 Ibidem, p.96.
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Cosetti, E., “Terremoto e urbanistica. Intervista a Pierluigi Properzi”, in: Aa.Vv, 6 Aprile …, op. cit., p.63.
centro originario, per cui le baraccopoli sono sorte anche a notevole distanza dai ruderi. Dove il centro è rimasto in buona parte integro o comunque attivo in alcune sue funzioni, le baraccopoli non si sono troppo discostate dall’abitato ferito, per i legami e gli interessi che i senzatetto vi hanno mantenuto”.30 In Abruzzo, anche se inizialmente il progetto C.A.S.E. era previsto per il comune dell’Aquila e frazioni, come abbiamo visto, alcune delle frazioni hanno insistito per avere i M.A.P. e consentire così agli abitanti di seguire da vicino la ricostruzione. Ma c’è un altro elemento che emerge dalla descrizione di Caldo: “Nel caso dei centri solo parzialmente danneggiati le baraccopoli hanno assunto il carattere di quartieri periferici del vecchio insediamento, rimasto in genere vitale. […] Nei tre comuni le aree per baraccopoli plurime sono state scelte in località separate fra loro, sia per la difficoltà di reperire un territorio continuo adatto ad un grande villaggio, sia perché la baraccopoli unica avrebbe implicato il trasferimento o l’istituzione all’interno di essa di una serie di servizi (uffici, esercizi commerciali, attrezzature ricreative, ecc.) tali da svitalizzare il vecchio centro ancora attivo. Così Salemi ha tre villaggi provvisori, Partanna e Menfi addirittura sei, con circa 3.000 alloggi per ciascun comune”.31 Ma se il confine tra edilizia d’emergenza provvisoria e ricostruzione definitiva si fa sempre più grigio, comprendere i processi che innescano e portano avanti la ricostruzione è un passaggio fondamentale.
Bisogna prestare molta attenzione alla congiuntura storico-economica e al contesto sociale nel quale l’espressione dov’era com’era (così come per l’Umbria e le Marche), fu coniata, poiché se può valere anche in riferimento agli avvenimenti abruzzesi, non può non essere calata in qualsiasi realtà. Mi riferisco in particolare ad una problematizzazione del motto piuttosto che ad un suo ingenuo sbandieramento, che se da un lato trae la sua linfa da una visione del radicamento e della salvaguardia delle identità locali, dall’altro non può essere un bastione assoluto e aprioristico valido per la ricostruzione tout court.
È del tutto evidente, infatti, che la ricostruzione per esempio di un quartiere come quello sorto in località Pettino a nord-ovest del capoluogo, in prossimità di una della faglie attive connesse al sistema della Valle dell’Aterno tra gli anni settanta e ottanta, pone un serio interrogativo in merito alla ricostruzione e al suo futuro difficile e poco probabile ripopolamento, anche alla luce delle attuali tecnologie antisismiche. La parola d’ordine che ha guidato la ricostruzione friulana non è scevra da contraddizioni e da arbitrarie interpretazione, dunque va contestualizzata e deve servire da punto di contatto tra le istanze dei terremotati e le risposte delle istituzioni a cui spetta l’organizzazione amministrativa e burocratica in accordo con i cittadini, della ricostruzione. Se da un lato questa espressione è certamente funzionale al mantenimento di uno status quo economico e patrimoniale, legato alla paura di vedersi modificare i confini delle proprietà, espropriare terreni o
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Caldo, C., Sottosviluppo e terremoto. La valle del Belice, Manfredi, Palermo, 1974, p.60.
stravolgere i connotati della propria abitazione, non si può negare che nella sua complessità vi sia presente anche la componente emozionale, nell’assistere impotenti ad una profonda trasformazione del contesto in cui si è nati e vissuti senza potervi intervenire.
In questo mi trovo parzialmente concorde con quanto afferma il geografo Francesco Campagna, a seguito del terremoto dell’Irpinia, quanto afferma: “Comunque sia, non credo che ci si debba ispirare al motto carducciano della ricostruzione del campanile di Venezia (come era, dove era…); e neanche ci si debba ispirare a quegli urbanisti più o meno ermetici che volevano fare Stoccolma o Brasilia nella Valle del Belice. D’altra parte avremo tempo, ma non molto, per cercare una giusta distanza da questi due opposti estremismi”.32 La via di mezzo tra i due opposti non deve essere percepita come una media algebrica tra due quantità, bensì come un’ espressione dialogica tra le istanze delle persone colpite dal sisma e l’amministrazione, tenendo ben presente i contorni del territorio. È in questo nodo estremamente complesso che si delinea la ricostruzione, la conflittualità, le scelte progettuali e operative, e in base alla conformazione di questo nodo si evince il riflesso che ne rispecchia il paesaggio.33
“Del resto, se il principio del «dov’era, com’era» non avesse avuto una motivazione ambigua non sarebbe stato esteso all’intero territorio, comprendendo l’edilizia più recente, a localizzazione diffusa […] ma avrebbe avuto un’applicazione ristretta ai centri”.34
Viceversa occorre esaminare seriamente il palinsesto delle culture sismiche sviluppate localmente, nei borghi così come nell’Aquila storica, per comprendere, ripristinare e riabilitare la resistenza delle abitazioni più antiche, in connessione ai luoghi dove sono sorte nonché alle modalità di costruzione e eventuali successive modificazioni.
Gli slogan qui presentati incorporano una moltitudine di significati, sulla base della prospettiva dalla quale li si intende osservare, tuttavia un’interpretazione in chiave antropologica parrebbe spingere nella direzione della questione dell’identità, intesa come radicamento nei luoghi.
Se come scrive Giovanni Pietro Nimis “la prima chiave del modello friulano è stato il recupero dell’identità, mediante una ricostruzione in situ […]”35, è evidente che il progetto di realizzare una
L’Aquila 2, va nell’esatta direzione opposta, benché in parte coerente con lo slogan “dalle tende alle case”.
Questo tema si ritrova costantemente nella storia delle vicende che si susseguono in seguito all’abbattersi di un evento tellurico importante, infatti già dal terremoto che rase letteralmente al
32
Campagna, F., “Il metodo nella ricostruzione”, in: Mazzetti, E., (a cura di), Dal terremoto alla ricostruzione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1981, p.23.
33 Nel capitolo 5 propongo come analisi e svolgimento di questo nodo, il metodo della “partecipazione” nel processo
della ricostruzione a Fontecchio.
34
Nimis, P. G., La ricostruzione possibile, op. cit., p.26.
suolo Lisbona nel 1755 si discutè a lungo e per la prima volta, non solo sul ruolo di Dio e degli uomini nel delineare i contorni della tragedia, ma anche se ricostruire l’intera città secondo i canoni urbanistici e illuministici dell’epoca.
Al fine di comprendere la profondità storica del problema riporto una citazione a sua volta riportata da Gian Michele Calvi36, dalla rivista di settore tecnico e scientifico “Il Monitore Tecnico”37, che si dichiarava contrario alla possibilità di soluzioni abitative definitive senza passare per la fase di quelle provvisorie, nel testo edito dai “Costruttori for C.A.S.E.” in merito al progetto C.A.S.E.: “Un errore, per esempio, che ci sembra di vedere spuntare all’orizzonte come grave pericolo, è quello che risponde alle idee manifestate dal Ministro dei Lavori Pubblici on. Bertolini a riguardo della ricostruzione dei centri distrutti. Egli ha espresso infatti il proposito di escludere le costruzioni provvisorie e di adottare invece addirittura costruzioni definitive. Quanto questo concetto sia errato è dimostrato da un complesso ordine di ragioni. Prima di tutto sarebbe imprudente addivenire subito alla costruzione di edifici definitivi, prima di avere seriamente profondamente studiate modalità costruttive da adottarsi per assicurare ai nuovi edifici una sicura resistenza all’eventuale rinnovarsi dei movimenti sismici. Queste modalità costruttive richiedono di essere discusse lungamente dai tecnici […]”.38
Se il terremoto di Messima del 1908 offre lo spunto per questo excursus storico, il quale approccio vale con i dovuti distinguo contestuali, anche per la gestione del terremoto del Friuli del 197639, e dell’Umbria e Marche del 199740, mentre il terremoto del 1980 in Irpina si rivela in tutta la sua tragicità svelando il complesso dei fattori che hanno reso vulnerabili le comunità; il terremoto abruzzese passa alla storia per decisa svolta nel pensare la ricostruzione.
Come si è dimostrato, al problema ingegneristico e finanziario si somma quello, non meno importante, relativo alle nozioni fin qui delineate di «luogo»41, in senso antropologico e geografico.
36 Gian Michele Calvi è professore ordinario di “Tecnica delle costruzioni” al Dipartimento di Meccanica Strutturale
dell’Università di Pavia, è anche presidente dell’EUCENTRE (European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering), nonché fra i responsabili del progetto C.A.S.E.
37
Giornale d'architettura, d'ingegneria civile e industriale, d'edilizia e arti affini poi Giornale d'ingegneria, architettura, meccanica, elettrotecnica, ferrovie, agronomia, catasto ed arti industriali. Nell’idea del suo creatore e primo direttore, questa rivista doveva essere di stampo tecnico divulgativo, con uno sguardo oltre la ristretta cerchia di addetti ai lavori. Fu attiva e pubblicata tra il 1894 ed il 1946.
38
Calvi, G. M., “Solo una sfida di ingegneria”, in: Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), in L’Aquila... , op. cit., p.15.
39 La gestione del terremoto del Friuli, tutt’ora preso come modello di efficienza economica e temporale, ha visto la
realizzazione di case prefabbricate nei pressi dei paesi colpiti dal sisma per consentire il controllo diretto da parte degli abitanti della ricostruzione, dopo una prima fase che la popolazione trascorse negli alberghi della costa.
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La gestione del terremoto di Umbria a Marche ha visto la successione provvisoria dell’impiego di container forniti dalla Protezione Civile, successivamente sostituiti da casette modulari in legno.
41 «Ricerche recenti pongono grande attenzione al concetto di luogo [place] nella costruzione delle identità individuali e
di comunità, nella codifica culturale e nella contestualizzazione della storia e delle categorie di tempo, e nelle politiche delle relazioni interpersonali, interculturali e comunitarie», Oliver-Smith, A., 1996; cfr Oliver-Smith 1982, cit. in: Ligi, G., Antropologia dei disastri, op. cit., p.77.
Nelle ore successive al sisma l’intero capoluogo viene fatto evacuare e quindi la situazione che si presenta imminente, riguarda l’allestimento e la sistemazione degli sfollati nelle tendopoli predisposte dalla Protezione Civile e negli alberghi lungo la costa adriatica: questa prima fase dell’emergenza, come da manuale, si svolge come avvenne in tutti gli altri casi italiani citati.
Tuttavia il giorno stesso del sisma “Berlusconi annunciò l’intenzione di costruire una new town […]; e dopo una manciata di giorni il proposito trovò – nell’interpretazione data dalla Protezione Civile – la forma embrionale di un depliant di otto pagine recante proprio l’acronimo «C.A.S.E.»”.42 Questo annuncio, di fatto, inaugura, appena iniziata la fase dell’emergenza, quella che sarà la seconda fase, ovvero quella delle abitazioni definitive. La notizia viene inizialmente portata a conoscenza degli italiani attraverso la via mediatica della televisione, in quanto annunciata durante le dirette televisive di due programmi: Matrix e Porta a Porta; durante i quali il Presidente del Consiglio dichara di voler “dar vita ad una new town che si sarebbe inserita nel quadro del “piano casa” (in quel periodo in discussione al Governo)”.43 L’annuncio viene ripreso due giorni dopo, durante la visita del Presidente del Consiglio all’Aquila.
Com’è noto l’acronimo, decisamente evocativo poiché, come scrive Francesco Erbani, “rimanda a un repentino passaggio di stato, una rigenerazione: le macerie e la città nuova, la morte e la vita”44; dato al progetto di ricostruzione sta per Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili e viene coniato “all’indomani del Decreto Legge 28 aprile 2009, n. 39, «Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella Regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile»”.45
È importante sottolineare che, in questa circostanza, viene nominato un Commissario delegato in qualità di capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, nominato direttamente dal Governo46, con l’obiettivo di gestire l’emergenza nonché l’organizzazione degli aiuti e l’inizio del progetto di ricostruzione.
Il progetto “C.A.S.E.” secondo l’intento dei suoi ideatori e ben riassunto nel comma 1 dell’articolo 2 del Decreto legge 28 aprile 2009, n. 39, si propone una strategia alternativa e del tutto nuova rispetto a quella fino ad allora impiegata nei diversi terremoti che hanno investito la penisola. In buona sostanza, la progettazione e realizzazione di moduli abitativi durevoli segna una svolta
42 Ciccozzi, A., “Catastrofe e C.A.S.E.”, in: Aa.Vv., Il terremoto dell’Aquila, op. cit., p.23. 43
Ivi.
44 Erbani, F., Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe. Laterza, Bari, 2010, p.71. 45 Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), “L’idea”, in L’Aquila... , op. cit., p.68.
46 L’articolo 2 titolato Realizzazione urgente di abitazioni del Decreto Legge 28 aprile 2009, n. 39, specifica al comma
1 che “Il commissario delegato nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri con decreto emanato ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, oltre ai compiti specificamente attribuitigli con ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri, provvede in somma urgenza alla progettazione e realizzazione nei comuni di cui all’articolo 1 di moduli abitativi destinati ad una durevole utilizzazione, nonché delle connesse opere di urbanizzazione e servizi, per consentire la più sollecita sistemazione delle persone le cui abitazioni sono state distrutte o dichiarate non agibili dai competenti organi tecnici pubblici in attesa della ricostruzione o riparazione degli stessi.
rispetto all’approccio prevalentemente messo in campo fino ad oggi, nella gestione del dopo- terremoto riassumibile secondo uno schema tripartito cioè: nell’immediato impiego di tendopoli ai fini di rispondere alle esigenze basilari della popolazione terremotata, successivamente sostituite da moduli prefabbricati (siano essi chalet, baracche o container riadattati), per approdare nel corso degli anni alla ricostruzione definitiva delle nuove abitazioni e la smobilitazione dei moduli provvisori.
In tal senso il progetto “C.A.S.E.” si prefigge di superare il passaggio intermedio, ovvero quello relativo allo stanziamento in moduli abitativi prefabbricati, per approdare direttamente, secondo il celebre motto “dalle tende alle case”47; frase che gioca più o meno volutamente con l’acronimo del progetto stesso.
“L’idea iniziale è fortemente utopistica e quasi visionaria: un nucleo abitato di 3.000 persone interamente realizzato al di sopra di una piastra sismicamente isolata mediante i dispositivi di isolamento generalmente utilizzati nell’ambito delle infrastrutture”.48
Nel volgere di poche ore, per L’Aquila, si decide in favore di un modus operandi che risponde senza mezzi termini alla questione “se una ricostruzione possa essere considerata l’occasione per ridisegnare il territorio, o debba riavvolgere il tempo e ripristinare fedelmente l’identità che si è andata formando nei secoli”.49
Il dibattito sulla denominazione del progetto non rappresenta solo una disquisizione di natura puramente stilistica o linguistica fine a se stessa, ma si presta all’analisi per la potenza evocativa della locuzione associata all’«inglesismo» del termine New Town. Non si intende giudicare, in tal sede, se questo termine sia adatto o meno alla effettiva realizzazione dei nuovi quartieri, spesso considerati semplici nuove lottizzazioni più che vere e proprie “nuove città”, tuttavia si presume che oltre alla potenza denominativa, la quale richiama significativamente l’idea di «nuovo» accentuata dalla formula espressiva «inglesizzante», dietro a questo termine vi sia effettivamente una precisa idea di quella che deve essere la «ricostruzione». A tal proposito l’interpretazione di Francesco Erbani in merito a questa denominazione è significativa poichè “rientra nell’ethos della contemporaneità l’abitudine di buttare il vecchio, senza interrogarsi se sia possibile riparare”.50 Ma se la scelta dell’espressione New Town non è casuale, l’idea di fare una città dal nulla, in zone con evidenti caratteri morfologici non urbani, sembra annoverare un paradosso che si scontra con la
47 Slogan ripreso dall’esperienza friulana, che rimanda semanticamente all’efficienza della ricostruzione, riadattato al
fine di riassumere la bozza di strategie alternativa al modello “tradizionale” a «tre fasi, costituita dall’immediato delle
tende, al provvisorio di baracche prefabbricate al definitivo di nuove abitazioni» cit. in: Ciccozzi, A., “Catastrofe e
C.A.S.E.”, in: Aa.Vv., Il terremoto dell’Aquila, op. cit., p.24.
48 Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), “L’idea”, in L’Aquila... , op. cit., p.61. 48 Ivi.
49
Nimis, P. G., Terre mobili, op. cit., p.13.
stratificazione storica tanto dei borghi più antichi, quanto dell’Aquila stessa. Infatti il termine contiene e si riferisce ad un contesto storico ben preciso: le città nuove nascono nell’Inghilterra appena uscita dal secondo conflitto mondiale da una progettualità ad esso antecedente, finalizzata al decongestionamento dei grandi centri urbani fra cui Londra.
Se dunque il termine New Town, in Abruzzo, palesa e incarna una precisa idea di come dev’essere la «ricostruzione», non c’è da stupirsi se in un’intervista a Le Figaro il 16 settembre del 2010, il Presidente del Consiglio ha dichiarato: "Poi c'è stata l'emergenza creata dal terremoto del 6 aprile 2009 in Abruzzo. In tempo record, abbiamo aiutato 65 mila vittime e ricostruito un'intera città per coloro che hanno perso le loro case. […]”.51
L’ambiguità e il gioco di parole sono lampanti e costringono ad una riappropriazione e chiarimento dei termini che spesso vengono impiegati troppo comunemente come sinonimi, ma che in realtà si rifanno a situazioni profondamente diverse: costruzione e ricostruzione. Scrive a questo proposito Francesco Erbani: “Ricostruire o costruire? Restaurare o creare aree per nuovi insediamenti? Il dramma interroga architetti e urbanisti”.52