Non si intende in questa sede portare una critica gratuita e indiscriminata alla gestione della ricostruzione, quanto piuttosto cercare di ritagliare uno spazio all’interno del discorso sul dopo- terremoto, anche in favore degli approcci antropologici e geografici, troppo spesso messi da parte o considerati accessori. Così “dalla constatazione che i disastri non si abbattono semplicemente su un luogo, ma che scuotono in profondità interi microcosmi, ricaviamo una volta di più la convinzione
110
Ibidem, p.370.
111 Ibidem, p.373.
112 Turino, R., Calvi, G. M., (a cura di), “L’idea”, in L’Aquila... , op. cit., p.60. 113 Ivi.
114
Ivi.
che l’antropologia è uno strumento analitico essenziale non tanto per la sola interpretazione e la decodifica dei significati culturali conferiti allo spazio […], ma soprattutto per la comprensione del disagio causato dall’assenza di luogo, dallo spaesamento, di quel malessere profondo che De Martino definì angoscia territoriale (1952), ovvero lo sradicamento, e soprattutto l’incapacità di riambientarsi […]”.115 I nuovi residenti di queste nuovi spazi non possono nemmeno organizzarsi l’interno del luogo abitativo, il quale anch’esso è già uno spazio dato, preconfezionato e consegnato completo di tutto ciò che serve in una comune abitazione, e sul quale non è possibile intervenire ulteriormente stroncando i più semplici processi di nesting. “L’angoscia territoriale è la prefigurazione della perdita di appartenenza di un luogo ad un gruppo umano e viceversa”.116
Studi etnografici e antropologici, in contesto di disastro hanno già da tempo ottimamente documentato come l’affidamento dei processi decisionali e operativi ad una ristretta élite di «esperti», conduca non di rado a complicare ulteriormente la già delicata situazione in cui si è chiamati ad intervenire, così come accadde dopo la cancellazione di Longarone posto alle pendici della diga del Vajont in quel tragico evento del 9 ottobre 1963. “Il tentativo di ricreare un centro abitato partendo dalle sole strutture urbane senza studiare a fondo le caratteristiche socio- antropologiche e storiche della comunità colpita, come nel caso del villaggio del Vajont, costruito ex novo nell’alta pianura friulana per accogliere gli abitanti di Erto e Casso, è completamente fallito. Attualmente in esso abitano persone di diversa origine e provenienza che stentano a formare un nucleo abitativo con un proprio senso di comunità”.117
Il provvisorio diventa definitivo all’interno di una riflessione puramente tecnocratica, una sfida squisitamente ingegneristica, del tutto decontestualizzata (nel senso che quel genere di architetture avrebbero potuto inserirsi in un qualsiasi altro tipo di contesto geografico), frammentando il territorio, in quelle che Antonello Ciccozzi definisce forse con un velo di pragmatica ironia, non più
new town, bensì new village.118
In merito al primo punto (provvisorio), invece, decisamente eloquenti sono le riflessioni di Francesco Erbani quando scrive: “Berlusconi mostra una serie di disegni. Sono rendering, come li chiamano gli architetti, elaborazioni al computer di un disegno. Raffigurano case che all’apparenza sembrano prefabbricate, ma che in realtà sono molto diverse dai prefabbricati visti in altre circostanze drammatiche. […] Fra i piloni si possono parcheggiare le auto; intorno ci sono bambini che giocano in spazi verdi, sotto l’occhio vigile delle mamme – è sempre il rendering a immaginare
115 Ligi, G., Antropologia dei disastri, op. cit., p.82. 116 La Cecla, F., Perdersi, op. cit., p.37.
117 Vendramini 1994; Tessarin 1994, cit. in: Ligi, G., Antropologia dei disastri, op. cit., p.81. 118
Ciccozzi, A., Le ripercussioni antropologiche del progetto C.A.S.E., cit. in:
questo quadretto -, che annaffiano i fiori su ampie balconate”.119 Non è necessario entrare in un’analisi particolarmente dettagliata per capire il carattere pubblicitario del rendering, che se da un lato aiuta certamente a delineare una rappresentazione di un determinato progetto così come dovrebbe presentarsi una volta ultimato, dall’altro lato è largamente usato a scopo promozionale nei volantini pubblicitari delle agenzie immobiliari, in particolar modo condito di dettagli non necessariamente legati alla costruzione, quanto piuttosto riferiti al contesto e al modo d’uso dei futuri utenti, che si immagina crearsi in connessione alla progettazione di certi spazi. Tuttavia resta il fatto che si tratta pur sempre di una rappresentazione, dunque necessariamente di una riduzione in forma visiva dell’idea di casa connessa ad un preciso contesto, di fatto estremamente più complessa. Infatti “l’accento è posto esclusivamente sulla casa, piuttosto che sulla città, sul bisogno individuale che prevale e annulla le esigenze della collettività e i valori sociali. Da alcuni millenni, il significato dell’abitare non può essere ridotto alla pur ineludibile necessità di un tetto sulla testa”.120
Ma il concetto di casa può essere asciugato della sua ricchezza semantica e ridotto ad un puro manufatto atto ad ospitare delle persone?
4.5.1 La complessità dell’idea di casa
Questa lucida analisi sottolinea il nodo cruciale che connette l’idea di casa all’idea di abitare che “significa risiedere, avere dimora, trovarsi, «vivere in un luogo»; così il termine abitazione indica sia l’atto stesso di abitare, sia la struttura fisica, l’oggetto concreto che consente tale atto, appunto la casa”.121 Questa riflessione è di fondamentale importanza poiché è strettamente connessa alle nozioni che coinvolgono le pratiche e i saperi locali in fatto di costruzioni e memoria storica e geografica sismica, che in questo lavoro di tesi si mira ad evidenziare.
Pratiche e linguaggio, infatti, sono intimamente collegati e il progressivo oblio della memoria geografica passa anche attraverso la scomparsa di determinate abitudini, azioni e conoscenze che scaturivano dalla capacità di abitare un luogo e quindi di nominarle. Infatti “il termine «habito», in senso stretto ha il significato di «sono solito» e in senso proprio e figurato di «abito, dimoro, mi trattengo, mi trovo, mi fermo»”.122
119 Erbani, F., Il disastro, op. cit., pp.80-81.
120 Comitatus Aquilanus, L’Aquila, op. cit., p.18, http://www.scribd.com/doc/21872747/Comitatus-Aquilanus-L-Aquila-
Non-si-uccide-cosi-anche-una-citta-%C2%A0-2009
121
Ligi, G., La casa Saami, op. cit., p.116.
La nozione di casa si configura così, in antropologia, come una pratica sociale complessa distinguibile nell’intersezione di due assi fondamentali che Ligi individua dell’azione del costruire e nel processo dell’abitare123. “Il processo A (costruire) sembrerebbe temporalmente finito e circoscritto a una serie di azioni concrete volte a manipolare e trasformare un dato ambiente naturale. Il processo B (abitare) sembrerebbe essere invece, non finito, esso si svolge in modo continuativo ed ha a che fare, […] soprattutto con la sfera simbolica”.124
Entrambe tali nozioni, così proposte contribuiscono a dare uno spessore concettuale e pratico all’idea che i luoghi abbiano una «densità», la quale deriva dalla continua interazione tra l’uomo-e-
l’ambiente e viceversa. “L’ambiente non è solo un dato. […] Ma l’ambiente come «intorno» è una
interazione tra due presenze, quella dell’abitante e quella del luogo. Le presenze sono affini perché il corpo, il nostro corpo, non è nello spazio, ma abita lo spazio, […] ne è parte integrante”.125
La casa, come espressione dell’abitare umano, si connota delle caratteristiche di spazio costruito e spazio dell’abitare126, poiché non si tratta solo di una intelaiatura formale che funge da semplice recipiente e supporto di determinati processi sociali che si vorrebbero in qualche modo prevedere e incasellare mediante la iper-differenziazione razionalistica nella progettualità degli spazi.
Per comprendere il significato, nell’orizzonte delineato, dell’ «abitare», occorre comprendere che il «costruire» e l’«abitare» sono strettamente connessi e che l’edificio non è semplicemente un
contenitore occupato “per le attività della vita, poiché ve ne sono altre che hanno luogo fuori dalla
casa, o all’aria aperta”.127 Per superare l’idea che l’«abitare» sia limitato all’occupazione di un qualcosa di già costruito, vorrei riprendere la riflessione etimologica proposta da Heidegger, rielaborata da Ingold: “Il termine tedesco corrente per «costruire» bauen, deriva dall’antico inglese e dall’alto tedesco buan, che significa «abitare». […]. Inoltre, questo senso di abitare non era limitato a una sfera di attività tra tante - per esempio alla vita domestica opposta al lavoro o al viaggiare. Piuttosto, esso comprendeva l’intera maniera in cui si vive sulla terra: perciò «io abito, tu abiti» è identico a «io sono, tu sei». Tuttavia bauen ha anche un altro senso - preservare, avere cura di, o più specificamente coltivare la terra. Poi vi è un terzo significato - costruire, fare qualcosa, edificare una costruzione. […]. Nel corso del tempo però, questo senso che li sottendeva è caduto in disuso, al punto che bauen è esclusivamente usato per indicare il coltivare e il costruire”.128 Curiosamente il secondo significato di bauen (avere cura di, coltivare la terra) è straordinariamente affine all’idea che Nimis ha dell’architettura: “si tratta di fare dell’architettura qualcosa di più simile
123
Ligi, G., La casa Saami, op. cit., p.116.
124 Ibidem, p.117.
125 La Cecla, F., Perdersi, op. cit., p.88. 126 Ligi, G., La casa Saami, op. cit., p.126. 127
Ingold, T., Ecologia della cultura, op. cit., p.133.
all’agricoltura piuttosto che alla pittura o alla scultura, con una componente creativa […]”.129 Ciò significa che l’architettura, ancor più se applicata in ambito della ricostruzione, deve essere sensibile ai problemi forestali, agrari e più in generale dell’ambiente in cui si va a situare, tentando un’inversione di tendenza, verso una forma “non enfatica, non troppo muscolosa e rigurgitante di simboli; […], è proprio questa architettura comune che continua a formare la maggior parte dei centri abitati, anche dopo cinquant’anni di selvaggia speculazione edilizia e di anarchico individualismo”.130
Il passaggio teorico fondamentale consiste, quindi, nel comprendere come questa esplicazione dell’abitare, che non è possibile semplificare riferendosi al mero risiedere all’interno di uno spazio circoscritto e delimitato fisicamente, si propone di superare il puro riduzionismo progettuale basato sulla dicotomia contenitore (struttura, edificio)/contenuto (abitanti, elementi materiali necessari ad espletare la vita in alloggio, pratiche sociali), si connetta alla percezione di casa. Da un punto di vista antropologico, dunque, l’idea di casa si compone, nella sua complessità, di tre elementi essenziali131: la casa e la struttura sociale intese come simbolizzazione dell’organizzazione sociale mediante i modi di appropriarsi e di occupare gli edifici; la casa ed il sistema di credenze ovvero l’insieme di rappresentazioni cosmologiche; ed infine la casa e le emozioni, cioè le concezioni dell’intimità dei luoghi come ambiente familiare e accogliente sede dei processi di creazione e ridefinizione dell’identità e dei significati individuali e collettivi.
Lo scollamento, in contesto sismico, di questo nesso e il violento sfasamento della percezione rispetto alla propria abitazione si articola tra la visione della propria casa come luogo conosciuto, sicuro e che ha a che fare con la protezione e l’intimità, a luogo pericoloso, improvvisamente sconosciuto e avverso, come una trappola anche letale in caso di crolli e impedimenti nelle vie di fuga. Questo sentimento si completa nella periodo successivo al sisma attraverso la rielaborazione del lutto della perdita dell’abitazione, oggetto di un’opera tesa ad allontanare il ricordo doloroso legato agli ultimi istanti trascorsi nella propria abitazione, così come l’insorgere di una forma di nostalgia. A questo proposito Simona, accompagnandomi nella zona rossa di Vallesindola, una assolata mattina del 27 luglio, mi confidava che lei non si recava quasi mai in visita al centro storico del proprio paese poiché è troppo doloroso vederlo ridotto così ora.132
Il processo di ricostruzione, affinché non venga relegato alla sola sfera materiale e fisica, non può non tenere presente queste considerazioni.