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In questa sede non si intende fare un elogio assoluto ed incondizionato nei confronti delle costruzioni che hanno retto, anche attraverso modifiche empiriche successive, i diversi sismi nei secoli suscitando una frattura, più idealistica che reale, tra i «moderni» e i «pre-moderni», utilizzando lo spartiacque dell’affermazione della razionalità tecnocratica e della preminenza ingegneristica. È del tutto evidente che in termini ingegneristici l’uso del calcestruzzo armato sostenuto da adeguati accorgimenti aggiuntivi antisismici, sia una tecnologia sufficientemente sicura di efficacia dimostrata, impiegabile nelle nuove realizzazioni. Eppure, prima del terremoto del 6 aprile 2009, le costruzioni antisismiche non rappresentano che una minima parte del patrimonio edilizio nei comuni raggruppati oggi nel cratere. Se si esclude l’edilizia popolare e i

quartieri nati dal secondo dopoguerra fino all’ultimo sisma, una grossa fetta del patrimonio immobiliare è costituita da edifici storici concentrati nei borghi e nel centro storico del capoluogo. La questione che pongo è la seguente: considerato che il terremoto del 2009 è solo l’ultimo di una lunghissima scia che affonda le sue radici nelle documentazioni storiche precedenti alla fondazione dell’Aquila stessa, e considerata la frequenza relativamente ravvicinata degli scuotimenti (l’ordine di grandezza è di circa sette decine di scuotimenti rilevanti a cui si sommano le scosse minori dei conseguenti sciami sismici), esistono degli accorgimenti e delle soluzioni empiriche dettate dall’esperienza, riprodotte, collaudate e trasmesse nelle generazioni, per fare fronte ai terremoti, consolidare le costruzioni ed evitare i crolli? Se sì quali sono e come si manifestano? E infine, come sono attualizzabili, restaurabili e riutilizzabili tali soluzioni oggi, tenendo presente la qualità del patrimonio edilizio?

Leggendo i segni dei sismi nella storia, oltre al lavoro d’archivio, è importante osservare le opere architettoniche, in particolare su manufatti come chiese, conventi e castelli. Infatti “non vi è città o paese, borgo o frazione della regione che non serbi le tracce spaventose del ballo sismico. Non vi è fabbricato antico che non presenti una vecchia lesione, una catena, uno sperone. In molti sono visibili i segni della ricostruzione e consolidamento”.1

A questa evidenza si aggiunge una ulteriore fondamentale considerazione, ovvero tenendo presente che anche in periodi antecedenti alla fondazione della città dell’Aquila, gli scuotimenti tellurici si facevano sentire con notevole violenza, lo studioso Mons. Orlando Antonini2 nota il collegamento tra emergenze costruttive e sismi evidenziando l’introduzione di “innovazioni architettoniche, altrimenti difficilmente giustificabili”.3 Un esempio è rappresentato dai terremoti del 1125 e del 1214 e dalle conseguenti modifiche riscontrabili nelle strutture architettoniche della ex cattedrale di San Massimo a Forcona, nonché la basilica di Santa Giusta a Bazzano.4

Stando a queste premesse e tenendo presente il mio lavoro di campo a Fontecchio, basato anche sull’osservazione delle forme costruite in un contesto sismico, mi pongo in continuità con la tesi di Ligi, secondo cui “la percezione del paesaggio, i processi di acquisizione e di trasmissione di abilità e tecniche manuali, le strategie di utilizzazione ottimale di materiali e risorse, l’organizzazione delle

1 Di Giangregorio, M., I terremoti aquilani. Un escursus storico, Brandolini, Chieti, 2009, op. cit., p.9.

2 Mons. Orlando Antonini (Villa Sant’Angelo 1945), è Nunzio apostolico a Belgrado. È una figura culturale di spessore

nel panorama abruzzese. È noto per i suoi lavori storici e architettonici sul patrimonio religioso aquilano. Fra le sue pubblicazioni bisogna ricordare: "Chiese dell'Aquila","L'architettura religiosa aquilana" vol.mi 1 e 2, "Manoscritti

d'interesse celestiniano in Francia", "Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus" e "Villa Sant'Angelo e dintorni", http://www.quotidianodabruzzo.it

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Antonini, O., I terremoti aquilani, op. cit., p.8.

attività produttive e dell’economia tradizionale, e molti altri tipi di pratiche sociali quotidiane, producono la lenta e graduale formazione di un corpus di saperi ecologici alquanto elaborato”.5 Non si intende, in questa sede, attribuire particolari conoscenze alchimistiche a coloro che eressero e consolidarono costruzioni, le quali nel tempo hanno sopportato i tremendi balli sismici, tuttavia occorre prendere atto che in alcuni contesti è significativa la presenza di questi elementi, che definisco antisismici, almeno tanto quanto il loro valore funzionale architettonico. Perciò è necessario che lo studio ed il recupero delle soluzioni tecnologiche locali sia ampiamente affrontato e documentato al fine di favorire, da un lato lo sviluppo di una consapevolezza diffusa del valore del patrimonio architettonico storico locale, anche minore, e dall’altro per evitare che “nella fase di ripristino […], la tecnologia locale – che era necessariamente in equilibrio con il contesto fisico, economico e sociale – sia cancellata da prodotti importati – talvolta imposti – che non sempre sono adatti”.6

È verosimile, lì dove ciò non sia collegato a particolari riferimenti storiografici e altri documenti in grado di attestarlo, che molti degli elementi architettonici giunti sino a noi attraverso i secoli, non siano stati inizialmente pensati e concepiti come aventi una particolare funziona antisismica. Un esempio per tutti è rappresentato dalla differenza nell’entità di una scossa di terremoto che si verificasse abbattendosi su terreni soffici, recenti e incoerenti (in genere costituiti da materiale di origine fluviale o di riporto) che presentano la tendenza ad amplificare la risonanza dello scotimento sismico, piuttosto che in località montuose su terreni rocciosi o comunque compatti, in grado di assorbire e quindi attenuare maggiormente l’entità della scossa, così come viene mostrato nell’immagine proposta. A complemento di tale illustrazione riporto quanto asserisce il geomorfologo e geografo fisico inglese, David Alexander: “In genere, gli edifici costruiti sui sedimenti sciolti o poco consolidati soffrono maggior danno di quelli costruiti sui sedimenti compattati o ben tutelati con metodi ingegneristici”.7

È del tutto ovvio che l’arroccamento dei borghi in età medievale corrisponde ad una strategia militare legata alla difesa e al controllo del territorio piuttosto che ad una reazione alla presenza regolare di scosse telluriche. A ciò si deve aggiungere nelle varie epoche, soprattutto nei centri storici, dove le abitazioni si trovano affiancate le une alle altre e attigue nelle murature, alla modifica degli interni con abbattimento e costruzione di muri a seguito di ampliamenti e cambiamento di destinazione d’uso e di proprietà; nonché in tempi più recenti anche a seguito della considerevole emigrazione la quale ha avuto come conseguenza il problema dell’abbandono che si

5 Ligi, G., La casa Saami, op. cit., p.166.

6 Ferrigni, F., Helly, B., Rideaud, A., (a cura di), Atlante delle Culture Sismiche Locali. Ridurre la vulnerabilità

dell’edificato attraverso il recupero delle culture sismiche locali, Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali

(C.U.E.B.C.), Ravello, Stampa Poligrafica Marotta & C., Napoli, 1993, Allegato al n. 12 di STOP DISASTERS, p.2.

traduce in una mancata tutela e restauro dell’edificato e nella perdita dei saperi legati alla manutenzione ordinaria e straordinaria con l’introduzione, spesso fino ad anni recenti, del cemento nei restauri di manufatti con strutture portanti in pietra e legno. Tali esempi, se si aggiunge la frequenza delle scosse minori le quali in molti casi possono contribuire all’indebolimento delle strutture di un edificio se non si interviene prontamente, si configurano inoltre come indici di

vulnerabilità sociale8, poiché costituiscono dei comportamenti suscettibili di aggravare i danni di un eventuale terremoto. Dunque “recuperare criticamente le tecnologie antisismiche tradizionali può rendere […] più efficace l’azione di prevenzione, meglio mirati i soccorsi e meno nociva la riabilitazione”.9 Così, oggi come oggi, è più che mai necessario ricomporre un atteggiamento e un approccio di tipo olistico, che tenga presente la complessità del contesto “secondo il quale il rapporto società-ambiente si configura come una forma complessa e dinamica di reciprocità, cioè come una relazione di interdipendenza che coinvolge, allo stesso tempo, la sfera materiale e quella simbolica (ideativa, sensoriale) dell’attività e dell’esistenza umana”.10