Una delle prime cose che il PCB fa notare nel suo rapporto, è come le nuove tecnologie utili per il biopotenziamento vengano in origine sviluppate per scopi terapeutici e che il problema morale sorga da quella
“inestirpabile passione (urge) umana nei confronti del miglioramento, passione sfruttata da- gli interessi commerciali e benvista da quelle molte persone che cercano una superiorità competitiva nelle loro lotte per il primato sociale (get ahead)”1.
Siccome, in generale, ogni mezzo è suscettibile di essere usato per differenti scopi, possiamo subito iniziare col prendere atto di una distinzione: lo stesso biopotenziamento può, in base alle condizioni di salute e agli scopi del soggetto fruitore, essere inteso come una terapia oppure come un miglioramento di un organismo già sano. Da un punto di vista medico2, è possibile sfruttare la distinzione per separare gli usi leciti di un intervento da quelli quantomeno futili: una terapia infatti è, in linea generale, sempre approvabile, anche se si concretizza in un aumento di certe caratteristiche o facoltà, mentre un miglioramento non rientra nell’ambito della guarigione e quindi è molto più soggetto al dubbio morale. In tal modo si contribuisce a delimitare l’attività propria dei
1 President’s Council on Bioethics (PCB), Beyond Therapy, 2003, rapporto disponibile in rete presso
http://www.bioethics.gov/, p. 13.
2 Cfr. Juengst, What Does Enhancement Mean?, in Parens Erik (a cura di), Enhancing Human Traits,
medici, i quali continuano a svolgere il ruolo di guaritori, e al contempo si fornisce uno strumento concettuale agli organi decisionali della sanità pubblica, che devono stabilire quali interventi sovvenzionare e quali no. Se poi constatiamo che, di fatto, i medici detengono “un monopolio più o meno completo sulla prescrizione e la somministrazio- ne della biotecnologia”3, nel restringerne gli usi leciti alla dimensione terapeutica si vanno indirettamente a limitare e a delegittimare altri tipi di interventi.
Ma i critici non possono cavarsela così a buon mercato. Sebbene impostare l’intera problematica nei termini di una distinzione netta tra due modalità d’intervento possa fornire una facile via d’uscita, bisogna assicurarsi che la distinzione a cui si fa appello sia giustificata, netta e inequivocabile. Qui mi propongo di mostrare che non è affatto così, e che separare i biopotenziamenti terapeutici da quelli migliorativi serve solo per suffragare una particolare concezione della medicina, e di certo non per ragionare di questioni morali. Anzitutto, le due nozioni prese in considerazione comportano notevoli problemi di significato.
DEFINIZIONE: Il termine “miglioramento”, soprattutto se riferito alle caratteristiche
piscofisiche di un essere umano, è troppo generico e dipende in ultima istanza dal contesto. È generico per definizione, perché per “cambiamento in meglio, progresso”4 si possono intendere molteplici cose, e nella storia del pensiero non si contano le interpre- tazioni del concetto di progresso elaborate e argomentate. Ed è relativo per ovvie ragioni, perché si ottiene un miglioramento solo rispetto a delle condizioni di partenza. Queste considerazioni, all’apparenza banali, sono in realtà di fondamentale importanza per l’analisi morale della nostra tematica: se lo scopo principale del biopotenziamento personale è proprio quello di migliorarsi, allora buona parte della posta in gioco nel dibattito etico si giocherà su come intendere ciò che è meglio per sé e sulla libertà o meno di scegliere la direzione in cui “progredire”. Il termine “terapia” non è da meno, anche se pone lo stesso problema in modo indiretto. Sembra ovvia la sua definizione come “parte della medicina che tratta della cura delle malattie”5, ma così non facciamo altro che rimandare il dubbio alla distinzione malattia/salute, sulla quale non esiste, e forse non può darsi, un accordo unanime. Ora, è vero che questi problemi di definizione sono solo faccende terminologiche, ed è anche vero che, siccome terapia e miglioramen- to sono pratiche e non oggetti, possiamo sempre sperare di risolvere la faccenda una
3 PCB, op. cit., p.14.
4 Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli 1996 5 ivi
volta per tutte stipulando un accordo. In tal caso però una cosa è certa: se la distinzione non è reale ma solo convenzionale, su di essa non possiamo basarci per risolvere eventuali dubbi morali.
ACCAVALLAMENTO SEMANTICO: Un problema ulteriore deriva proprio dalla prassi
medica attuale. Infatti, dal momento che spesso il trattamento medico si risolve proprio in un miglioramento di certe caratteristiche considerate patologiche, non sempre è facile distinguere gli interventi migliorativi da quelli terapeutici. E poi, non è forse uno scopo nobile della medicina quello di migliorare le nostre condizioni di salute? Forse è meglio distinguere tra “miglioramenti relativi alla salute”, volti a eliminare o prevenire le condizioni patologiche, e “miglioramenti non relativi alla salute” che hanno lo scopo di potenziare determinate caratteristiche normali. Così l’accavallamento scompare, ma restiamo con un bel grattacapo: come distinguere le caratteristiche normali da quelle patologiche? Ritorniamo alla necessità di definire il concetto di “salute”.
SCARSA OGGETTIVITÀ: Se non abbiamo a che fare con una capacità quantificabile, il
giudizio su cosa sia migliore diventa soggettivo. Il biopotenziamento di una data prestazione può essere considerato un miglioramento in certi ambiti e per certe persone, e risultare invece neutrale, se non addirittura un peggioramento per altri ambiti e per altre persone. Questa scarsa oggettività si estende anche al concetto di malattia; col progresso della scienza medica si diagnosticano patologie sempre nuove e vecchi malanni vengono debellati. Inoltre, siccome la prassi medica non è centralizzata, non solo non esiste una nosologia (una classificazione sistematica delle malattie) univoca e definitiva, ma spesso la diagnosi dipende dall’opinione personale del singolo medico e dalla cultura in cui ci si trova. Chiaramente qui mi riferisco soprattutto ai disturbi comportamentali, ma, dal momento che i biopotenziamenti includono anche migliora- menti delle capacità psichiche, la questione per il nostro argomento è centrale.
Ci troviamo quindi nella necessità di chiarire la distinzione terapia/miglioramento prima di poterla applicare; non possiamo semplicemente darla per scontata, soprattutto se su di essa vogliamo fondare una critica morale alle pratiche di “miglioramento non relativo alla salute”. Credo sia opportuno seguire E.T. Juengst, esperto di etica biomedica, quando individua tre concezioni utili per stabilire una buona definizione6: una fa capo proprio all’idea di salute, una a quella di normalità, mentre l’ultima concede che i due concetti siano frutto di una “costruzione sociale”.