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Per rendere utile la distinzione terapia/miglioramento nell’ambito delle decisioni pubbliche, possiamo legare il concetto di salute a una qualche definizione di tipicità o di funzionamento normale di un organismo che funga da standard e pietra di paragone per valutare l’opportunità di un intervento. In questo modo possiamo distinguere ciò che è necessario da un punto di vista medico, e quindi moralmente lecito, dagli interventi superflui e moralmente sospetti. Secondo N. Daniels, ideatore di questa proposta, lo scopo della medicina è “mantenere, ristabilire o compensare la perdita di funzionalità e il restringimento delle opportunità causati dalla malattia e dalla menomazione”9. Questo significa anche pensare nei termini di una distribuzione equa dei servizi medici, che in tal modo vengono intesi come strumenti pubblici necessari per garantire a ogni cittadino il ventaglio di opportunità esistenziali disponibile a chiunque goda di una fisiologia non patologica. Per decidere poi quali caratteristiche debbano considerarsi “normali”, potremmo adottare la nozione di “funzionamento tipico della specie”, e stabilire un’ampiezza di deviazione standard per tutte le caratteristiche umane suscettibili di potenziamento: chi è al di fuori di questo standard ha diritto all’intervento, gli altri no. La proposta di Daniels, nominata “Normal Function Model” (modello basato sul funzionamento normale), ha riscosso molti consensi perché propone una concezione moderna della medicina, non più interpretata come una pratica invasiva mirata a salvare il paziente ad ogni costo, bensì come una scienza volta a garantire a tutti la possibilità di vivere un’esistenza più libera.

9 Sabin J.E. – Daniels N., Determining Medical Necessity in Mental Health Practice, in Hasting Center

SFUMATURE DI TIPICITÀ: Ma qui sorge subito un grosso problema. Dato che “la maggior

parte delle attività umane cade lungo un continuum o una curva di «distribuzione normale»”10, come e in base a quali assunzioni, si dovrebbe stabilire la “tipicità” di un essere vivente? Abbiamo sostanzialmente due strade da percorrere, quella statistica e quella teoretica. Un’elaborazione statistica incontrerebbe però enormi difficoltà di ordine pratico; inoltre, come abbiamo visto nella prima sezione, molti biopotenziamenti coinvolgono facoltà difficilmente quantificabili (es. il buon umore, la memoria, la bellezza) e quindi recalcitranti alle medie statistiche. La via teoretica non è meno impervia perché potrebbe sempre essere accusata di parzialità, soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche emotive e comportamentali: quale sarebbe il “funzionamento cerebrale tipico” della specie umana e in base a cosa andrebbe stabilito? Esiste una emotività tipica e in cosa consiste? A queste domande non è possibile rispondere se non in modo arbitrario.

DISCRIMINAZIONE:In generale, pur ammettendo che si riesca a raggiungere un accordo

sulla definizione di “funzionamento tipico della specie umana”, il modello di Daniels presta il fianco a una forte critica. Il punto è che esso funziona selezionando le cause dell’anormalità, non l’anormalità in sé, rischiando in tal modo di trasformare il ricono- scimento di una patologia in un fattore di discriminazione sociale, soprattutto in relazione alla copertura fornita dalla sanità pubblica. Vediamo come. Sfruttando il concetto di “funzionamento normale”, la sanità pubblica può agire con sicurezza per eliminare tra la popolazione tutte quelle “differenze casuali e svantaggiose che capitano quando una cattiva salute danneggia il funzionamento fisico, sensoriale o cognitivo”11 di un individuo. Il modello infatti ha come scopo dichiarato quello di voler promuovere l’equa opportunità sociale dei cittadini. Il problema però è che il concetto stesso di normalità, dovendo essere per definizione imparziale, non può armonizzarsi con le esigenze personali dei singoli cittadini e rischia pertanto di creare iniquità. Infatti, se sul piano materiale non c’è molta differenza tra chi “funziona in modo normale” ma ha una caratteristica sotto la media (es. una persona sana ma molto bassa), e chi è sotto la media perché soffre di un disturbo (es. una persona bassa perché affetta da carenza di ormone della crescita), sul piano formale e normativo invece solo quest’ultimo caso

10 PCB, op. cit., p. 15.

11 Silvers A., A Fatal Attraction to Normalizing: Treating Disabilities as Deviation from “Species-

verrebbe considerato “anomalo” e avrebbe diritto all’intervento12. Questa conclusione sembra ingiusta, perché anche chi si trova nel primo caso soffre a causa di una caratteri- stica poco sviluppata. In pratica il modello di Daniels rischia di fare della malattia un fattore di discriminazione!

NORMALIZZAZIONE: A questa accusa di parzialità si può rispondere che lo scopo della

medicina non è quello di livellare le differenze tra le persone e che gli interventi debbano solo cercare di recuperare quel “pieno spettro” di capacità che il paziente avrebbe potuto aspettarsi se non avesse avuto la patologia13. In questo modo, Daniels accetta il fatto che gli esseri umani nascano con potenzialità innate diverse. Purtroppo però la concezione della terapia come ripristino della normalità (o meglio, di una salute normale o di un patrimonio genetico normale) finisce per sollevare più problemi di quanti ne risolva. La filosofa A. Silvers14 fa infatti notare come l’identificazione “anomalo = svantaggioso” sia molto discutibile e non sempre corrisponda al vero. Nel valutare una caratteristica non possiamo limitarci a confrontare il singolo individuo con uno standard definito su basi, per quanto scientifiche, fissate a monte, e questo perché dobbiamo sempre considerare l’ambiente (naturale e soprattutto sociale) in cui tale caratteristica si presenta. Lo stesso desiderio di ripristinare il normale funzionamento di caratteristiche anomale senza però voler livellare le differenze, sembra guidato più da esigenze politiche che biologiche15 e infatti il modello di Daniels adotta in modo surrettizio un giudizio morale (l’aperta competitività con eque opportunità di partenza, tipica del liberalismo capitalista), perché, come ben dice la Silvers la natura “tende a eliminare gli individui veramente malfunzionanti, non a ripararli”16. Il “funzionamento tipico della specie”, proprio perché pretende di essere ancorato a criteri naturali, va allora ad appiattire il normale spettro di opportunità esistenziali sul tipo di creatura che siamo per nascita. Ma siamo sicuri di voler adottare questa limitazione? Le opportunità della nostra vita sono squisitamente individuali e, se la medicina vuole sinceramente assumersi la responsabilità di alleviare le sofferenze dei suoi pazienti, allora è chiamata ad ascoltare questi ultimi, non un modello neutro e impersonale.

Inoltre, se la concezione di funzionamento normale è basata su ricerche empiriche, e quella di Daniels vuole esserlo, allora non può servire per avversare sul piano etico il

12 Cfr. Parens, op. cit., p. 6. 13 ibidem

14 Cfr. Silvers, op. cit., p. 99 e seg. 15 Ivi, p. 103

desiderio di miglioramento, perché per farlo dovrebbe adottare una contaminazione indebita tra due sensi ben diversi del termine “normalità”: uno è il senso moralmente neutro del valore numerico ottenuto tramite una media matematica, del tutto contingente al periodo storico, alla popolazione presa in esame e alle conoscenze attuali; l’altro invece è il valore morale di cui il termine si carica in ambito medico o sociale quando lo si attribuisce alla singola persona. Chi sostiene il modello del funzionamento normale e una concezione di “essere umano normale” con lo scopo di criticare moralmente il biopotenziamento, sta implicitamente sostenendo che “è meglio funzionare in modo normale”. Ora, a parte la scarsa plausibilità di un’affermazione del genere (a una prima intuizione sembrerebbe meglio funzionare in modo più che normale!), questo significa che fondare la distinzione terapia/miglioramento sulla definizione di uno standard di funzionamento tipico della specie, può facilmente rivelarsi una spinta verso la normaliz- zazione sociale, con conseguente spostamento del problema in ambito politico. I risvolti morali della normalizzazione e del conformismo in relazione al biopotenziamento saranno ripresi nel capitolo 12.

IL CONCETTO DI NORMALITÀ SI RIVELA CONTROPRODUCENTE: in ambito bioconservatore,

lo stesso PCB fa notare un altro problema derivante dalla distinzione tra terapia e miglioramento basata sul concetto di funzionamento standard. Per poter stabilire una tipicità dobbiamo prima assumere l’esistenza di un’integrità umana naturale (natural human whole), un modello di sistema organico “il cui buon funzionamento sarebbe lo scopo della medicina terapeutica”17. Ora, a ben vedere questo concetto di “organismo normale” implica l’esistenza di un equilibrio naturale, equilibrio che, quando viene perturbato, dà origine proprio a quei mali la cui eliminazione è il fine ultimo della medicina. Però in questo modo, ammettendo cioè che lo scopo della terapia biomedica sia esclusivamente quello di ristabilire l’integrità/salute, adottiamo implicitamente l’idea che il corpo umano è naturalmente “limitato e fragile”18, vale a dire inadeguato e suscettibile di miglioramento. Esso è fragile perché la patologia viene considerata come stato anomalo, pur essendo in realtà un fenomeno a rigor di logica naturale. Ed è limitato perché, rispetto alla sua stessa volontà e dei suoi stessi desideri, il corpo dell’uomo è definito come un organismo caduco, che si stanca facilmente, invecchia (sempre troppo) rapidamente e, prima o poi, muore. Questa differenza, questa distanza tra aspirazioni personali e possibilità organiche è fonte non solo di sofferenze e

17 PCB, op. cit. p. 17. 18 ibidem

frustrazioni (ecco in che senso la sanità pubblica può svolgere un compito morale), ma anche di quel desiderio individuale di superare i deficit nella dotazione congenita, l’insieme di talenti e doni naturali che proprio la natura sembra distribuire in maniera così iniqua tra le persone.

Pertanto, ha poco senso affidarsi a una nozione di normalità con la speranza di persua- dere la gente a non usare i biopotenziamenti. Chi percepisce se stesso come inadeguato o inferiore agli altri, chi nasce senza alcuna patologia ma crede comunque di avere una dotazione “imperfetta”, si sentirà sempre legittimato all’applicazione migliorativa delle nuove tecnologie. Il problema morale si fa ancor più pressante se consideriamo che il monopolio sui biopotenziamenti da parte della professione medica potrebbe ben presto scemare. Quando le tecnologie NBIC diverranno accessibili, probabilmente si formerà un’intera classe di “operatori di biopotenziamenti” parallela alla classe medica. Questi operatori non saranno dei guaritori e il loro mestiere si limiterà all’innesto di biopoten- ziamenti e alle varie operazioni conseguenti (manutenzione delle protesi cibernetiche, aggiornamento software e hardware eccetera); opereranno in privato e saranno ampia- mente indipendenti dal sistema di sanità pubblica. In uno scenario del genere, far leva sulla distinzione terapia/miglioramento per delegittimare moralmente l’applicazione dei biopotenziamenti, sembra una mossa alquanto debole: come lo stesso PCB ammette, i sogni di lunga vita, prestazioni superiori e felicità

“in fondo non hanno niente a che vedere con la medicina, a parte il fatto che saranno i dot- tori a usare i mezzi per realizzarli. Di conseguenza, sono solo accidentalmente dei sogni «oltre la terapia».”19