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L’aspirazione ad assumere il controllo della propria morte è una motivazione morale capace di sostenere il desiderio di prolungare la vita ed eliminare l’invecchiamento senza andare in contrasto con la tesi del memento mori. Questa motivazione, che può dirsi lo stesso transumanista in quanto pienamente compatibile col MCT, interpreta il superamento della condizione umana non come un’emancipazione dalla morte tout court, bensì come l’appropriazione definitiva del senso della propria vita.

Per chiarire questo pensiero bisogna rifarsi brevemente al concetto di morte come possibilità esistenziale. Secondo la tesi del memento mori, la morte non è solo il trapasso a una vita ultraterrena (concezione religiosa) o la fine congenita del ciclo biologico (concezione naturalista), ma una possibilità che accompagna quotidianamente l’esistenza dell’uomo (forse l’unico animale cosciente del proprio essere mortale). La certezza della morte assurge al ruolo di condizione esistenziale nella forma di una costante minaccia, una continua e latente angoscia premonitrice del nostro ultimo giorno su questa Terra. La realtà della propria fine ci predispone alla consapevolezza di essere contingenti, ed è perciò che può e deve servirci da stimolo per dare un senso compiuto alla nostra vita, per spendere il nostro tempo nel modo migliore.

Ora, questa concezione interpreta la morte come “possibilità”, ma le attribuisce un valore in quanto “certezza”: cosa vuol dire? Forse che la morte è “un’evenienza ineluttabile”? Ma questa espressione, oltre ad essere una contraddizione in termini, non si sposa per niente con la tesi del memento mori: la possibilità esistenziale della morte non è una mera occasione, un avvenimento statistico. La coscienza del nostro limite supremo consiste piuttosto nella sicurezza della sua inesorabilità. Solo così la caducità insita nella condizione umana trascende dall’evenienza ipotetica del “potrebbe accade- re” e si configura come una certezza sulla quale possiamo e dobbiamo contare per aprirci uno spazio di libertà. Solo in questo modo possiamo affermare che il nostro

decesso sarà la parola fine del racconto della nostra vita, e solo così la morte diventa l’ultimo atto che dà senso compiuto a un’esistenza.

Ma allora, quale miglior modo di realizzare questa possibilità esistenziale, se non decidendo per la propria morte, scegliendo in piena autonomia il momento giusto per chiudere l’esistenza su questa terra? Con questo non voglio fare un’apologia del suicidio. Voglio però affermare che la tesi del memento mori si fa ancor più vera e pregnante quando la propria fine diventa il frutto di una scelta personale: finché essa resterà in mano al caso o al destino, non potrà sancire il significato di un’esistenza se non in modo contingente. Soggiogare la morte allora non significa eliminarla del tutto (cosa che sembra addirittura impossibile all’atto pratico), bensì toglierle quel carattere di fatalità nascosto da sempre nel suo seno. Per questa via è possibile interpretare il postumano come quell’umano che ha fatto della morte il vero suggello della propria esistenza: egli non la teme né la rifugge proprio perché sa che sarà una sua scelta. Ciò significa anticipare davvero la propria fine dal punto di vista emotivo, ma senza caricarsi d’angoscia; sentire il dovere di prendere possesso della finitezza umana come atto ultimo del percorso di emancipazione.

Quindi, è vero che la coscienza dell’essere finiti funziona da condizione di possibilità per il senso della nostra vita, ma è anche vero che, se si escludono i suicidi, questa possibilità si è sempre concretizzata a prescindere dalla nostra volontà, spesso mortifi- cando le speranze e i progetti di chi aveva ancora molto da vivere e del suo prossimo. Per concludere, da una parte l’obiezione del PCB funziona solo contro l’immortalismo ingenuo di chi coltiva l’ideale della vita eterna illudendosi di poter conservare al contempo la propria identità o la propria umanità, ma chi sostiene la MCT punta proprio a superare la condizione umana in direzione di un non meglio specificato essere post- umano: contro questa dottrina non è sufficiente obiettare “in tal modo si perde la condizione umana”! Inoltre, la tesi del memento mori può funzionare bene contro chi rinnega la morte del tutto e si rifiuta di interpretarla come un limite e, quindi, una possibilità. Ma allo stato attuale, e ancora per qualche tempo, non possiamo nemmeno immaginare come diventare completamente invulnerabili.

D’altra parte, chi adotta la MCT sbaglia a parlare di vita eterna o immortalità. Questi sono termini impropri se usati per indicare il drastico innalzamento della speranza di vita massima prevedibile in base al galoppante sviluppo delle scienze mediche. Anche prendendo in considerazione prospettive estremamente speculative, quali il mind uploading, è del tutto inopportuno indicarle come forme di immortalità, perché se la vita

cambia forma può cambiare con essa anche la morte, ed è sempre possibile immaginare la fine di un’esistenza postumana, per quanto longeva. Per il tema in questione, il vero superamento della condizione umana non si può trovare nell’utopia di sconfiggere la morte in modo definitivo, ma nel rendere concreta la possibilità, tecnica e giuridica, di sottrarre al caso l’ultima parola sulle nostre vite.

In ogni modo, se è possibile sostenere al contempo la tesi del memento mori e la MCT, e se questo non implica per forza delle velleità “immortaliste”, allora l’argomento del nichilismo è sostanzialmente indebolito.

Capitolo 9. Benessere e autenticità: alcuni dubbi sul biopotenziamento del nostro stato d’animo.