CAPITOLO 1. UNA, NESSUNA, CENTOMILA TEORIE
1.2. Le avventure teoriche del personaggio
1.2.2. La narratologia e gli approcci inclusivisti
Parallelamente alla decostruzione strutturalista, inizia a muovere i primi passi una nuova disciplina che sarà centrale per l’evoluzione della nozione di personaggio e per la metodologia del suo studio. Si tratta della narratologia che, come sintetizzato da Jan C. Meister, “is a humanities discipline dedicated to the study of the logic, principles, and practices of narrative representation” (2013).
Nonostante questa branca della ricerca sia figlia legittima e riconosciuta dello strutturalismo,37 essa ha adottato un atteggiamento maggiormente inclusivo, integrando la ricerca della definizione di una grammatica del racconto tipica dello strutturalismo con finalità e metodi di diversa natura e provenienti da vari campi (ermeneutica,
cultural studies, cognitivismo, retorica, ecc.). Tant’è vero che, fino a questo momento,
ciò che aveva caratterizzato gli studi, indipendentemente da cosa si intendesse per personaggio (individuo o funzione) e dalla metodologia impiegata nel suo studio, era una tendenza all’“esclusività”. In altre parole, l’adesione all’una o all’altra scuola di pensiero implicava un approccio totalizzante, e l’esclusione conseguente di teorie e metodi appartenenti all’“altro lato”. La narratologia, invece, fin da subito tenta di stemperare la rigidità di queste visioni in bianco e nero cercando di porsi in una zona grigia. È lo stesso Todorov, facendo marcia indietro rispetto alla necessità di definire il personaggio con una sola e univoca definizione, ad ammettere che debbano essere riconosciute delle differenze – delle varietà di personaggi – e la coesistenza di diverse definizioni. Ci si rende conto di come la conformazione del personaggio e il suo studio dipendano dal tipo di narrazione in cui è inserito: secondo lo studioso bulgaro esistono due tipologie di narrazioni, una basata sulla trama e per questo definita “a-psicologica”
37 Per usare le parole di Marie-Laure Ryan, “academic disciplines, unlike people, usually don’t have birthdays, but if one could be given to narratology, it would fall on the publication date of issue 8 of the French journal Communications in 1966” (Ryan 2006, 3). Questo numero, che contiene articoli di Claude Bremond, Gérard Genette, A. J. Greimas, Tzvetan Todorov, e Roland Barthes viene considerato come il big bang da cui si è generato l’universo teorico-metodologico della narratologia.
e un’altra detta invece “psicologica” che, incentrata sul personaggio, considera le azioni di quest’ultimo come espressioni e sintomi della sua psicologia. Inoltre, Todorov sostiene come il personaggio e la sua funzione nel testo dipendano dall’ “insieme degli attribuiti che sono stati predicati al soggetto nel corso della narrazione” (1972, 247) i quali, racchiusi entro i confini di un nome proprio, permettono al lettore di credere che il personaggio sia una “persona” (idem 248).
Anche Roland Barthes, ritrattando una concezione del personaggio che vedeva quest’ultimo come interamente subordinato all’azione (1966), riconosce in S/Z (1970) che liquidare la complessità del personaggio nella distinzione attante/attore e nella sua secondarietà intrinseca rispetto agli eventi sia riduttivo e, in definitiva, una pratica nociva. Se, nel 1966, Barthes sosteneva ancora che non si potesse “définir le personnage en termes d'essences psychologiques” (1966, 12), in S/Z dichiara invece come il “carattere” del personaggio38 sia un elemento importante da tenere in considerazione. Il personaggio diviene un “prodotto combinatorio” di semi (elementi minimi di significazione), la cui combinazione può essere più o meno stabile e complessa. Barthes, infatti, pur rimanendo sostanzialmente legato a una visione semiotica del personaggio,
ben vede che se l’azione serve a far procedere la narrazione sul piano sintagmatico, essa produce al contempo sul piano paradigmatico del senso che in qualche modo potrà essere definito, tra le altre cose, come il « carattere» del personaggio. Inversamente l’assunzione di un carattere da parte del personaggio comporterà da parte sua degli obblighi di coerenza e di necessità del fare (Marrone 1986, 75).
38 Il carattere e la personalità del personaggio, per Barthes, si generano dalla specifica combinazione di sèmi che lo costituiscono. Scrive in S/Z che “il personaggio è quindi un prodotto combinatorio: la combinazione è relativamente stabile (caratterizzata dal ritorno dei sèmi) e più o meno complessa (comportando tratti congruenti, contradditori); questa complessità determina la «personalità» del personaggio” (1973 [1970], 65). Con sèma Barthes intende “un connotatore di persone, di luoghi, di oggetti, il cui significato è carattere. Il carattere è un aggettivo, un attributo, un predicato” (173) e la somma dei sèmi, il loro assemblaggio attorno a un Nome proprio – nome che, lo ricordiamo, “funziona come il campo magnetico dei sèmi” – dà origine a un personaggio, “trascinando la configurazione semica in un tempo evolutivo (biografico)” (65). Per un approfondimento cfr. Heath, Stephen. Vertige du deplacement. Parigi, Arthéme Fayard, 1974; trad it. L’analisi sgretolata: lettura di R. Barthes. Bari, Dedalo Libri, 1977.
Il semiologo francese è tra i primi a rendersi conto che il rapporto tra carattere (l’essere) e azione (il fare) non deve essere esclusivo (o l’uno o l’altro), ma piuttosto inclusivo (l’uno e l’altro), anche se dialettico e in una negoziazione reciproca costante.
Questa tesi è ripresa ed elaborata in modo maggiormente compiuto e consapevole da Seymour Chatman che, con il suo celebre Storia e discorso. La struttura narrativa nel
romanzo e nei film (1978), inaugura concretamente il riscatto del personaggio e della
sua considerazione nella teoria della narrazione. Chatman, criticando apertamente l’approccio strutturalista, non ritiene affatto che i personaggi siano “prodotti dell’intreccio, che il loro statuto è ‘funzionale’, in breve che essi sono partecipanti o attanti più che persone” (2003 [1978], 115). Da un lato, quindi, definisce limitativa la posizione teorica strutturalista, che vuole solo “analizzare quello che i personaggi compiono in una storia, non quello che sono” (ibidem). Dall’altro, però, ci mette in guardia dinnanzi ai pericoli di un’impostazione focalizzata unicamente sulla piscologia. È certamente futile e fuorviante chiedersi quanti figli avesse Lady Macbeth ma, ribadisce Chatman,
il fatto che una domanda sia futile, significa forse che tutte le domande sul personaggio lo sono? […] Dovremmo limitare quello che sembra essere un sacrosanto diritto di inferire e anche di congetturare a nostro piacimento sui personaggi? Questo tipo di limitazione mi sembra un impoverimento dell’esperienza estetica. […] Naturalmente Amleto e Macbeth non sono “persone viventi”, ma questo non significa affatto che, come costrutti imitativi, essi siano limitati alle parole di una pagina stampata”(121-122).
Lo studioso, così facendo, non intende sottovalutare l’importanza del ruolo che le strutture testuali e il medium che le veicola rivestono nella costruzione del personaggio. Anzi, si premura di farci sapere come lui stesso sia “proprio l’ultimo a suggerire che le configurazioni significative del medium […] siano meno importanti dello studio delle altre parti del composto narrativo” (ivi 122). Ciò non toglie, tuttavia, che anche altri aspetti ed elementi del personaggio, oltre alla mera testualità, debbano essere presi in considerazione e che, perché no, questi “aspetti altri” possano beneficiare della sistematizzazione offerta dalla matrice strutturalista della narratologia. Chatman, del
resto, sostiene apertamente l’importanza dei tratti psicologici39 del personaggio, purché questi vengano incasellati in un sistema strutturato e generalizzabile: il personaggio diventa così pensabile in termini di “un paradigma di tratti psicologici, in cui ‘tratto’ è usato nel senso di ‘qualità personale relativamente stabile e costante’ ” (ivi 130, corsivi aggiunti).
Quello che emerge dal lavoro di Chatman è, sostanzialmente, un tentativo di ricucire lo strappo, causato dalla forbice teorico-metodologica tra l’approccio mimetico da una parte e quello semiotico dall’altra, che si era aperto tra il personaggio-individuo e il personaggio-funzione. Affermando che il personaggio è sia una persona finzionale sia un elemento testuale, la narratologia cerca di superare l’atteggiamento esclusivista – e in definitiva dannoso – che aveva condizionato lo sviluppo teorico di questa nozione. Di parere concorde con quanto sostenuto da Chatman è anche Shlomith Rimmon-Kenan, la quale ritiene che ad aver ostacolato lo studio del personaggio sia stato sostanzialmente un disaccordo profondo tra le parti, ciascuna impegnata a far risaltare solo uno delle molteplici sfaccettature. Secondo Rimmon-Kenan, le teorie mimetiche e le teorie semiotiche, intestardendosi nel distinguere (e disgiungere) a tutti i costi il personaggio come “persona”, con accento sul lato dell’essere, dal personaggio inteso come “parole”40 o elemento testuale, che invece si orienta sul polo del fare, da sole non raggiungono alcune risultato concreto. Scrive a tal proposito la studiosa israeliana:
Whereas in mimetic theories […] characters are equated with people, in semiotic theories they dissolve into textuality. What remains? If both approaches end up cancelling the specificity of fictional characters, through different standpoints, should the study of character be abandoned, or should both approaches be rejected and a different perspective sought? Can such a perspective reconcile the two
39 Con il termine “tratto psicologico” Chatman intende un “aggettivo narrativo collegato alla copula narrativa” (Storia e discorso, 129). Nella storia, i “predicati narrativi” sono gli eventi mentre la “copula”, secondo Chatman, altro non sarebbe se non il soggetto che esperisce (agendo o subendo) gli eventi espressi dai predicati. Accade, tuttavia, che a volte i predicati siano mancanti e sostituiti da aggettivi che qualificano psicologicamente il personaggio (timido, coraggioso, spontaneo, ecc.). Non occorre che l’aggettivo sia esplicitamente presente nel testo, quanto piuttosto che il testo permetta al lettore di inferirlo.
40 Queste due visioni del personaggio possono essere descritte l’una come “realista”, che concede ai personaggi una certa indipendenza rispetto alla narrazione, rendendoli così equiparabili a persone vere, e l’altra come “purista, la quale prescrive che i personaggi non esistano e che il ritenerli umani sia solo un fraintendimento sentimentalista. Per una formulazione maggiormente articolata dei due argomenti si veda: Mudrick, Marvin. “Character and event in fiction”. Yale Review, No. 50, 1961, pp. 202-218.
opposed position without ‘destroying’ character between them? Is it possible to see characters ‘at once as persons and as parts of a design’ (Prince 1968, p. 290). I think it is (1983, 33, corsivi originali).
La teoria del personaggio necessita, secondo Rimmon-Kenan, di un approccio meno netto e più comprensivo e mediato, senza alcun bisogno di instaurare una subordinazione necessaria tra fare ed essere, e questo per tre ragioni. Innanzitutto, “instead of subordinating character to action or the other way around, it may possible to consider the two as interdipendent”; secondariamente, “the opposed subordinations can be taken as relative to types of narrative rather than as absolute hierarchies”; in terzo luogo, “characters may be subordinated to action when action is the centre of the attention” (1983, 35-36) e viceversa. Anche Mieke Bal, nel suo influente Narratology:
Introduction to the Theory of Narrative (1985) pone attenzione a come i personaggi
siano “fabricated creatures made up from fantasy, imitation, memory” ma in possesso di un’impressione di umanità – “the character is not a human being, but it resembles one” (1999 [1985], 115) – tale da mandare in cortocircuito le teorie che tentano di farne un’analisi. L’umanità intrinseca dei personaggi, l’ingrediente che faceva impazzire ogni teoria semiotica sul personaggio, viene ora inglobato in una visione che considera i personaggi come “costrutti aperti” ed “esseri autonomi”, anziché pure “posizioni dell’intreccio” (Chatman 1978, passim).
Riconoscere gli essere finzionali come composti tanto delle testualità del personaggio- funzione quanto della verosimiglianza (l’effet-de-réel di cui parlava Barthes) del personaggio-individuo è forse il maggior e più significativo risultato raggiunto dalla narratologia in materia di teoria del personaggio. In altre parole, la narratologia riesce a chiudere la faglia tra le due connotazioni del personaggio, non negando l’una o l’altra ma anzi tenendole entrambe in considerazione e analizzando le connessioni reciproche. Nel dibattito che insorge a partire dagli anni Ottanta si afferma così la consapevolezza che la categoria di personaggio sia indiscutibilmente essenziale e primaria, una delle questioni narratologiche considerate tra quelle maggiormente importanti, e controverse. Murray Smith, nella sua trattazione del personaggio cinematografico, parla a ragione di una “salienza del personaggio”, una sua indubbia centralità sia nella costruzione della narrazione che nell’esperienza fruitiva – in quanto, essendo “nodi salienti”, “our ‘entry
into’ narrative structure is mediated by characters” (1995, 18). D’altro canto, questa centralità riconosciuta al personaggio presenta non poche problematiche, prima tra tutte una certa fatica nel maneggiare teoricamente la nozione, risultando in una frantumazione delle posizioni teorico-metodologiche con cui affrontarla. Queste posizioni, dal canto loro, anziché cercare di prevalere l’una sull’altra in modo assoluto come succedeva in passato, tentano piuttosto di convivere, pur senza concordare. Si è rinunciato ad avere una visione totalizzante e univoca di che cosa sia il personaggio nelle narrazioni finzionali – e di come esso vada studiato – per lasciare il campo a posizioni plurivoche che, ciascuna con le proprie armi e i propri scopi, si danno battaglia. Un esempio di questa polifonia che si crea attorno al personaggio è messa in risalto dal saggio di Gerald Mead, “The Representation of Characters”, in cui lo studioso riassume diversi punti di vista, dividendoli innanzitutto nelle due macro-aree che hanno accompagnato da sempre gli studi sul personaggio: A) una prospettiva che potremmo chiamare referenzialista, per cui i personaggi “have meaning and are understood because they refer to a second dimension of meaning, to some outside reality or truth” (1990, 441) e che sopra abbiamo chiamato personaggio-individuo; B) una prospettiva definibile testualista che, prediligendo l’approccio del personaggio- funzione, si sforza di “subordinate or limit (and occasionally to eliminate) the referential perspective outlined above and to explain our understanding and comprehension of characters by concentrating primarily on factors which occur or are formed within the text” (ivi, 443). Queste prospettive, ricorda Mead vanno considerate come i poli estremi di un asse lungo il quale si trovano una serie di posizioni intermedie. All’interno del filone di critica referenzialista, come ricorda Mead, si possono trovare il modello
realista per cui “we recognize, understand and appreciate fictional characters insofar as
their appearance, actions and speech reflect or refer to those of person in real life”; il
modello psicologico, secondo il quale i personaggi vanno studiati in relazione al loro
riflettere dei pattern comportamentali o le stesse personalità riscontrabili nelle persone reali; il modello sociale, che vede i personaggi non tanto come “unique real-life individuals momentarily employed in a novel or film, but rather as more or less credible illustrations or exempla of a social, cultural, or philosophic period or condition” (ivi, 442). Anche per quanto riguarda il filone testualista, invece, Mead sottolinea come il
dibattito sia caratterizzato dalla compresenza di diversi modelli: da un lato “we find efforts to discover and describe the unique textual configuration of specific films or novels and thereby the presence and sense of individual characters”; dall’altro possiamo vedere uno sforzo simile, ma rivolto “to the search for the types and cultural myths […] to discover in a specific fictional character elements common to all characters of that type” (ivi, 443). Anche Uri Margolin (1989), uno dei narratologi maggiormente impegnati nel campo della teoria del personaggio, si preoccupa di sottolineare a più riprese la compresenza di diversi paradigmi, ciascuno orientato in maggior o minor misura verso il polo della rappresentazione o della testualità. Così, il personaggio deve essere studiato nel suo essere contemporaneamente: a) un’entità discorsiva; b) una delle funzioni componenti la struttura narrativa, in base al progetto estetico dell’autore; c) un “textual speaker” nel sistema enunciazionale rappresentato dal testo, ovvero un indice dei sottotesti che il testo veicola; d) un “tema antropomorfizzato”, cioè una proiezione figurativa dell’architettura semantica e tematica del testo; e) un attante e una funzione (intesi in senso greimasiano); f) un individuo “non-attuale”, finzionale, in accordo con la teoria dei “mondi possibili”. Secondo lo studioso israelo-canadese, il problema nell’“afferrare” il personaggio risiederebbe in questa eccedenza di teorie e metodi:
Half a dozen conceptions of character, half a dozen supporting theoretical frameworks. How does one then choose among them either in a general way (the best approach available is ...) or in a particular case (for this story, the most useful way to regard character is ...)?” (1989, 7).
La natura proteiforme, che questo pot-pourri di teorie e approcci ha tentato – e tenta tutt’oggi, come dimostrano Jens Eder, Fotis Jannidis e Ralph Schneider nel loro saggio “Characters in Fictional Worlds: an Introduction” (2010) – di afferrare, è una caratteristica costitutiva del personaggio, talmente radicata da riguardarne la stessa ontologia.
Nel campo della filosofia del linguaggio, difatti, quella di personaggio è una nozione non meno problematica da trattare di quanto non lo sia in narratologia: il personaggio è un’entità esistente poiché, da un lato, è percepita come tale dai lettori/spettatori che organizzano discorsi dichiarativi su di esso (ad esempio, è vero, per tutti gli spettatori di
Game of Thrones, che Daenerys Targaryen possiede tre draghi); al contempo, è
un’entità non esistente perché appunto finzionale (in realtà, non esiste nessuna Daenerys Targaryen, ed è quindi impossibile che abbia tre draghi). Per risolvere questa situazione paradossale, diverse correnti di pensiero, anche qui come in narratologia, hanno privilegiato l’uno o l’altro corno del dilemma, pur ammettendo la legittimità di ciascuno. Così, mentre studiosi come Kendall L. Walton si schierano a favore della concezione irrealista e propongono di considerarli “facendo finta” che siano reali (pretence theory),41 altri puntano invece sul loro realismo (anche se ontologicamente diverso da quello delle persone vere).42 Tra questi ultimi si colloca anche l’influente lavoro di Amie Thomasson (1999), che considera i fictional beings come “artefatti”, ovvero oggetti astratti che, essendo costruiti dall’interazione di autori e lettori/spettatori, dipendono da determinate condizioni testuali (le specificità mediali e quelle del testo che li veicola) e contestuali (relative cioè a fattori di produzione). I personaggi come artefatti, secondo Amie Thomasson, sono oggetti contingenti, storicamente determinati e legati indissolubilmente a un hic et nunc. Il binarismo tra realismo e irrealismo si arricchisce anche di diverse posizioni intermedie43 dimostrando così, anche nel campo
41 Ciò significa, in altre parole, che un personaggio è presentato tramite caratteristiche e modi rappresentazionali tali da spingere il lettore/spettatore a immaginarlo come vero, e a considerare vere anche le proposizioni che lo riguardano. Utilizzando le parole del filosofo Edward Zalta, potremmo dire che “according to pretence theory, when someone authors a story, they produce certain sounds or marks (‘representations’) which serve as props that somehow mandate or prescribe that listeners/readers are to imagine certain propositions (these propositions become fictional in‘the world of the story’)” (2000, 123). Cfr. Walton, Kendall L. "On the (So-Called) Puzzle of Imaginative Resistance." In: Nichols, Shaun (a cura di), The Architecture of the Imagination: New Essays on Pretence, Possibility, and Fiction, Oxford, Clarendon, 2006, pp.137-148; Mimesis as Make-Believe: On the Foundations of the Representational Arts. Cambridge, MA (USA), Harvard University Press, 1990.
42 Semplificando al massimo questa famiglia di posizioni, i “realisti” ritengono che i personaggi esistano in modo indipendente rispetto al lettore/spettatore con cui si relazionano, e che essi abbiano alcune specifiche proprietà per cui è possibile affermare che certe asserzioni sul loro conto siano vere o false. Ammettere che un personaggio finzionale esista non significa, tuttavia, conferirgli il medesimo statuto ontologico di una persona reale, ma piuttosto postulare l’esistenza di “mondi possibili” in cui esso esista. In questo senso, i personaggi non sarebbero entità concrete, ma oggetti astratti contingenti (Reicher 2010), reali solo in un mondo possibile e a certe condizioni. Cfr. Livingstone e Sauchelli, cit., p.341. Per altri approcci realisti cfr.: Van Inwagen, Peter. “Creatures of Fiction.” American Philosophical Quarterly, Vol. 14, No. 4, 1977, pp. 299–308, URL www.jstor.org/stable/20009682; Material Beings. Cornell University Press, 1995.
43 Si veda a tal riguardo anche l’approccio referenzialista (“reference without referents”) di Mark Sainsbury, secondo cui i “nomi vuoti” dei personaggi possono dare un qualche genere di contributo semantico (non necessariamente valutabile dal punto di vista della veridicità) alle proposizioni di cui fanno parte nonostante il fatto di non avere un referente oggettivo. Cfr. Sainsbury, Mark. Fiction and Fictionalism. Londra e New York, Routledge, 2009.
della filosofia del linguaggio, che l’arroccamento su approcci troppo netti ed esclusivisti sia ormai un atteggiamento non più sostenibile, che andrebbe sostituito con uno maggiormente integrativo. Un esempio di questa via ci è offerto da Alberto Voltolini, che per analizzare i ficta, come lui chiama i personaggi finzionali, sviluppa una proposta da lui stesso definita sincretica. Secondo lo studioso italiano è possibile considerare i
ficta come “compound entities consisting of both a set-theoretical and pretence-
theorethical element” (2006, XV), unendo così le argomentazioni irrealiste e realiste. L’avanzamento nel dibattito accademico di teorie sincretistiche anche nella filosofia del linguaggio dimostra come la questione della definizione dell’oggetto di studio “personaggio”, che tanto aveva ossessionato le teorie esclusiviste esaminate nel paragrafo precedente, si riveli ora un quesito non così urgente, a cui non si è