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CAPITOLO 4. IL PERSONAGGIO STEREOTIPATO

4.1. Il personaggio stereotipato: istruzioni per l’uso

4.1.1. Tra “tipo” narrativo e “stereotipo” culturale

Il punto di partenza, forse antiquato ma ancora utile, è la celeberrima distinzione forsteriana tra personaggio “piatto” e “a tutto tondo”. In particolare, è interessante riflettere in questo paragrafo sul personaggio piatto, quello che, nella riflessione di Forster, è definito come colui che possiede una sola qualità o tratto distintivo in grado di definirne l’identità e che non è nelle condizioni di sviluppare il proprio “mondo interiore” nell’arco della vicenda. Abbiamo a che fare con un personaggio mono- dimensionale, caratterizzato da un parterre estremamente ridotto di tratti narrativi, figurativi e tematici che si ripetono per la durata della storia, con scarsissima evoluzione – quando non proprio nulla. Da questo punto di vista, il personaggio piatto è equiparabile al “tipo”. Scrive Richard Dyer,

the type is any character constructed through the use of a few immediately recognizab1e and defining traits, which do not change or 'develop' through the course of the narrative and which point to general, recurrent features of the human world (whether these features are conceptualized as universal and eternal, the 'archetype', or historically and culturally specific, 'social types' and 'stereotypes' (2009 [1993], 208).

Piattezza narrativa e mono-dimensionalità psicologica non sono le uniche caratteristiche narrative del personaggio stereotipato, il quale è contraddistinto anche da una certa “moltiplicazione” e proliferazione di se stesso. Essendo “monolitico” (Sepulchre 2017, 150), stabile e solo di poco più specifico e caratterizzato di un puro ruolo narrativo greimasiano, il tipo è fondamentalmente un personaggio ad alto tasso di replicabilità, che preesiste ai testi in cui si inserisce e vi sopravvive. Eco definiva questi personaggi come topici che, una volta stabiliti in un testo, diventano “a figural stereotypes in a narrative sense – when it has established itself as a conventional figural pattern through repetition and the intertextual space of narration” (Schweinitz 2010, 281). Sono personaggi che si ripetono in serie, “luoghi” narrativi replicabili e disponibili a

collocarsi in diverse occorrenze e narrazioni e per questo “facili a convenzionalizzarsi e impiegabili senza impegno” (Eco 2016 [1964], 212). In virtù della sua piattezza, il personaggio-topos si adatta facilmente a essere impiegato in qualsiasi tipo di narrazione, aggiustandosi quel tanto che basta per essere pertinente al singolo testo. Come nota Alessandra Violi, “l’eccessiva leggibilità del personaggio e la moltiplicazione delle sue copie in immagini o icone diventano, in quest’ottica, il sintomo di quell’assenza di individualità (e di quella superficialità) che viene connotata, significativamente, in termini di cliché o stereotipo (2001, 136)”. Basta osservare, a titolo di esempio, la costruzione narrativa di serie ascrivibili senza ombra di dubbio al genere crime quali

Lucifer, The Mentalist, IZombie, Forever, Castle, White Collar, Person of Interest e Blindspot. I protagonisti di questi prodotti, pur nella diversità e nelle specificità della

caratterizzazione (in iZombie Olivia Moore è una zombie, in Forever Henry Morgan è un immortale, Lucifer dell’omonima serie è niente meno che il diavolo in persona, Neil Caffrey in White Collar è un abilissimo ladro e truffatore mentre Jane di Blindspot è un super-soldato di eccezionale bravura), ricoprono tutti lo stesso ruolo, quello di collaboratore eccentrico e geniale dell’altrimenti banale detective di turno. Inoltre, sono soggetti al medesimo processo di costruzione narrativa, quello di una serie serializzata in cui il filone crime occupa l’anthology plot e quello romance è invece oggetto della

running plot.

Lo scarso grado di individualità e profondità psicologica, conseguenza del fatto di avere la costruzione narrativa del “tipo”, porta il personaggio stereotipato a una caratterizzazione tematica basata essenzialmente sullo stereotipo. Steve Nearle, per l’appunto, definisce lo stereotipo “as a stable and repetitive structure of character traits” (1993 [1979], 41), ma designare che cosa sia uno stereotipo, considerando la ricchezza e la fluidità semantica del termine, non è cosa semplice, né tanto meno una questione che può essere scandagliata nel dettaglio in queste pagine.166 In modo abbastanza generico e intuitivo, uno stereotipo è un’immagine o un’idea particolarmente diffusa e tenacemente radicata in una società – anche se non fissata una volta per tutte – di un particolare tipo di persona, un gruppo sociale o una cosa. Per essere più specifici, seguendo le

166 Per un approfondimento cfr. Amossy, Ruth; Herschberg-Pierrot, Anne. Stéréotypes et clichés. Parigi, Nathan, 1997; Schweinitz, Jörg. “Stereotypes and the Narratological Analysis of Film Characters”. In: Eder, J., Jannidis, F. e Schneider, R. (a cura di), Characters in Fictional Worlds, cit., 2010, pp. 277-289.

argomentazioni di Dyer (e, indirettamente, quelle di Lippman) possiamo identificare alcune caratteristiche cardine. Lo stereotipo innanzitutto è un “ordering process”, un processo tramite cui gli individui appartenenti a una determinata società generalizzano e schematizzano situazioni, immagini e rappresentazioni di quella stessa società allo scopo di organizzare una moltitudine di contenuti. Lo stereotipo si presenta quindi come uno “shortcut”, cioè una forma di rappresentazione che condensa e cristallizza, in modo semplice, facilmente afferrabile e “trasportabile”, una grande quantità di informazioni, ivi comprese determinate connotazioni ideologiche e valori condivisi. Per mezzo dello stereotipo, un certo modello culturale, espresso da determinate marche testuali, si iperbolizza e diventa ricorrente colonizzando l’immaginario della società che lo ha creato. Per questo motivo è sempre stato visto come qualcosa di inevitabile (Dyer 1993) che, scrive Ruth Amossy, “does indeed testify to the omnipresence of models which are not simply changeable literary conventions, but global cultural forms in direct contact with the beliefs of a certain society” (1984, 689-690). Se questa capacità di sintesi dello stereotipo non è di per sé negative, il suo utilizzo è stato accompagnato da una “cattiva fama”, 167 quella che lo vede come la reiterazione di una rappresentazione falsata, semplicistica e ideologicamente compromessa. Barthes, per esempio, si riferiva allo stereotipo nei termini di una “parola ripetuta, al di fuori di ogni magia, di ogni entusiasmo, come se fosse naturale […] come se imitare non potesse essere più sentito come un’imitazione” (1975, 41-42), mentre Homi Bhabha lo considera, nel suo essere “an arrested, fixed form of representation” (2013, 175), un problema di rappresentazione. Il peccato di cui si macchierebbero questi personaggi è quindi quello di essere talmente convenzionali, semplificati e iperbolici nella mono-dimensionalità del loro carattere da risultare sostanzialmente irrealistici. A tal proposito, scrivono Robert Scholes e Robert Kellogg commentando il lavoro di Henry James, “Don

167 Come nota Dyer, lo stereotipo non nacque con una connotazione negativa. Quando Walter Lippman coniò il termine, tuttavia, era già chiaro come lo stereotipo fosse un qualcosa di ambiguo, al contempo necessario e fortemente limitato (e limitante) dal punto di vista ideologico. Scrive Lippman: “Nessuno schema di stereotipi è neutrale. Non è solo un modo per sostituire l’ordine alla grande, fiorente, ronzante confusione della realtà. Non è soltanto una scorciatoia. È tutto questo, e anche qualcos’altro. È la garanzia del rispetto di noi stessi; è la proiezione nel mondo del nostro senso, del nostro valore, della nostra posizione e dei nostri diritti. Perciò gli stereotipi sono fortemente carichi dei sentimenti che gli sono associati. Costituiscono la forza della nostra tradizione, e dietro le sue difese possiamo continuare a sentirci sicuri della posizione che occupiamo”. Cfr. Lippman, Walter. Public Opinion, 1922. trad. it L’opinione pubblica, Roma, Donizelli, 2004, p. 74.

Chisciotte non è un personaggio, come invece è un personaggio Isabel Archer […]. È

vivo ma non è reale. In Don Chisciotte c’è più mito e più fantasia che in Isabel Archer.

In lei c’è più mimesi” (1975 [1966], 203, corsivi aggiunti). Visto come colui che è vivo ma non reale, il confronto con una rappresentazione realistica e mimetica della realtà è sempre stato un punto debole del personaggio stereotipato, ma è particolarmente sentito in un regime rappresentativo come quello della serialità televisiva odierna, imperniato sulle equazioni “complessità = qualità” e “qualità= realismo” (Ndalianis 2004, Nelson 2007, Mittell 2015). Eppure la distanza che separa “la confortevole illusione realistica” associata a personaggi complessi e l’“irritazione” causata dallo stereotipo è assai relativa e meno ampia di quanto non si pensi (Amossy 1984, 689). Si tratta, in entrambi i casi, di personaggi costruiti a partire da modelli culturali preesistenti e codificati all’interno di una certa società, ma nei quali il processo di caratterizzazione e costruzione identitaria produce un risultato differente. Il personaggio complesso, sfruttando un’architettura identitaria composita e una caratterizzazione ricca e variegata, è in grado di scomporre gli schemi narrativi e socio-culturali preimpostati e di metterli in discussione. Il personaggio stereotipato, al contrario, è “vittima” della sua stessa semplicità identitaria e della convenzionalità della narrazione in cui è inserito, che lo impossibilitano a mettere in discussione così apertamente gli schemi. La serialità, tuttavia, fornisce a questi personaggi la possibilità di ribellarsi a un simile giogo: come sostiene Amossy (1991), esistono diversi gradi di intensità della stereotipia, e il personaggio stereotipato può andare in contro ad alcune forme di complessificazione a seconda del ruolo (da protagonista o da personaggio secondario) che ricopre nella narrazione seriale.