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CAPITOLO 2. FENOMENOLOGIA DEL PERSONAGGIO SERIALE TELEVISIVO

2.1. La sindrome di Pinocchio: il personaggio come figura

Torniamo per un momento a porre attenzione alla serie Westworld, concentrandoci in particolare sul personaggio di Maeve Millay. Come tutti i residenti, Meave sdoppia il suo percorso in due linee narrative, vivendo in due mondi narrativi embedded, uno dentro e l’altro (il parco Westworld dentro alla serie Westworld). Nel mondo diegetico del parco, infatti, Maeve è la pragmatica e disillusa tenutaria del bordello di Sweetwater, configurandosi così un personaggio-individuo integrato nel mondo finzionale creato dal testo. Al contempo, però, nel mondo diegetico della serie televisiva

Maeve è una residente, e perciò un personaggio-funzione costruito dall’assemblaggio di elementi narrativi (le trame che i narratori come Lee Sizemore hanno previsto per lei), figurativi (il suo corpo, assemblato e curato dai capaci tecnici del “bodyshop”) ed emotivi (frutto di script comportamentali che le sono stati “impiantati”). Nello sdoppiamento della narrazione su due piani diegetici, il caso di Maeve rende esplicite quelle due anime fondamentali – l’essere un individuo finzionale in uno storyworld e un costrutto testuale – che, abbiamo visto nel capitolo precedente, coesistono e cooperano in ogni personaggio. Ciò emerge chiaramente dal dialogo che Maeve intrattiene con Felix, un impiegato che lavora nel reparto di assemblaggio corpi del parco:

Maeve: Senti come me.

Felix: Siamo simili adesso, per molte cose. Con una grande differenza però. La potenza del processore che hai qui è superiore a quella nostra, con lo svantaggio di essere…

Maeve: Che cosa?

Felix Sotto il nostro controllo. Il loro controllo. Vi [gli autori delle linee narrative, ndr] possono cambiare a piacimento, farvi dimenticare tutto. […] puoi improvvisare un po’, ma gran parte di quello che dici è stato progettato di sopra, come il resto di te.60

Grazie all’aiuto di Felix, Maeve scopre di essere un “burattino che vive in una farsa”,61 la cui stessa esistenza è subordinata alle scelte dei “padroni che muovono i fili”. Ciononostante, più che a un semplice burattino Maeve assomiglia piuttosto a Pinocchio, “un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino vero” e che brama una vita vera e simil-umana nonostante fosse in realtà solo un assemblaggio di elementi, vivendo così la contraddizione di essere un oggetto animato ma non vivente. Nei personaggi delle serie televisive questa sorta di “sindrome di Pinocchio” è particolarmente evidente. Da una prospettiva extradiegetica, essi si presentano come figure del testo, ovvero ciò che viene costruito in base a regole compositive e di fabulazione che rispondono a esigenze testuali e alle specificità mediali. Bisogna però considerare anche che le serie televisive, grazie alla loro durata e alla loro capacità immersiva e metalettica

60 Maeve Millay e Felix Lutz , Westworld, 01x06, “L’antagonista”. 61 Maeve Millay, Westworld, 01x08, “Segni di cedimento”.

(assicurata dal fatto che si tratta di prodotti con una certa durata e la cui fruizione è dilatata nel tempo), riescono come pochi altri prodotti a far percepire i propri personaggi “come se” fossero “bambini veri”, e non solo dei burattini creati ad arte: da un’angolatura intradiegetica, il personaggio seriale televisivo si presenta come una

figura della storia, ovvero colui che vive la vicenda narrata nella trama, che agisce e

reagisce e che è percepito come se fosse vero.

Su questa “réalité duelle” (1992b, 64), come la definisce Vincent Jouve, in equilibrio tra la natura segnica del personaggio da un lato, e la sua natura illusionistica62 dall’altro, si sono scontrate come abbiamo visto in precedenza numerose scuole di pensiero. Nonostante queste zuffe, come ci ricorda Enrico Testa, e come Meave mette lucidamente in evidenza,

la categoria del personaggio è dunque sopravvissuta e ha attraversato indenne la fine del Novecento e tutte le sue aporie lasciandosi alle spalle antitesi e schematismi di comodo. Tra di essi, la tradizionale e, in verità, un po' stucchevole, opposizione di personaggio-individuo e personaggio-funzione (o di personaggio- persona e personaggio-segno). La quale non ha più, credo, ragion d'essere, partecipando, tale creatura […], di entrambe le nature (2009, 4).

Le domande che vengono alla mente rigurdando quindi il capire meglio che cosa sia un personaggio seriale televisivo e individuarne le sue qualità ed apparenze, i modi in cui esso si dà a noi e, di conseguenza, come descrivere, e quindi astrarre, schematizzare e concettualizzare queste entità senza incappare in quelle che Rimmon-Kenan chiama la Scilla del realismo e la Cariddi della semiotica.63

Un primo spunto interessante in tal senso ci viene fornito, ancora una volta, dalle riflessioni di Uri Margolin, che concepisce il personaggio come un “non-actual individual […] part of some non-actual state of affairs or possible world”. Lo studioso, nel definire il personaggio un individuo non attuale, mette in evidenza la funzionalità reciproca delle diverse nature del personaggio: da un lato esso è “the product of the

62 Per una lettura approfondita si veda il testo di Arrigo Stara, in cui lo studioso definisce i due principi soggiacenti alla doppia realtà del personaggio come, il primo, “principio della natura segnica del personaggio, vale a dire della sua non referenzialità; il secondo, principio della natura illusionistica del personaggio, ossia della sua non arbitrarietà” (Stara 2004, 23, corsivi originali).

63 Di parere identico è anche Roberta Pearson (2007), che scrive come “the confusion between semiotic construct and real seeming human beings is the paradox at the heart of the fictional character”.

discourse which posits or projects them and are essentially dependant on their textual constitutive conditions” (1995, 383); dall’altro, grazie al fatto che le narrazioni “are structured in such away as to create an illusion”, i personaggi “are reports about individual and domains of reference which […] have been in existence prior to these texts, separately from them, and independently of them” (ibidem). La definizione di Margolin – che trova eco in tutta la riflessione sulla semantica dei mondi possibili in cui i personaggi sono intesi come “quasi-persone” – riesce, ponendo l’accento sul personaggio nella sua accezione di individuo finzionale, a rendere conto di come esso si presenti nei panni di una persona (definita da un’identità specifica, da una fisionomia che le permette di differenziarsi dagli altri) ma che, in quanto finta, è fabbricata e costruita da certe componenti testuali e mediali determinate in base al contesto socio- culturale in cui si situa.

In tal senso, la già citata definizione di Fotis Jannidis è ancora maggiormente calzante e appropriata. Lo studioso tedesco considera il personaggio come “a text- or media -based figure in a storyworld”, intendendo il personaggio come una figura, un termine ombrello che, fin dalla sua origine latina, significa “struttura” e “conformazione”, ma contemporaneamente anche “aspetto”, “carattere”, “modo d’essere”, “apparizione” e “fantasma” (Bertetti 2013). Pensare il personaggio in termini di figura permette di racchiudere nel campo semantico di una parola le sue diverse anime, offrendoci così un primo punto saldo per organizzare le informazioni. Come osserva John Frow, il personaggio è “both a figure standing out from a ground”, e quindi un elemento che emerge “gestaltianamente”64 dallo sfondo narrativo (il testo), “and a person-shaped entity which is the subject of narrative action” (2014, 9). L’idea gestaltiana di forma torna utile nella nostra teoria perchè riesce a dar conto di questa doppia natura: essa, scrive Bertetti, “non si limita a riconoscere che il tutto è più della somma delle parti ma pone l’accento sull’organizzazione del tutto” (2013, 16). Questo principio di “dipendenza-dal-tutto” delle parti, così come lo definisce Bertetti (ibidem), è afficace

64 Come ricorda Bertetti citando Köhler, il termine Gestalt, spesso tradotto erroneamente come “forma”, racchiude in sè due significati: la connotazione di una forma e la sua foggia da un lato, una concreta unità per sè stessa che possiede una forma dall’altra (Bertetti 2013, 6). A tal proposito cfr. Anche Smith, Barry. “Gestalt theory: An essay in philosophy”. In: Smith, Barry. Foundations of Gestalt Theory, Vienna, Philosophia Verlag, 1988, pp. 11-81.

nel descrivere il personaggio, un fantasma dalle sembianze umane che dipende, per questa sua apparenza, dal suo essere un assemblaggio composto da elementi estetici sia narrativi che mediali, i quali gli conferiscono una certa identità, propria e riconoscibile, sia rispetto allo “sfondo” della storia sia in relazione alle altre figure. In quanto figura, il personaggio “takes the form of a semantic cluster, accumulating (progressively or discontinuously, coherently or incoherently) though the text” (Frow 2014, 24) anche se si presenta come una essere unitario. Le informazioni, stratificate in un cluster semantico, che il testo comunica costituiscono il materiale che dà origine e che conforma l’aspetto dei personaggi come “quasi-persone”, che per l’appunto, Jens Eder non esita a spiegare in termini di “communicatively constructed artifacts”(2010, 18), artefatti costruiti e comunicati da una qualche forma testuale e mediale. È da questa accumulazione che il personaggio acquista la propria individualità rispetto allo sfondo narrativo e agli altri personaggi, caratterizzandosi in modo specifico. Una volta che la figura “affiora” dal testo per mezzo di questo accumulo di informazioni, essa assume la

silhouette di una persona vera, dotata di un corpo, una mente e sentimenti. Ciò

ovviamente non significa che diventi una persona vera, ma semplicemente che ne sta

rappresentando una – o per meglio dire, che sta costruendo la propria identità a partire

dalla rappresentazione degli aspetti di una persona vera – e che come tale venga percepita dagli spettatori. 65 Così Frow continua la sua riflessione in merito:

Character is, in a certain respects, also the analogue of the ‘real’ persons, conforming more or less closely and more or less fully to the schemata that govern, in any particular society, what it means to be a person and to have a physical body, a moral character, a sense of self, and a capacity of action (ibidem).

Da questa prospettiva, i personaggi non sono solo figure “testuali” date dall’arrangiamento particolare di elementi narrativi e figurativi, ma anche persone finzionali (Margolin 1989, Eder 2010) simili a persone reali e integrate nell’universo diegetico. Esse divengono così figure della storia, dotate di un corpo, un aspetto e una vita interiore plasmati in conformità a modelli – che, in termini cognitivisti, potremmo

65 Basta pensare al grande “cognitive workout” – per usare un’espressione di Mittell (2015) – e alle energie spese dagli spettatori nell’intrattenere forme di relazioni parasociali con questi personaggi fittizi, come dimostrato dall’enorme fandom che questi prodotti riescono a innescare.

chiamare schemi e script – validi all’interno di un dato contento storicamente, socialmente e culturalmente determinato. In conformità alla sua natura bifronte, con una faccia rivolta al testo e l’altra rivolta alla storia, la figura del personaggio emerge, si conforma ed è plasmata da un testo, ma anche da un contesto.

2.2. Figure nel testo: le caratteristiche “testuali” del personaggio seriale