Atteggiamenti e valor
3. Identità nazionale e identità europea
3.1 L’identità nazionale
3.1.2 La nazione come comunità immaginata
Tra le identità collettive presenti negli essere umani, quella nazionale è spesso considerata come la più importante e la più inclusiva (Smith, 1992). Le altre identità collettive, come la classe sociale, il genere, la razza, la religione, possono avere alcune aree di convergenza e sovrapposizione con l’identità nazionale e possono influenzarne la direzione, ma raramente riescono a minarne le fondamenta. Alla base dell’identità nazionale, nelle tesi di Smith (1992), è presente una chiara consapevolezza del concetto di identità come somiglianza. I membri di un determinato gruppo, infatti, sentono di essere simili perché differiscono dai non-membri, da coloro cioè che sono al di fuori del gruppo di appartenenza (in questo caso gli stranieri).
Gli studi sull’identità nazionale rappresentano una delle maggiori aree di interesse nella scienza sociale. Il dibattito teorico si è articolato sulle modalità con cui concettualizzare e misurare questa identità (Dowley e Silver, 2000; Smith, 1991, 1992). Da tale dibattito, tuttavia, non sono ancora emerse caratteristiche empiriche e misurabili relative al sentirsi parte della propria
115
nazione. Il punto di partenza condiviso da tutti gli studi resta, comunque, l’inevitabile riferimento ai concetti di nazione, nazionalità e nazionalismo3.
Smith (1992) definisce la nazione come
“a named human population sharing historical territory, common memories and myths of origin, a mass, standardized public culture, a common economy and territorial mobility, and common legal rights and duties for all members of the collectivity” (ivi, p. 60).
Sulla base di questa definizione, Smith evidenzia alcune dimensioni sottese al concetto di nazione:
il collegamento territoriale di popolazioni caratterizzate da specifici elementi culturali nella loro “terra madre”;
la natura condivisa di miti dell’origine e di memorie storiche della comunità;
il comune legame con una cultura di massa e standardizzata;
una comune divisione territoriale del lavoro, con la possibilità per tutti i membri di muoversi e di essere proprietari di risorse nel proprio Paese;
il possesso di un sistema unificato di comuni diritti e doveri stabiliti da leggi ed istituzioni condivise.
Il riferimento alla presenza di istituzioni e di un sistema legislativo collettivo e riconosciuto da tutti è alla base della fondamentale distinzione tra Stato e nazione. Il primo rappresenta il concetto legale e istituzionale e si riferisce a istituzioni pubbliche autonome, diverse le une dalle altre, che esercitano le loro funzioni all’interno di un territorio delimitato. L’idea di nazione, al
3Il nazionalismo è caratterizzato da un senso di superiorità e da un bisogno di dominio nei confronti di
116
contrario, è fondamentalmente sociale e fa riferimento al legame culturale e politico che unisce in una stessa comunità tutti coloro i quali condividono gli stessi miti, memorie, simboli e tradizioni. Nonostante esista una certa sovrapposizione tra i concetti di Stato e di nazione causata dalla presenza di un territorio e di una cittadinanza comuni, l’idea di nazione definisce e legittima la politica in termini culturali, perché la nazione diviene una comunità politica solo in quanto racchiude una comune cultura ed una comune volontà.
Benedict Anderson, nel suo celebre studio (1983, 1991)4, prende le mosse
dalla complessità insita nella definizione di questi concetti per sviluppare la sua riflessione sulle comunità immaginate. In primo luogo egli differenzia le nozioni di nazionalismo e nazione, mettendo in evidenza i tre paradossi su cui si sono più volte interrogati i teorici del nazionalismo senza trovare risposte univoche:
1. l’oggettiva modernità delle nazioni agli occhi degli storici contro la loro soggettiva antichità agli occhi dei nazionalisti;
2. l’esplicita universalità della nazionalità come concetto socio-culturale (secondo cui, nel mondo moderno, ognuno può e dovrebbe avere una nazionalità, così come ognuno appartiene a un certo genere, femminile o maschile) contro l’irrimediabile particolarità delle sue manifestazioni concrete;
3. la forza politica dei nazionalismi contro la loro povertà e persino incoerenza filosofica.
Sulla base di questi presupposti, Anderson (1991) propone la seguente definizione di nazione: “si tratta di una comunità immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana” (ivi, p.25).
4 Il testo è stato pubblicato per la prima volta nel 1983 e successivamente ampliato con l’aggiunta di nuovi capitoli per l’edizione del 1991.
117
È una comunità immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né li sentiranno mai parlare. Eppure nella mente di ognuno di loro vive l’immagine del loro essere comunità5. Questa immagine, condivisa da
tutti i membri di una nazione, non rispecchia l’intera storia di un popolo ma è frutto di diverse operazioni di selezione avvenute nel corso del tempo. Anderson a questo proposito cita Renan, che così si riferisce all’ “immaginarsi” delle comunità nella sua celebre conferenza “che cos’è una nazione?” tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882:
“ora l’essenza di una nazione è che tutti gli individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose. Nessun cittadino francese sa se è un Burgundo, Alano, Taifale, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud. In Francia non ci sono dieci famiglie in grado di fornire la prova di un’origine franca, e inoltre una tale prova sarebbe fondamentalmente insufficiente, a causa dei mille incroci sconosciuti che possono fuorviare tutte le teorie dei genealogisti” (ivi, p.8)6.
Per Anderson è immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale, caratterizzato dalla conoscenza reciproca di tutti i suoi membri7.
L’esempio che riporta a sostegno di questa tesi si riferisce all’isola di Giava: gli abitanti dei villaggi di quest’isola hanno sempre saputo di essere in qualche modo legati a individui che non hanno mai incontrato, ma un tempo questi
5 Anderson mutua questa definizione da Seton-Watson (“Tutto quello che posso dire è che una nazione esiste quando un numero significativo di persone all’interno di una comunità si considera come costituente una nazione, o agisce come se ne avesse costituita una”) e sostituisce il termine “si considera” con “si immagina”. Cfr. Seton-Watson, (1977). Nation States. An inquiry into the origins of nations and the politcs of nationalism. Boulder, Colorado: West-view Press.
6 Cfr. Renan, E. (1882). Che cos’è una nazione? Conferenza alla Sorbona. In Renan, E. (2004) Che cos’è una nazione? e
altri saggi, Roma: Donzelli editore.
7 Le comunità devono essere distinte non dalla loro falsità o genuinità ma dallo stile in cui esse sono
immaginate. Su questo aspetto Anderson si distanzia dalle teorie di Gellner che, nell’affermare una tesi simile alla sua, sostiene che il nazionalismo non sia il risveglio delle nazioni all’autoconsapevolezza ma che piuttosto inventi le nazioni dove esse non esistono. Con questo Gellner implicitamente intende che possano esistere comunità vere in contrapposizione alle nazioni “inventate” dai nazionalisti. Cfr. Gellner, E. (1983). Nations
118
legami erano immaginati in ambito particolaristico, come reti di stirpe e clientela estendibili in maniera indefinita.
La nazione è immaginata come “limitata” in quanto, nonostante possa essere caratterizzata da una grande estensione territoriale, presenta comunque dei confini, finiti anche se elastici, oltre i quali si estendono altre nazioni. Nessun Paese, infatti, viene concepito come confinante con l’umanità.
La nazione è immaginata come “sovrana” perché nasce sulla base delle filosofie illuministe e sui principi della rivoluzione francese che hanno distrutto la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino. Sviluppandosi in un momento della storia del genere umano in cui anche i più rigidi sostenitori di ogni religione universale si confrontavano inevitabilmente con l’evidente pluralità delle diverse credenze, le nazioni sognano di essere libere e semmai di dipendere solo da Dio. La garanzia e l’emblema di tale libertà è, secondo Anderson, lo stato nazionale.
Infine, la nazione è immaginata come una “comunità” in quanto, malgrado ineguaglianze e sfruttamenti che di fatto possono essere presenti, essa viene sempre concepita in termini di “profondo, orizzontale cameratismo” (ivi, p.26). È stata questa fraternità, infatti, ad aver consentito negli ultimi due secoli a milioni di persone non tanto di uccidere, quanto di morire, in nome di immaginazioni così limitate8.
8 La possibilità stessa di immaginare una nazione si presenta storicamente, secondo Anderson, solo nel momento in cui tre fondamentali concetti culturali, tutti molto antichi, persero la loro presa assiomatica nelle menti degli uomini. Il primo di questi fu l’idea che un particolare linguaggio sacro offrisse un accesso privilegiato alla verità ontologica, proprio perché parte inseparabile della verità stessa. La seconda fu la credenza che la società fosse organizzata naturalmente intorno a “centri superiori”, cioè a monarchi, vale a dire persone diverse dagli uomini comuni, che governavano in nome di una sorta di delega divina. Le lealtà degli uomini erano quindi necessariamente gerarchiche e centripete in quanto il regnante, come i testi sacri, era un nodo di accesso all’essere e parte di esso. La terza era una concezione del tempo in cui cosmologia e storia erano indistinguibili, e le origini del mondo e degli uomini essenzialmente identiche. Queste idee, combinate assieme, radicarono le vite degli uomini nella natura stessa delle cose, offrendo determinati significati alle diverse fatalità dell’esistenza (quali ad esempio la morte, la servitù) ed offrendo, per vare via, salvezza da esse.
Il lento e irregolare declino di queste certezze interconnesse, prima in Europa occidentale e poi, in seguito ai mutamenti economici, alle scoperte scientifiche e allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, in altre parti del mondo, operò una drastica divisone tra cosmologia e storia. Si cominciò allora a ricercare un nuovo e significativo legame che tenesse insieme fraternità, tempo e potere. Tale ricerca divenne particolarmente fruttuosa grazie alla convergenza tra capitalismo e le tecnologie a stampa e creò la possibilità di una nuova forma di comunità immaginata, che nella sua morfologia essenziale pose le basi delle nazioni moderne.
119
La misura in cui queste immaginazioni individuali presentino un nucleo comune o coerente non è tuttavia del tutto chiara nella teoria di Anderson. Egli si limita in questo senso solo a esporre alcune pratiche e tecniche che sono state realizzate per favorire questo senso di immaginazione collettiva: eventi simbolici nella storia, identificati per essere condivisi come significativi per la nazione; simboli iconici della nazionalità (dalle mappe alle monete, dai francobolli alle compagnie aeree); processi che incoraggiano l’assimilazione e la partecipazione nella attività nazionali, quali la coscrizione militare, la partecipazione ai censimenti e alle feste nazionali, l’educazione alla lingua, letteratura e cultura nazionali.
Nonostante ciò, la teoria delle comunità immaginate ha influenzato molti degli studi sull’identità nazionale che sono stati realizzati negli ultimi anni.
Benhabib (2007), ad esempio, ha sviluppato l’assunto andersoniano secondo cui i cittadini sentono di appartenere alla stessa comunità politica e si identificano con i simboli che la legittimano, interpretando però la loro appartenenza in maniera diversa. Tale interpretazione si realizza all’interno di una determinata comunità attraverso differenti manifestazioni delle identità. Queste manifestazioni, anche se teoricamente in contraddizione, non comportano alcuna contrapposizione formale e non mettono in discussione il senso di appartenenza nazionale. L’esempio proposto da Benhabib è a questo proposito emblematico: un liberale del Massachusetts e un cristiano della cosiddetta “cintura della Bibbia” (Bible Belt)9 rappresentano due opposte
modalità di interpretare l’identità nazionale statunitense senza contrapposizioni. Entrambi, infatti, si sentono veri americani e non percepiscono il bisogno di riconciliare le loro diverse interpretazioni sul significato di appartenere agli Stati Uniti d’America.
Melissa Williams (2007), a partire dalle tesi andersoniane, si è invece occupata della formazione delle comunità politiche. Secondo Willams, tali
9 Con il termine informale di “cintura della Bibbia” si indica una zona degli Stati Uniti centrali e sud-orientali in cui vivono persone che professano un rigido protestantesimo evangelico.
120
comunità per essere considerate vitali dai propri concittadini devono essere caratterizzate in primo luogo da un senso di destino condiviso. La sua affermazione centrale è che gli individui vivono in relazioni di mutua dipendenza che emergono dal passato e si estendono nel futuro. Ciò che trasforma le relazioni basate su di uno stesso destino in comunità politiche è rappresentato dal fatto che queste relazioni sono, almeno potenzialmente, oggetto di una deliberazione condivisa su di un bene condiviso – incluse, ad esempio la giustizia e la legittimità. Le comunità basate sulla condivisone di uno stesso destino (“communities of shared fate” ivi, p.227) definiscono strutture di relazioni che possono o non possono essere scelte, valorizzate, modificate. Ciò che importa è che i loro membri credano che possano esistere aree di reciproca giustificazione con gli stessi termini. Secondo Williams, dunque, anche quando le persone condividono e adottano gli stessi simboli nazionali, esse possono interpretarle nello spirito andersoniano finché queste differenze non siano intese come una minaccia reciproca. La cittadinanza, concepita così come l’appartenenza a una comunità di un destino condiviso, consiste quindi nell’azione per governare le relazioni di interdipendenza per la salvaguardia del bene comune. Nel tempo, il senso generale di uno stesso destino può generare forti identità condivise, attaccamento e mutuo affetto tra i cittadini, vale a dire quegli elementi necessari alla società per funzionare e per essere percepita come legittima.