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Il quadro concettuale di riferimento di molte delle recenti ricerche psicosociali sui cambiamenti dell’identità è rappresentato dalla teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1978; Tajfel e Turner, 1979; 1986).

17 Tale sfida è presente nell’ampio dibattito sulla differentiated citiziship. Le basi teoriche di questa visione alternativa di cittadinanza sono da ricercare nella consapevolezza della rilevanza politica delle differenze (culturali, di genere, di classe ecc.) che giustifica un trattamento differenziale e nel riconoscimento di diritti speciali per garantire l’uguaglianza. Kymlicka e Norman distinguono a questo proposito tre diverse tipologie di diritti: gli special representation rights (riferiti a gruppi sociali svantaggiati); i multicultural rigths (per gli immigrati e i gruppi religiosi) e i self-government rights (per le minoranze etniche) (cfr. Kymlicka, W., e Norman, W. (1994).

Return of the Citizen: A Survey of Recent Work on Citizenship Theory. Ethics, 104 (2), 352–381). Tale tesi è in

contrasto con quella ritenuta ormai superata del modello universale o unitario (universalist or unitary model) in cui la cittadinanza, sulla base delle teorie di Marshall, viene rappresentata come uno status legale attraverso cui un insieme fisso e unitario di diritti civili, politici e sociali sono elargiti ai membri della comunità politica (Cfr. Williams, M. S. (1998). Voice, Trust, and Memory. Marginalized Groups and the Failings of Liberal Representation. Princeton: Princeton University Press; Young, I. M. (1989). Polity and Group Difference: A Critique of the Ideal of Universal Citizenship, Ethics, 99, 250–274).

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Secondo tale teoria, due sono i principi su cui si regge l’identificazione del sé: il principio di continuità e il principio di discontinuità. Il primo regola l’identità nel senso che le persone tendono a costruire un’immagine di sé coerente e costante, che si mantiene stabile nonostante il passare del tempo e il mutare delle circostanze. Il secondo, invece, si riferisce alla necessità di percepire se stessi come unici e diversi (e quindi distinti) dagli altri. Sulla base di questi presupposti, l’identità di una persona presenta due dimensioni: una dimensione personale, legata alle caratteristiche peculiari e distintive del soggetto inteso come individuo originale, e una dimensione sociale, relativa alle caratteristiche che il soggetto acquisisce appartenendo ad una determinata realtà e agendo in un contesto complesso, organizzato secondo diverse gerarchie di categorie (Tajfel, 1978; Tajfel e Turner, 1979; 1986)18. La

distinzione tra identità personale e sociale, non deve però essere interpretata come rigida differenza tra due alternative che si escludono a vicenda. È difficile, infatti, considerare un’identità personale che non risenta dell’appartenenza a una realtà sociale. È necessario, quindi, considerare le due identità in un continuum, lungo il quale l’individuo percepisce il proprio sé con accezioni di volta in volta più marcate sulla sfera personale o di gruppo19.

Sulla base di queste considerazioni, una persona non possiede un’unica identità sociale, ma ne ha tante quanti sono i gruppi di cui fa parte.

18 L’interazione sociale dell’individuo può essere considerata sia dal punto di vista della dimensione interpersonale (in cui entrano in gioco le identità personali di ognuno quali ad esempio le caratteristiche idiosincratiche, i tratti di personalità ecc.) sia dal punto di vista della dimensione intergruppi (in cui sono più rilevanti le identità sociali, ovvero il far parte di due gruppi diversi).

19 In questo modo, quando per il soggetto è più rilevante la sua identità sociale, egli si sente totalmente coinvolto nel gruppo a cui appartiene, cosicché i suoi comportamenti, i suoi pensieri, le sue emozioni dipendono in misura preponderante dalla sua identificazione con il gruppo. Quando, invece, per il soggetto è più importante la sua identità personale, egli riflette sulla propria storia particolare e i suoi comportamenti. In questo caso i suoi pensieri e le sue emozioni risultano connotati da esigenze di autonomia.

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Secondo Tajfel, infatti,

“l’identità sociale è quella parte dell’immagine di sé di un individuo che deriva dalla sua consapevolezza di appartenere ad un gruppo sociale (o a più gruppi), unita al valore e al significato emotivo attribuito a tale appartenenza” (Tajfel, 1981, trad. it. 1995, pag. 314).

Secondo questa definizione, il concetto di identità sociale appare composto da elementi cognitivi, valutativi e affettivi. Al di là del mero riconoscimento dell’appartenenza ad un gruppo o a una categoria sociale, quindi, l’identificazione implica che il gruppo e le sue caratteristiche costitutive diventino parte integrante del concetto di sé del singolo individuo, con le relative emozioni e valori.

La definizione di identità sociale elaborata da Tajfel necessita tuttavia di un chiarimento: essa può rivelarsi più o meno obbligata e, per alcuni gruppi, non è scelta, bensì ascritta (ad esempio non si può scegliere se appartenere o meno al gruppo delle donne o degli uomini oppure a quello dei ventenni o dei sessantenni). Ne deriva che è possibile appartenere oggettivamente a un gruppo senza identificarsi con esso, costruendo quindi l’immagine di sé senza includervi il fatto di appartenere a quel gruppo. Al contrario, ci si può identificare con un gruppo di cui oggettivamente non si fa parte, ma in cui si desidera entrare (Catellani e Milesi, 1998).

Proprio perché l’identificazione implica un legame, una lealtà e un senso del dovere al gruppo e al benessere del gruppo, l’identità sociale presenta anche implicazioni comportamentali. La caratteristica di questa componente è quella di rendere l’identificazione sociale una potente risorsa per l’azione collettiva e l’accettazione delle istituzioni. Le identità sociali, quindi, si distinguono dagli altri aspetti dell’identità individuale e dall’idea di sé perché riflettono

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rappresentazioni condivise di una personalità collettiva (Herrmann e Brewer, 2004).

Per la ricostruzione del quadro teorico della presente ricerca, oltre alle dimensioni personali e sociali dell’identità, è necessario mettere in evidenza altri due elementi di rilievo, in parziale contrasto tra loro: il principio della distintività positiva (Tajfel, 1978) e quello della categorizzazione di sé (Turner, 1985).

Secondo il principio della distintività positiva, ciò che spinge i soggetti ad identificarsi con un gruppo è lo scopo di mantenere una concreta immagine di sé, derivante in primo luogo dalla costruzione di un’immagine positiva del gruppo di cui si è membri (ingroup). Lo scopo di preservare o ottenere una specificità positiva per il gruppo a cui si appartiene, e di conseguenza anche per se stessi in quanto membri di quel gruppo, sarebbe all’origine dei tentativi di modificare o mantenere determinate relazioni tra i gruppi. La ricerca di un’identità sociale positiva, dunque, spiegherebbe quei fenomeni tipici degli intergruppi quali la discriminazione nei confronti di gruppi estranei (outgroup) e il favoritismo per il proprio gruppo. In quest’ottica, per ottenere un’identità sociale positiva, l’ingroup viene costruito come diverso e superiore rispetto all’outgroup. Questa dinamica è definita da Tajfel come bisogno di distintività positiva20.

Va tuttavia precisato che il perseguimento di un’identità sociale attraverso la distintività positiva del proprio gruppo non è l’unica motivazione che spinge i soggetti ad identificarsi con esso. Può accadere, infatti, che si sia orgogliosi di appartenere a un insieme di individui qualificato negativamente. In questo caso, quindi, ci si identifica con un gruppo la cui appartenenza non porta

20 Il tipo di spiegazione proposto dalla teoria di Tajfel per i fenomeni intergruppi è più radicale rispetto a quello avanzato dalla precedente teoria del conflitto realistico, secondo cui, la rivalità intergruppi sarebbe riconducibile alla competizione attorno a risorse scarse e ambite da entrambi i gruppi (cfr. Sherif, 1966).

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contributi significativi alla costruzione di un’immagine di sé positiva (Abrams, 1990).

È infine necessario evidenziare come le relazioni intergruppi, presenti nella teoria dell’identità sociale, possano essere ricomprese all’interno del processo generale di categorizzazione sociale. Il passo preliminare perché avvenga l’identificazione con altri individui, infatti, è collocare se stessi all’interno di quel gruppo, vale a dire costruire categorie sociali corrispondenti al gruppo a cui si appartiene e agli altri gruppi di cui non si è membri.

La categorizzazione del sé di Turner, invece, è un processo cognitivo basilare, applicato non solo a se stessi ma a tutti gli stimoli che ci circondano: essa semplifica la quantità virtualmente illimitata di informazioni che riceviamo e la struttura, appunto, in categorie significative. La categorizzazione è dunque intrinsecamente comparativa, perché la costruzione mentale di un gruppo e l’inserimento di sé in quel gruppo comporta inevitabilmente la simultanea costruzione di un gruppo esterno, diverso dal proprio a cui non si appartiene21.

Tuttavia, mentre la teoria dell’identità sociale pone come principio fondamentale dell’identità quello della distintività positiva, la teoria della categorizzazione del sé ipotizza alla base dell’identità sociale il principio semplicemente della distintività. Come è stato appena messo in evidenza, per Tajfel i soggetti sono motivati ad assumere un’identità sociale in base alle conseguenze positive per l’immagine di sé che derivano dal sentirsi membri di un gruppo. Secondo Turner, invece, i soggetti sono spinti a categorizzare se stessi nei termini di un certo gruppo nella misura in cui ne traggono un’immagine di sé essenzialmente nitida, ma non necessariamente connotata in senso positivo. Quando un soggetto si autocategorizza come membro di un gruppo, avviene una sorta di depersonalizzazione: egli si vede meno come

21 Per esempio, dire che si è di destra implica distinguersi dal gruppo di persone di sinistra, così come dire che si è moderati comporta differenziarsi dagli estremisti ecc.

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individuo irripetibile e insostituibile, diverso da ogni altra persona, e più, invece, come simile a tutti i membri appartenenti allo stesso gruppo, come rappresentante intercambiabile di una categoria sociale condivisa con molti altri e, allo stesso tempo, diverso dai membri di altri gruppi. Il fenomeno della depersonalizzazione porta quindi il soggetto ad applicare a sé gli stereotipi che riguardano l’ingroup. Così il passaggio dalla categorizzazione di sé come individuo alla categorizzazione di sé come soggetto appartenente a un gruppo spiega numerosi fenomeni: la coesione e la cooperazione all’interno del gruppo, il conformismo con i comportamenti dell’ingroup, la percezione della sua omogeneità, la differenziazione rispetto all’outgroup fino alla sua discriminazione. Quindi, mentre la teoria dell’identità sociale risulta particolarmente adatta a spiegare fenomeni intergruppi, la teoria della categorizzazione di sé rende conto non solo dei processi intergruppi, ma anche di quelli intragruppo22 (Catellani e Milesi, 1998).

Delanty e Rumford (2005), sulla base della teoria dell’identità sociale, ma anche su studi di natura sociologica e antropologica, individuano gli aspetti fondamentali, relativi alle identità, che devono essere tenuti in considerazione nel momento in cui si affronta una ricerca su questo tema:

1) l’identità si sviluppa solo in relazione a una azione sociale ed è processuale o costruita. Le identità sono create nell’azione e non esprimono una coscienza od essenza di base, ma rappresentano la comprensione e il riconoscimento di sé da parte dell’attore sociale. Non esiste dunque un’identità chiaramente definita e ben articolata alla base delle singole persone, dei movimenti e neppure di intere società perché l’identità

22 Le teorie di Tajfel e Turner sono state messe in discussione, tra gli altri, da Widdicombe e Wooffitt (1995) che accusano i due studiosi inglesi di minimizzare l’influenza della società nella costruzione delle identità, teorizzando l’individuo come se avesse una esistenza pre-sociale, precedente ed esterna all’appartenenza al gruppo.

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dell’attore sociale è soggetta ai cambiamenti che intercorrono nel tempo (cfr. Jenkins, 1996; Laclau, 1994; Melucci, 1995);

2) le identità hanno una dimensione narrativa: possono essere considerate come le storie che ognuno racconta su se stesso per dare una continuità alla propria esistenza. Questi “racconti” sono alla base della memoria ed esprimono l’aspetto pubblico dell’identità. Per questa ragione essa non fa semplicemente riferimento a determinate caratteristiche (come il carattere nazionale ad esempio), ma ad una modalità discorsiva di comprensione di sé (cfr. Somers, 1994; Potter, 1996);

3) l’identità si costruisce attraverso elementi simbolici che scaturiscono dalla relazione tra sé e l’altro. In questo senso, l’identità è basata sulla differenza e quindi esiste in un contesto relazionale (cfr. Castells, 1996; Eder et al., 2002; Friese, 2002; Giddens, 1991; Wagner, 2001);

4) gli individui non possiedono un’unica identità, ma un repertorio di identità multiple, caratterizzate da diversi gradi di tensione tra loro. Esse sono spesso distinte ma raramente si eliminano a vicenda. I confini tra le identità multiple che ogni soggetto possiede sono fluidi perché esse sono costruzioni, indipendentemente dal tipo di identità di cui ci si sta occupando (cfr. Calhoun, 1994; Friedmann, 1994; Hall e Du Gay, 1996). Questi quattro aspetti mettono in evidenza la natura “costruita” dell’identità, che non deve essere considerata come un’entità trascendente o precedente alla realtà sociale. L’identità non è un’idea o un dato culturale, ma una modalità di comprensione di sé.

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