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La permanenza di profili discriminatori nel nostro ordinamento

Affinché un ordinamento possa intervenire in favore di una determinata categoria di persone non bastano le affermazioni di principio, ma occorre una presa di coscienza effettiva dell’esistenza di una situazione di disuguaglianza, fonte di discriminazione

71 BARBERA M., Le discriminazioni basate sulla disabilità, cit., 77 ss.; TUCCI G., La

discriminazione contro il disabile: i rimedi giuridici, cit., 7; NUNIN R., Recepite le direttive comunitarie in materia di lotte contro le discriminazioni, in Lav. giur., 2003, 7, 905 ss.; PALLADINI A., L’attuazione delle direttive comunitarie contro le discriminazioni di razza, etnia, religione o convinzione personale, handicap, età e orientamento, in Mass. giur. lav., 2004, 1, 39 ss.; CALAFÀ L., Le direttive antidiscriminatorie di “nuova generazione”: il recepimento italiano, in Studium Iuris, 2004, 873 ss.

72 In Europa, i primi interventi a favore dei portatori di handicap per la promozione delle pari

opportunità risalgono agli anni Novanta del secolo scorso. In particolare, il progetto “Helios”, assunto con Decisione del Consiglio 93/136/CEE e la Risoluzione del 20 dicembre 1996 n. 97/C/12/01, seguiti dalle modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1998 ai Trattati istitutivi della Comunità europea, finalizzati a imporre alle istituzioni europee di effettuare interventi sistematici che tenessero conto delle esigenze dei portatori di handicap. Il principio di non discriminazione in ragione della disabilità è contenuto all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di Nizza del 7 dicembre 2000, la quale, a seguito del Tratto di Lisbona, costituisce diritto dell’Unione europea a tutti gli effetti, nonché nell’art. 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Inoltre, l’Unione europea ha aderito alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui art. 14 enuncia il divieto di discriminazione nei confronti di tutti gli individui. Infine, con la Decisione n.48/2010 del Consiglio del 26 novembre 2009, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità è entrata a far parte del diritto dell’Unione Europea, v. VENCHIARUTTI A., Sistemi multilivello delle fonti e divieto di discriminazione per disabilità in ambito europeo, cit., 409 ss.

all’interno della società74.

Dall’affermazione dei principi costituzionali di uguaglianza e di non discriminazione, nei confronti di tutti i cittadini, all’emanazione del D.lgs. n. 216 del 2003, con cui il legislatore ha previsto uno specifico divieto di discriminazione in ragione dell’handicap in materia di occupazione e condizioni di lavoro, sono passati ben cinquantacinque anni, oltre mezzo secolo75. In questo arco di tempo, tuttavia, l’ordinamento non si è del tutto disinteressato del problema dell’occupazione delle persone con disabilità; infatti, la prima legge sul collocamento obbligatorio risale al 1968 e il secondo intervento legislativo è avvenuto nel 1999, quindi prima in ordine di tempo rispetto alla affermazione del principio di non discriminazione avvenuta solo nel 2003.

Verrebbe da chiedersi se questo percorso evolutivo, che si potrebbe definire a contrario, non abbia in qualche modo inciso sulla effettività delle discipline del collocamento lavorativo dei disabili. In effetti, il ragionamento logico vorrebbe che prima si combatta contro il pregiudizio sociale, mediante l’attuazione di opportuni rimedi diretti a sanzionare ogni forma di discriminazione, e che in seguito o contestualmente si proceda ad adottare politiche attive per favorire l’inserimento del disabile nella vita sociale e, nello specifico, nei luoghi di lavoro.

La realizzazione dell’inclusione e dell’integrazione delle persone disabili nella società e nel mercato del lavoro necessita e presuppone che la stessa società, guidata e influenzata dalle scelte e dagli interventi legislativi, sia in grado di accettare la persona disabile senza considerarla un mero peso economico; in caso contrario, l’inserimento del disabile continuerebbe ad essere visto dal datore di lavoro come un onere, un peso da cui cercare di sottrarsi.

L’affermazione tardiva del divieto di discriminazione per ragioni legate all’handicap nel

74 Con la nascita dello Stato sociale, quest’ultimo deve far fronte a tanti bisogni frammentati e

diversificati. Per questa ragione, si è assistito alla emanazione di leggi sempre più raramente riferibili alla generalità dei cittadini e più spesso riguardanti le particolari condizioni personali e sociali dei destinatari. Il principio di uguaglianza sostanziale è da intendersi quale limite al potere, sia pubblico che privato, e quale divieto di discriminazioni arbitrarie, in base al criterio logico della ragionevolezza. Dalla affermazione del principio di uguaglianza deriva in via immediata la necessità di tutelare le differenze presenti nella realtà sociale. Affinché le situazioni giuridiche soggettive siano protette alla tutela costituzionale si deve affiancare quella ordinaria, v. BALLESTRERO M.V., Riflessioni in tema di eguaglianza e discriminazioni, in AA.VV., Studi in onore di Giorgio Ghezzi, Cedam, Padova, 2005, I, 127 ss.; BARBERA M., Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1991; VENTURA L., Il principio di eguaglianza nel diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 1984

75 BARBERA M., Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio

comunitario, in AA.VV., Studi in onore di Giorgio Ghezzi, cit., 231 ss.;ARRIGO G., Uguaglianza, parità e non discriminazione nel diritto dell’Unione europea, parte I, in Riv. giur. lav., 2016, 2, 457 ss. e, in particolare ID., Uguaglianza, parità e non discriminazione nel diritto dell’Unione europea, parte II, in Riv. giur. lav., 2016, 4, 895 ss.

nostro ordinamento ha avuto così il ruolo, oltre che di consentire l’adeguamento alla disciplina europea, di colmare, in un certo senso, il vuoto di tutela, lasciato dagli interventi legislativi sul collocamento lavorativo, nei confronti delle persone con disabilità meno gravi, affermando che in ogni caso tutti i soggetti disabili hanno il diritto a non essere discriminati per ragioni attinenti alle loro condizioni di salute e personali. In mancanza di un generale divieto di discriminazione, di fatto, il sistema normativo avvallava una sorta discriminazione all’interno della categoria delle persone con disabilità tra coloro che risultavano tutelati dalla disciplina del collocamento e coloro che ne erano esclusi in quanto meno gravi.

Inoltre, tale contesto determinava un problema di compatibilità con l’ordinamento costituzionale, il quale all’art. 38, comma 3, Cost., sancisce il diritto all’avviamento professionale per tutti gli inabili e i minorati, imponendo la tutela e la garanzia di un diritto al lavoro per tutti i disabili indipendentemente dalla gravità della menomazione da cui sono afflitti.

Se il sistema del collocamento così come definito nei suoi tratti essenziali deriva dal necessario contemperamento tra interessi di rango costituzionale, ovvero tra il riconoscimento del diritto al lavoro degli inabili e dei minorati di cui all’art. 38, comma 3 Cost., e il principio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41, comma 1, Cost., e se il parziale sacrificio di entrambi gli interessi in gioco è necessario per garantire un equilibrio del sistema, la circostanza che le persone con una disabilità meno grave non avessero alcuna specifica tutela rispetto alla generalità dei lavoratori, di fatto, poteva creare una discriminazione nell’accesso al mondo del lavoro nella misura in cui il datore potendo valutare liberamente i candidati a ricoprire un posto di lavoro sarebbe stato tentato di preferire un lavoratore c.d. normodotato rispetto a un disabile seppure non grave.

In questo senso, l’affermazione del divieto di discriminazione per ragioni legate alla disabilità ad opera del D.lgs. n. 216 del 2003, consente la garanzia di una tutela anche per coloro che seppure siano afflitti da una qualche minorazione non possono beneficiare del collocamento mirato, in quanto esclusi dal campo di applicazione della legge n. 68 del 1999.

Tuttavia, occorre considerare che l’offerta di una tutela antidiscriminatoria per via giudiziaria rischia di non avere l’efficacia pratica auspicata, in quanto permane una difficoltà di fondo del soggetto disabile nel dimostrare che l’esclusione sia stata determinata dalle sue condizioni di salute e personali, essendo necessaria un’indagine che coinvolge la sfera di decisione e di libera autodeterminazione del datore di lavoro.

Un problema di discriminazione, in realtà, si pone anche con riguardo ai disabili c.d. gravi. La riforma del 2015 conferma la scelta di non introdurre limiti massimi (relativi al grado di capacità lavorativa residua) alla possibilità di iscriversi alle liste per il collocamento obbligatorio e tale sistema, pertanto, è configurato in modo tale che anche un persona con una disabilità molto grave può, in linea teorica, aspirare a un’occupazione76. Tuttavia, di fatto, ogni volta che l’ufficio competente e/o il datore di lavoro si trovano a dover individuare il candidato più adeguato per un posto di lavoro, la scelta tende a ricadere sull’individuo con maggiore capacità lavorativa rispetto agli altri, cosicché una parte di persone disabili con poca capacità lavorativa residua di fatto rischia non trovare una effettiva collocazione lavorativa nel mercato del lavoro.

Un sistema di questo tipo comporta una inevitabile contraddizione in termini e una conseguente grave violazione della dignità della persona. Infatti, se la competente commissione medica rileva una capacità lavorativa residua molto bassa o addirittura pari a zero, nulla vieta alla persona disabile di chiedere l’iscrizione nelle liste per il collocamento al lavoro e, a questo punto, come può l’ufficio competente compilare una scheda dettagliata del candidato da inserire in graduatoria non essendoci attività funzionali da poter valutare e apprezzare? Eppure come potrebbe rifiutarsi di farlo? Peraltro, occorre chiedersi che senso abbia una legge finalizzata all’inserimento lavorativo delle persone disabili applicabile in astratto anche a individui privi di una residua capacità lavorativa. Una legge obiettiva dovrebbe porsi come fine la realizzazione del massimo livello occupazionale possibile e per questo sarebbe forse più opportuno abbassare le soglie minime al fine di consentire anche ai disabili meno gravi di usufruire dei vantaggi del sistema di collocamento obbligatorio, anziché creare false aspettative in soggetti che in realtà non possono aspirare a altro se non a programmi di riabilitazione, istruzione e formazione qualora vi sia la possibilità di recuperare alcune funzionalità, o a misure assistenziali nei casi più gravi. Singolare appare la scelta del legislatore di consentire ad altri soggetti sani seppure svantaggiati, quali quelli indicati all’art. 18, l. n. 68 del 1999, di beneficiare della disciplina del collocamento obbligatorio e di escludere invece dal suo campo di applicazione persone che una qualche disabilità la possiedono seppure in misura lieve77.

Le ragioni della eliminazione e conseguente mancata reintroduzione di una soglia massima del grado di disabilità per accedere al mondo del lavoro potrebbero risiedere nella necessità di evitare un contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale di cui

76 NICOLINI C.A., I soggetti protetti, in CINELLI M.-SANDULLI P. (a cura di), cit., 93, 101. 77 V. l’art. 18, comma 2, l. n. 68 del 1999.

all’art. 3, comma 2, Cost.. Tuttavia, quest’ultimo non vieta trattamenti differenziati qualora siano giustificati dalla presenza di elementi di diversità; esso è, per opinione oramai consolidata, interpretato nel senso che bisogna trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso situazioni diverse. Inoltre, anche i disabili meno gravi sono esclusi dal campo di applicazione della normativa sul collocamento.

Ci si potrebbe allora chiedere se la ragione possa risiedere nella necessità di non violare un altro principio costituzionale, quello del diritto al lavoro delle persone disabili di cui all’art. 38, comma 3, Cost.. Un tale inquadramento pone un ostacolo alla reintroduzione di un limite massimo del grado di disabilità, in quanto ogni previsione in tal senso colliderebbe in modo inevitabile con il principio per cui tutti gli inabili e i minorati hanno un diritto a poter trovare e mantenere un occupazione a parità con gli altri.

Il problema potrebbe essere superato solo da una lettura combinata con l’art. 38, comma 1, Cost. il quale disponendo che ogni cittadino inabile al lavoro ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale si pone come norma di chiusura. Nella norma costituzionale è espressa la consapevolezza che per quanto la Repubblica possa sforzarsi di prevedere un sistema di avviamento professionale il più possibile inclusivo, ben vi potranno essere persone affette da una disabilità tanto grave da renderle inabili al lavoro e, dunque, incapaci di svolgere un’attività lavorativa, e perciò meritevoli di ricevere l’assistenza sociale di cui abbisognano per la propria sussistenza.

In questa ottica l’introduzione di una soglia massima di invalidità per l’iscrizione nelle liste del collocamento non sarebbe incostituzionale, anzi risulterebbe implicita nella lettura complessiva del sistema delineato dall’art. 38 Cost..

Certo rimarrebbe il problema di come determinarla. A tal fine non può bastare una valutazione fondata in via esclusiva su criteri medico-sanitari perché si tratterebbe di una scelta anche, se non soprattutto, di carattere politico e sociale, in grado, se non attentamente valutata, di determinare un problema di discriminazione.

Una tale valutazione non potrebbe essere effettuata prima che l’ordinamento si doti, in attuazione dell’art. 1, D.lgs., n. 151 del 2015, di un meccanismo di accertamento della disabilità secondo il modello c.d. bio-psico-sociale e di una disciplina sugli “accomodamenti ragionevoli” che il datore di lavoro è tenuto ad adottare al fine di consentire alle persone con disabilità di svolgere al meglio una prestazione lavorativa. Infatti, la capacità lavorativa di un soggetto non può non essere valutata anche in relazione all’ambiente di lavoro, e gli accomodamenti a quest’ultimo sono di certo in grado di incidere sulla possibilità o meno di esperire l’attività lavorativa.

poco conto se si considera che con il D.lgs. n. 151 del 2015 è stato modificato l’art. 7, l. n. 68 del 1999, introducendo quale modalità di assunzione da parte dei datori di lavoro il sistema di chiamata c.d. nominativa, che consente di scegliere il lavoratore da collocare nella propria organizzazione lavorativa.

In quest’ottica, la combinazione di entrambi gli elementi, ovvero la possibilità di scegliere il lavoratore da assumere, da una parte, e l’obbligo di adottare gli accomodamenti necessari al posto di lavoro, dall’altra, potrebbe accentuale una scelta sempre più orientata verso i lavoratori più capaci e, quindi meno gravi, anche solo al fine di evitare di dover modificare i locali o l’organizzazione del lavoro, con un risparmio in termini di risorse economiche.

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