Capitolo 3 Aglauro e l'Invidia nel secondo libro delle Metamorfosi
3.9 L'invidia, Minerva, Aglauro
3.9.4 Le sofferenze di Aglauro
Le immagini, plasmate dall'Invidia, della sorella felice, costituiscono, dunque, la base e l'origine delle sofferenze di Aglauro. La punizione vera e propria cui viene sottoposta la Cecropide si divide sostanzialmente in due fasi; Inizialmente la fanciulla viene colta e morsa da un dolore occulto, si geme e si strugge:
Cecropis occulto mordetur et anxia nocte, anxia luce gemit lentaque miserimma tabe
liquitur, ut glacies incerto saucia sole, felicisque bonis non lenius uritur Herses
810 quam cum spinosis ignis subponitur herbis
quae neque dant flammas, lenique tepore cremantur782.
Un valido parallelo, analizzato in particolare da Charles Segal783, per le modalità d'azione d'Invidia è quello della Fame nell'ottavo libro delle Metamorfosi. Ambedue questi esseri semi-allegorici sono immaginati come spiriti maligni che, giungendo di notte, fanno stillare il veleno nelle vene e negli organi più interni delle vittime. L a Fame, esattamente come l'Invidia, soffia se stessa dentro Erisittone (geminis
amplectitur ulnis/ seque viro inspirat)784, procedendo dalle parte più esterne fino dentro alle vene (faucesque et pectus et ora/ adflat, et in vacuis spargit ieiunia
venis)785. Proprio come la consunzione che strazia e tormenta Aglauro si nutre della visione della fortuna della sorella, così Erisittone si sveglia con la malattia che progressivamente si diffonde attraverso il corpo ed arriva ad immaginare nel sogno il cibo (petit ille dapes sub imagine somni786). Ambedue sono colti da una
pazzia e devastazione interiore: l'equivalente contemporaneo di questo orrore è il
lugubre potere del vampiro, che rimane così affascinante nella cultura popolare e nel
782 Ov. Met. 806-811.
783 C. Segal, intr. in A. Barchiesi, Ovidio Metamorfosi, Milano 2005. 784 Ov. Met. 10. 818-819.
785 Ov. Met. 10. 819.820. 786 Ov. Met. 10. 824.
cinema: in entrambi i generi una forma mostruosa posseduta da una forza soprannaturale, prende il controllo di un corpo addormentato infondendogli nelle vene dei veleni che agiscono sia sulla mente che nel corpo787.
La prima attestazione letteraria della consunzione prodotta dall'invidia è fornita da Menandro788, anche se la descrizione plutarchea della figura emaciata presente nel ritratto di Apelle “la calunnia” testimonia come l'idea di un processo di consunzione legato al livore fosse presente e diffuso già in precedenza789.
Il processo di scioglimento interiore al quale sono soggetti gli invidiosi veniva generalmente concepito come un divoramento interno, spesso accostato e paragonato alla corruzione cui la ruggine sottopone il ferro ed i vermi consumano il legno790. I verbi maggiormente utilizzati, in greco, per indicare il processo erano τήκειν,791 αὐαίνειν792, μαραίνειν793; il sostantivo τηκεδών , come indicato da Dickie e Dunbanin794, compare per la prima volta in un mosaico di Cefallonia, e verrà poi impiegato da Gregorio di Nissa795 e Giovanni Crisostomo796. Il latino, per indicare il medesimo processo, ricorre ai già osservati tabesco, incoativo di tabeo ed omoradicale di τήκω, ma anche a macies e macresco797.
Questo tarlo interiore comportava, naturalmente, anche conseguenze a livello fisico, in particolare nel volto e negli occhi: Gregorio di Nissa introduce, tra gli aspetti fisici tipici di una persona rosa dall'invidia, occhi sanguinanti, secchi, pallidi, fermi e impassibili, incavati, avvizziti, le sopracciglia cadute e le ossa sporgenti dalla carne798.
787 C.Segal. op.cit., pp. LXIII-LXIV.
788 Fr. 538 Körte σὲ δὲ τό κάκιστον τῶν κακῶν πάντων φθόνος φθισικὸν πεποίηκε καὶ ποιήσει καὶ
ποιεῖ.
789 Cfr. Luc. Cal. 5 Ἡγεῖται δὲ ἀνὴρ ὠχρὸς καὶ ἄμορφος, δεδορκὼς καὶ ἐοικὼς τοῖς ἐκ νόσου μακρᾶς
κατεσκληκόσι. τοῦτον οὖν εἶναι τὸν Φθόνον ἄν τις εἰκάσειε.
790 Joh. Chrys. In 1 Cor. Hom. 31. 4 (PG 61. 264) καὶ γὰρ ἄβατος ὁ οὐρανὸς τῷ ταύτην ἔχοντι τὴν
τηκεδόνα·καὶ πρὸ τοῦ οὐρανοῦ δὲ καὶ ὁ παρὼν βίος ἀβίωτος. Οὐδὲ γὰρ οὔτω ξύλον καὶ ἔριον σῆς ἐγκαθῆμενος καὶ σκώληξ διατρώγειν εἴωθεν, ὡς ὁ τῆς βασκανίας πυρετὸς αὐτὰ κατεσθίει τὰ ὀστᾶ τῶν βασκαινόντων.
791 Cfr., e.g., Theocr. 5.12 sgg; 6.26 sgg; Anth. Pal. 11. 192; Anth. Plan. 16. 265, 266; Lib. Or. 25. 20,
Decl. 30. 46
792 Cfr., e.g., Anth. Pal. 6. 116 793 Cfr., e.g., Liban. Decl. 30. 40
794 K. Dunbanin-M.Dickie, op.cit., pp. 15-16. 795 Vit. Moys. (PG 44. 409 c)
796 In 1 Cor. Hom. 31. 4 (PG 61. 264)
797 Cfr. Hor. Ep. 1.2.57-59; Ov. Met. 2.775; Anth. Lat. 636.11.
798 Beat. 7 ταῦτα τοῦ διὰ φθόνου ἐκτετηκότος πολλάκις γίνεται, ὀφθαλμοὶ ξηροὶ, κατεσκληκόσι τοῖς
L'oratore Libanio, per provare al consiglio dei Cinquecento le sue sofferenze dettate da invidia, chiede loro di osservare i suoi occhi iniettati di sangue, le sue mandibole pendule, il suo sfinimento, il suo procedere e muoversi come un fantasma799. Una tra le immagini più icastiche e vivide della sofferenza consuntiva dell'invidia è presente nell'Anthologia Latina, dove il Livor viene presentato come un veleno tabificum che agisce consumando le midolla e lasciando intatte le ossa, suggendo tutto il sangue dagli arti800.
Un altro celebre paradigma della sofferenza invidiosa offerto dal passo delle
Metamorfosi è quello dello φθόνος che morde le sue vittime. Aglauro, infatti, è
morsa (mordetur)801 da un dolore occulto.
I morsi interiori dell'invidia hanno permesso, in alcune fonti, l'avvicinamento dell'immagine della passione invidiosa con determinati animali selvaggi, in particolar modo rapaci ed uccelli di caccia. Petronio, in un frammento del Satyricon, accosta il luxus ed il livor ad un avvoltoio802. Nella poesia dell'Anthologia citata in precedenza803 il livor viene invece accostato all'uccello di Tizio, che lacera e consuma la mente804. Anche quando si parla dei morsi dell'invidia, tuttavia, l'immagine che se ne ricava non è tanto quella di ferite inflitte violentemente, ma di un movimento molto più profondo, meno intenso ma più continuo, accostabile piuttosto al rosicchiamento, cui rimanda anche la similitudine, abbastanza comune, con la figura del verme che, appunto, morde, rosicchiandolo, il legno. La stessa sfumatura presentano, secondo Dunbanin e Dickie, i verbi δάκνειν, διεσθίειν, κατεσθίειν, διατρώγειν805.
Le sofferenze di Aglauro non finiscono qui, però. L'immediata conseguenza dell'Invidia è quella di spingere Aglauro a non permettere a Mercurio l'accesso alla casa, per non farlo avvicinare ad Herse (denique in adverso venientem in limine
sedit7 exclusura deum806). Mercurio cerca di calmarla, la supplica; Aglauro, tuttavia, 799 Τίς οὕτω μακρὰ νόσος τὸν ἀσθενοῦντα διέθηκεν ὡς ἡ τοῦ γείτονος ἐμὲ περιουσία; οὐχ ὁρᾶτε
τὴν ῥῖνα ὡς ὀξεῖα, οὐ τὸ ὄμμα ὡς ὕφαιμον, οὐ τὰς γνάθους ὡς συμπεπτώκασιν, οὐχ ὡς διερρύηκα πᾶς, οὐχ ὡς εἴδωλον περιέρχομαι.
800 Anth. Lat. 636. 1-3 livor, tabificum malis venenum,7 intactis vorat ossibus medullas/ et totum
bibit artubus cruorem.
801 Ov. Met. 2. 806.
802 Petr. Sat. Frg. 25 Müller. 803 Cfr. Supra n. 780.
804 636.21-22 est ales Tityi usque vultur intus/ qui semper lacerat comestque mentem. 805 Α.Dunbabin- M. Dicjkie, op. cit., p. 15.
rimane irremovibile: non si muoverà dalla soglia, se prima non avrà cacciato il dio (cui blandimenta precesque/ verbaque iactanti mitissima <<Desine>> dixit./ <<Hinc
ego me non sum nisi te motura repulso>>)807. Proprio queste parole segnano, di fatto, la sua condanna (<<stemus >> ait <<pacto>> velox Cyllenius <<isto!>>808.
La figlia di Cecrope sembra essere,in fondo, nient'altro che l'ennesima vittima dell'usus vocis errato e sciagurato che colpisce gli altri protagonisti di questa sezione narrativa. Come sottolineato da Monella, la principessa ateniese, per presentare un fatto come impossibile, pone una condizione vincolante: l'evento -A
(che Aglauro non si muova) è collegato a -B (che non sia ancora riuscita a cacciare Mercurio). Il tutto è rivolto a dichiarare l'impossibilità di quest'ultima eventualità, ovvero del fallimento della resistenza passiva” della fanciulla, in quanto anche -A è presentato, ed inteso, come un'iperbole, o, se vogliamo, come un (..) Che sia un caso o no, il dio del linguaggio astuto interviene per la seconda volta nello spazio di poco più di cento versi a sovvertire la strategia comunicativa dell'avversario, traslando ciò che era detto figuratamente sul piano più concreto del linguaggio809.
Eppure, nel caso di Aglauro l'invidia continua a giocare un ruolo primario anche nel processo stesso della metamorfosi: la sua pietrificazione, infatti, risponde a caratteristiche specifiche. Gli altri mutamenti litomorfici, descritti nelle
Metamorfosi sono o semplicemente indicati in maniera sintetica, come nel caso di
Batto810, oppure, laddove il poeta voglia sottolineare un aspetto o un particolare del processo, è piuttosto sull'immediatezza e sull'istantaneità del fenomeno che si concentra la sua attenzione. Non a caso le litomorfosi e le trasformazioni in statue si strutturano spesso, nel testo ovidiano, su un contrasto tra una forma durativa come l'imperfetto, o il participio (presente, ma anche futuro, nella forma della perifrastica attiva) che indicano l'azione che stava compiendo il soggetto nel momento in cui è stato bloccato ed immobilizzato, ed il perfetto, che, con la sua
807 Ov. Met. 2. 815-817. 808 Ov. Met. 2.818.
809 P. Monella, Deriguitque malis (Ov. Met. 6.603). Litomorfosi e antropomorfosi nell'epos ovidiano, in L. Landolfi-P. Monella, Ars adeo latet arte sua. Riflessioni sull'intertestualità ovidiana, Palermo 2003, pp. 73-74.
puntualità aoristica811, denota il momento stesso del mutamento812. Giampiero Rosati ha definito questa tecnica di descrizione del processo litomorfico come
gusto ovidiano della scena improvvisamente immobilizzata, bloccata nella sua plastica immediatezza813.
Nel caso della trasformazione di Aglauro, invece, l'aspetto continuo-durativo non viene utilizzato unicamente per denotare l'azione che stava compiendo il personaggio nel momento in cui è stato trasformato (at illi/ surgere conanti)814, bensì per descrivere anche il procedere del mutamento stesso. Da atto subitaneo, cristallizzazione improvvisa ed immediata, la litomorfosi diventa, dunque, nel caso di Aglauro, processo. Il freddo della pietra invade, infatti, dapprima le ginocchia (sed genuum iunctura riget), poi si spande fino alla punta delle dita (frigusque per
ungues/labitur815); le vene impallidiscono, senza più sangue (pallent amisso
sanguine venae)816.
L'immagine è quella del cancro che si propaga serpeggiando ed aggredisce le parti sane (utque malum late solet inmedicabile cancer/ serpere et inlaesas vitiatis addere
partes)817, fino a che il gelo mortale, a poco a poco, le entra nel petto e le occlude le vie del respiro (sic letalis hiems paulatim in pectora venit/ vitalesque vias et
respiramina clausit)818. L'utilizzo di verbi come flectitur, labitur, serpere, la prevalenza di spondei, la presenza di termini metricamente “pesanti” come
inmedicabile e respiramina contribuiscono significativamente a creare un generale
senso di lentezza alla metamorfosi819.
Il processo descritto è, ancora una volta, assimilabile a quello prodotto dall'Invidia, la quale, dunque, si cela, come per sua natura, dietro le pieghe di una Metamorfosi
811 Cfr. A. Traina, Propedeutica al latino universitario Bologna 2007, pp. 181. Per i valori del
perfectum cfr. pp. 212-218.
812 Cfr. Ov. Met. 4.552-553 saltumque datura moveri/ haud usquam potuit scopuloque adfixa
cohaesit; Met. 5.182-183 utque manu iaculum fatale parabat/mittere, in hoc haesit, signum de marmore, gestu., 185-186 pectora Lyncidae gladio petit, inque petendo/ dextera deriguit nec citra mota nec ultra est; 205 dum stupet Astyages, naturam traxit eandem, 232-233 Tum quoque conanti sua vertere lumina cervix/ deriguit.
813 G. Rosati, Illusione e spettacolo.., op.cit., p. 147. 814 Ov. Met. 2.819-820.
815 Ov. Met. 2.823-824. 816 Ov. Met. 2. 824. 817 Ov. Met. 2.825-826. 818 Ov. Met. 2.827-828.
819 V.Chinnici, Volti d'invidia.., op.cit., p. 115, definisce la presentazione della metamorfosi di Aglauro, anche in relazione al mutamento di Batto, una descrizione al rallentatore.
che, pertanto, trova nell'astuzia di Mercurio e nelle parole incaute di Aglauro solo le concause del proprio insorgere. Il soffocamento, non a caso, è l'altra principale penitenza e sofferenza cui sono sottoposti gli invidiosi già nell'immaginario antico; ancora Dunbanbin e Dickie presentano importanti testimonianze a riguardo: testimonianze che, di fatto, permettono una suddivisione del processo di soffocamento in due insiemi: uno, costituito da fonti che vedono nel soffocamento un atto volontario dell'invidioso, che, non riuscendo a sopportare le fortune altrui, pone fine alla sua vita impiccandosi. Così, ad esempio, troviamo che il successo di Marziale aveva prodotto un astio così forte nel suo rivale Charino, che questi, impazzito e fuori di sé, livet, rumpitur, furit, plorat/et quaerit altos unde pendeat
ramos820. Di un altro invidioso di Marziale, Procillo, ci viene presentata la volontà di
impiccarsi, dopo aver visto una candida fanciulla rivolgere le sue attenzioni proprio all'epigrammista821:
Icastica anche la presentazione del Livor fornita da Silio Italico: Scipione Africano, scendendo agli inferi per parlare con lo spirito del padre incontra, tra i mali che affliggono l'umanità, proprio il Livore colto nell'atto dello strozzarsi: hinc agens
utraque manu sua guttura Livor822.
Ma il soffocamento invidioso, oltre che come auto-impiccagione, poteva configurarsi anche come “strangolamento emotivo”. L'invidiosus, infatti, non poteva dar sfogo compiutamente al proprio sentimento, non poteva, in virtù della natura segreta ed occulta della passione stessa, farlo esplodere.
L'atto dello strozzarsi, dunque, si configurava come vera e propria espressione dell'impotenza dell'invidioso. L'oratore della Declamatio 30 di Libanio ammette, davanti al Consiglio, che lui ed il suo vicino avevano spesso provato un senso di soffocamento dinnanzi alla ricchezza altrui823. Galeno parla del soffocamento invidioso di coloro che non erano riusciti a confutare le sue teorie824. In una iscrizione apotropaica di origine cristiana, rinvenuta a Dokimeion in Frigia, l'invidioso veniva scacciato ed allontanato, con la minaccia che si sarebbe soffocato
820 Mart. 8.61.1-2. 821 Mart. 1.115.6. 822 Sil. 13. 584. 823 Lib. 30.18
in virtù della sua stessa malizia825. In un altra iscrizione, in questo caso latina, l'invidioso, alla vista dello splendore dei bagni di Sullechtum in Tunisia, viene ritratto prostrato a terra, con il fiato corto, come sottolineato dal participio del verbo anhelare, “respirare a fatica”826.
La pietrificazione, inoltre, compare, come sottolineato da Brillante, come effetto della vista dei Telchini, demoni tradizionalmente associati all'invidia. Il loro sguardo, come quello di Atena e della Gorgone, era in grado di spaventare e pietrificare all'istante. L'oggetto della loro visione perdeva progressivamente sensibilità, fino ad irrigidirsi, nel gelo della morte. Il verbo che meglio rendeva questo processo era, per il greco, πήγνυμι, per il latino torpeo827.
La pietrificazione si ricollegava, per la mancanza di sensibilità, la fissità del volto, la mancanza di respiro, per il passaggio dalla flessibilità, dal calore del corpo alla freddezza cadaverica ad una vera e propria condizione di morte.
L'occhio invidioso, in questo caso, provoca una sospensione delle funzioni vitali negli organismi viventi. Questa caratteristica e peculiarità dei Telchini, dettata dal loro sguardo invidioso, permette, sempre secondo Brillante, la loro identificazione come inventori dell'arte828. Aglauro, così come le vittime dello sguardo pietrificante, viene privata, da Mercurio ma ancor prima dall'Invidia, di alcune fondamentali qualità, come l'agilità delle membra ed il calore corporeo, ma si trasforma, al contempo, in un'opera d'arte che, nel rapporto di mimesi arte-natura, ricalca fedelmente il modello naturale: è infatti lo stesso oggetto naturale, divenuto immagine. Ben diversa la potenza di Eros nella storia di Pigmalione, che costituisce l'esatto opposto rispetto alla vicenda di Aglauro. Nella vicenda di Pigmalione, infatti, Afrodite attribuisce all'immagine i tratti dell'essere vivente, l'opera d'arte arriva addirittura ad innalzarsi al livello del modello829. L'invidia, con il concomitante intervento di Mercurio, esattamente come avviene per lo sguardo dei Telchini, può agire solo alla maniera opposta, formando un'immagine sì perfetta,
825 Cfr. P. Perdrizet, <<BullCorrHell>>, 24 (1990), 292.
826 A. Beschaouch, <<Rend. Acc. Linc>>. 23 (1968) ,p. 61 en perfecta cito baiaru(m) grata voluptas/
undantesque fluunt aq(uae) saxi de rupe sub ima./ nisibus hic nostris prostratus libor anhelat./ quisquis amat fratrum veniat mecumq(que) latetur.
827 Cfr. C. Brillante, op.cit., p. 24. 828 C.Brillante, op.cit., pp. 33-42. 829 Cfr. Ov. Met. 10. 243-297.
proprio perché è l'oggetto di mimesi cristallizzato nella sua immagine esteriore, ma morta, priva di respiro e soffio vitale.
Nell'ultimo verso dedicato alla descrizione della pietrificazione di Aglauro Ovidio rileva anche una particolarità cromatica di Aglauro-statua: la pietra in cui era stata mutata non era bianca; la sua mente, infatti, l'ha resa scura (nec lapis albus erat:
sua mens infecerat illa830). Questa notazione si inserisce in una delle caratteristiche
principali delle metamorfosi ovidiane. Nelle Metamorfosi, infatti, è stata riscontrata una precisa logica che regola sviluppo e conclusione delle singole storie, logica in base alla quale i mutamenti di stato e forma dei vari personaggi devono mantenere qualche tratto comune con lo stato e condizione antecedente alla metamorfosi. In questo senso la trasformazione cui i protagonisti vanno incontro deve apparire in qualche modo come l'esito più naturale e coerente con il loro carattere, il comportamento abituale, i desideri e le aspirazioni che li animano. In questo ambito non fa alcuna vera difficoltà includere anche le trasformazioni subite più o meno ingiustamente, o quelle comunque non richieste esplicitamente, che conservano una certa coerenza e congruità con lo stato antecedente di chi ne è vittima831. L'episodio di Aglauro sembrerebbe, di primo acchito, mostrare un buon esempio di questo fenomeno: la statua in cui era stata mutata la Cecropide, infettata dal tarlo dell'invidia, non poteva conservare la purezza del candido marmo. La continuità tra fase pre e post metamorfica viene sottolineata dalla ripresa del verbo inficere (inficerat, v. 832), che richiama l'imperativo infice rivolto all'Invidia da Minerva (v.784) e dall'ambiguità dell'illam finale, che può riferirsi sia alla fanciulla che alla lapis.
A differenza però, di altre storie delle Metamorfosi, come quella di Licaone/lupo o di Anassarete/roccia, in cui effettivamente il mutamento diventa proiezione e rappresentazione morfologica, formale, esteriore di stati d'animo o caratteristiche proprie, stabili, radicate dei personaggi832, o come quella di Niobe, nella quale la pietrificazione morfologica si accosta in piena sintonia, anche da un punto di vista
830 Ov. Met. 2.832.
831 P. Esposito, I segnali delle metamorfosi, in L.Landolfi, P.Monella, Ars adeo latet arte sua, op.cit.,, p.13.
832 Cfr. Ov. Met. 1.236-239 in villos abeunt vestes, in crura lacerti:/ fit lupus, et veteris servat vestigia
formae;/ canities eadem est, eadem violentia vultus,/ idem oculi lucent, eadem feritatis imago est.;
Ov. Met. 14.757-758 hoc quoque non potuit, paulatimque occupat artos,/ quod fuit in duro iam
linguistico833, con pietrificazione emotiva della donna alla vista dei cadaveri dei figli, la metamorfosi di Aglauro è, in qualche modo, ambigua: se è vero, infatti, che il risultato finale, una pietra scura, si inserisce in una linea di continuità con la figura di Aglauro infetta dal tarlo e dal veleno dell'invidia, è anche vero, tuttavia, che il processo si struttura in due fasi che originano da due cause distinte: nel caso di Aglauro, infatti, la metamorfosi in pietra scaturisce, come visto, direttamente dalla provocazione a Mercurio e dalla reazione del dio. Come indicato dalla Romani, tuttavia, la pietrificazione pare essere la risposta pavloviana a quel sentimento
funesto e dilagante: come se l'invidia e la pietra dovessero andare a braccetto: non potessero stare l'una senza l'altra834. Ovidio avrebbe potuto presentare la
trasformazione di Aglauro in fonte o in qualche altra entità liquida, visto che le conseguenze del veleno con cui era stata infettata dall'Invidia avevano provocato una consunzione ed uno scioglimento interiore835.
Egli, tuttavia, presentando e descrivendo il processo litomorfico, accosta la storia di Aglauro a quella di Batto, riprendendo il tema principale dell'usus vocis corrotto e distorto, senza che questo possa impedire di vedere, anche nella litomorfosi, l'azione dell'invidia. Ovidio, al contrario, sottolinea come sia la litomorfosi stessa, sorta da conseguenze derivanti dall'utilizzo poco accorto del linguaggio, a subire, corrompendosi cromaticamente, l'azione di degradamento dell'invidia, demone e veleno in grado di colpire ed avvelenare, dunque, non solo gli uomini, ma anche i loro cambiamenti di forma, provocando, di fatto, una metamorfosi (cromatica, proprio come quella del corvo836) della loro metamorfosi.
833 Cfr. E.Pianezzola, Modelli retorici e forma narrativa, Bologna 1999, pp. 29-42. Lo studioso italiano ha sottolineato, a proposito dell'episodio di Niobe straziata dinnanzi ai cadaveri dei figli, il doppio livello semantico del perfetto deriguit (Ov. Met. 6.303). Il significato del verbo, infatti, varrebbe sia nel senso proprio di irrigidirsi fisicamente (per il freddo, ad esempio) sia in quello, traslato e figurato, di irrigidirsi per la paura, il dolore, etc... Ovidio riprenderebbe, nel passo citato, il significato metaforico, caricandolo anche del significato proprio che resta temporaneamente in ombra, ma che si preciserà nell'episodio della pietrificazione fisica e concreta di Niobe, Cfr., per una analisi delle teorie di Pianezzola, Paolo Monella, Deriguitque
malis .., op.cit.,, pp. 59-79.
834 S. Romani, Ragazze pietrose (Ad. Ov. Met. II 708-805), <<AOFL>>, 7 (2012),p. 50.
835 Cfr. Ov. Met. 2. 807-811 lentaque miserrima tabe/ liquitur, ut glacies incerto saucia sole,/
felcisque bonis non lenius uritur Herses,/ quam cum spinosis ignis subponitur herbis,/ quae neque dant flammas, lenique tepore cremantur. Cfr. Met. 5. 425 sgg, 632 sgg.; 7.380 sg.; 9. 649 sgg.; 15.
547 sgg.
Questo procedimento può assurgere a paradigma, a mio modo di vedere, dello sviluppo complessivo dell'intera sequenza narrativa: se è vero, infatti, come indicato dal narratore primario, che il tema di collegamento tra le singole vicende della sequenza è rappresentato dall'utilizzo della voce e del linguaggio, è vero, però, al contempo, che, nelle vicende dei protagonisti principali della sequenza stessa (il corvo, la cornacchia, Aglauro) la presenza dell'astio invidioso, anche laddove non chiaramente esplicitato, fa comunque sentire il suo nefasto influsso,