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La presentazione dell'episodio

Capitolo 3 Aglauro e l'Invidia nel secondo libro delle Metamorfosi

3.1 La presentazione dell'episodio

Possiamo riprendere, a questo punto, il filo della narrazione dantesca che avevamo interrotto al primo capitolo per cominciare ad analizzare la figura di Aglauro. Vedremo come la descrizione ovidiana dell'intero episodio che vede coinvolta la Cecropide aiuterà non solo a delineare altri importanti aspetti della concezione romana dell'invidia, come la sua connessione con la vista, o la descrizione particolareggiata delle sofferenze della fanciulla, che ricalca gli stilemi classici della sofferenza degli invidiosi nel mondo antico, ma permetterà, al contempo, una conferma della polisemia insita nel termine, con slittamenti dal sentimento di invidia a quello di gelosia ed all'indignazione.

Il quattordicesimo canto del Purgatorio è dominato, pressapoco interamente, dalle figure di Guido del Duca e Ranieri da Calboli. I primi 129 versi del canto sono infatti dedicati al colloquio, incentrato su tematiche politiche e sociali, tra i due nobili e Dante. Solo a partire dal verso 130, quando Dante e Virgilio sono ormai rimasti soli, il poeta introduce gli esempi di invidia punita, i quali vengono pronunciati a voce altissima, gridati.

Dante presenta due esempi, tratti dalle sue due principali fonti: la Bibbia e le

Metamorfosi di Ovidio. Il primo esempio, quello derivante dal testo biblico, è

costituito dalla vicenda di Caino che, per invidia, uccise il fratello.

La sua vicenda rappresenta, di fatto, l'estrema degradazione a cui può spingere il risentimento invidioso. Caino, infatti, uccise direttamente, con le sue stesse mani, il fratello, colpevole, ai suoi occhi malati, di godere delle grazie di Dio.

Terribile il gesto da lui compiuto, terribile la condizione in cui viene presentato da Dante: a causa dell’orribile delitto da lui commesso chiunque potrà farsi esegutore del suo castigo. La sua punizione consiste nella attesa perenne della punizione stessa. Diversa, ma in parte simile, la figura di Aglauro: simile, perché, anche in

questo caso, l’episodio citato da Dante si inserisce, nella fonte di pertinenza, all’interno di un contesto intimo, familiare, domestico: l’invidia di Aglauro riguarda, infatti, la sorella Erse. Comune ad entrambe le vicende, inoltre, è l’oggetto suscitatore d’invidia, cioè il rapporto stretto tra Dio, nel monoteismo cristiano, un dio (Hermes), nel politeismo pagano, ed un essere mortale (rispettivamente Abele ed Erse).

Mentre, però, la punizione di Caino si snoda su due piani temporali distinti, in quanto la punizione presente si concretizza nell’attesa della punizione futura, la punizione di Aglauro viene descritta nel suo essersi compiuta, nel suo essersi già realizzata. Nel testo ovidiano sarà possibile notare un processo punitivo, riguardante appunto Aglauro, che si snoderà in due fasi diverse, laddove il processo litomorfico verrà a manifestarsi come conseguenza estrema, ultima anche sul piano temporale, di un iter degradante e corruttivo già precedentemente iniziato e descritto. La pietrificazione di Aglauro, che in Dante appare nella sua puntualità, come atto compiuto e realizzato (divenni), è infatti in Ovidio processo ed azione ampiamente descritta nel suo insinuarsi, formarsi e plasmarsi. Questo aspetto incoativo, tratto che caratterizza per altro, molti (ma non tutti) processi metamorfici all’interno dell’opera ovidiana, si carica però, nell’episodio di Aglauro, di una complessità maggiore, inserendosi, completandolo al contempo, in un altro processo, un’altra metamorfosi potremmo dire, che interessa la figlia di Cecrope: quello, vale a dire, innestato dall’insorgere dell’invidia, l’invidia personificata, nei precordi della giovane ateniese. Questo procedimento pare essere dettato, oltre che da esigenze narrative, anche dalla particolare natura dell’invidia, che, a differenza di altre passioni forti presentate nelle Metamorfosi, come l’ira, ma anche come l’amore, appare meno violenta, meno esplosiva, ma più continua, un sentimento strisciante che si diffonde e pervade l’intera figura di Aglauro, devastandola sia interiormente che all’esterno, nella sua figura, nella sua persona, nei suoi stessi tratti somatici.

Ovidio ha dunque trovato, nella particolare fenomenologia dell’invidia, nel suo tipico manifestarsi e diffondersi a poco a poco all’interno dell’animo e del corpo, nel suo modificare progessivamente ed inesorabilmente gesti, atti, azioni e pensieri, un’intrigante materia di analisi ed osservazione, materiale che ben poteva

prestarsi, tra l’altro, ad essere inserito all’interno di un racconto metamorfico, in quanto esso stesso, in fondo, già metamorfico. Aglauro, insomma, si trasforma due volte, quando inizia ad invidiare, e quando smette di farlo, dopo essere stata trasformata in pietra da Mercurio. Eppure, anche dopo la litomorfosi, l’invidia continuerà a lasciare, come vedremo, traccia di sè nel corpo rigido ed indurito della Cecropide: La pietra nella quale viene mutata l’ateniese, non è. infatti, sottolinea Ovidio, di colore bianco, perchè la sua mente, sconvolta dall’invidia, l’aveva oramai irrimediabilmente infetta.

L’invidia, dunque, sembra voler sottolineare il poeta con questa bella immagine, è una passione che inquina, una forza in grado di mutare e trasformare completamente l’essenza stessa della persona che ne è affetta e colpita. Certo, un’immagine così vivida ed icastica dell’invidia e dei suoi effetti non poteva non impressionare l’Alighieri, assiduo lettore di Ovidio, il quale dal poeta latino sembra aver ripreso non solo la semplice figura di Aglauro assurta a paradigma di invidia punita, ma anche l’immagine dei penitenti purgatoriali con manti al color della

pietra non diversi; non una vera e propria metamorfosi, in questo caso, ma una

sorta di mimetismo cromatico che pura inganna Dante, per il quale le ombre degli invidiosi sembravano fondersi con la roccia formando un tutto indistinto; sembravano davvero, insomma, essere pietra. Contrariamente a ciò che si verifica nel Purgatorio dove, come abbiamo avuto modo di vedere464, Aglauro appare e scompare, come fulmine subitaneo, dopo aver assorto la sua funzione ammonitrice e paradigmatica, nelle Metamorfosi il personaggio Aglauro compare ben due volte, in due episodi diversi, narrati e presentati da due differenti narratori, all’interno del medesimo libro, il secondo465.

464 Cfr. cap.1.

465 Aglauro viene dapprima introdotta nella narrazione della cornacchia, la quale racconta al corvo, che stava dirigendosi ad annunciare al dio Apollo il tradimento dell'amata Coronide (Ov.

Met. 2. 545-547), come la giovane, figlia del re ateniese Cecrope, avesse disubbidito al divieto di

Minerva di non aprire la cesta nella quale era custodito Erittonio (Ov. Met. 2. 553-561)

La figura di Aglauro verrà nuovamente ripresa dopo alcuni versi, quando Ovidio descriverà l'innamoramento di Mercurio per la sorella di Aglauro Erse (Ov. Met. 2. 722-736). Aglauro acconsente all'incontro tra la sorella ed il dio solo previa consegna di un quantitativo d'oro (Ov.

Met. 2. 748-751). Minerva, introdotta nuovamente da Ovidio, si reca nella dimora d'Invidia

affinché questa infetti Aglauro (Ov. Met 2. 765-785). L a fanciulla, tormentata dalla invidia/gelosia, si oppone ora con forza alla liaison della sorella con Mercurio (Ov. Met. 2. 814- 817). Quest'ultimo, infine, la muta in pietra e si allontana in volo (Ov. Met. 2. 818-835).Aglauro viene dapprima introdotta nella narrazione della cornacchia, la quale racconta al corvo, che stava dirigendosi ad annunciare al dio Apollo il tradimento dell'amata Coronide (Ov. Met. 2.

La prima presentazione di Aglauro avviene all’interno di un contesto di significativa complessità narrativa: il poeta, narratore di primo livello riprende, nei primi 409 versi del secondo libro, la narrazione della tragica vicenda di Fetonte, interrotta alla fine del primo libro. A partire dal verso 409, comincia un nuovo filone narrativo, incentrato su uno dei temi principali, se non il tema principale, de ll e Metamorfosi: le avventure erotico-sentimentali degli dei nell’ottica di rapporti extraconiugali.

A dare inizio all’intera sequenza nel secondo libro è proprio il padre degli dei, Giove, che, nel suo giro perlustrativo delle grandi mura del cielo al fine di determinare lo stato conservativo delle stesse dopo il disastroso passaggio del carro senza controllo guidato da Fetonte, scorge, rimanendone profondamente colpito, una vergine di Nonacra, Callisto (vv. 381-410).

I versi seguenti, sino al v. 530, sono incentrati sulla drammatica vicenda della stessa Callisto; il suo disperato tentativo di resistere alla violenza perpetrata da Giove (409-440); la scoperta dei segni della violenza perpetrata ai suoi danni da parte delle ninfe compagne di Diana Cinzia (441-465); la nascita, frutto dello stupro, di Arcade (468-469); la trasformazione di Callisto trasformata in orsa da Giunone, pazza di gelosia a causa della scappatella del consorte Giove (470-495); l’incontro, angoscioso e drammatico, tra madre-orsa e figlio cacciatore nelle selve (496-504); il loro catasterismo ad opera dello stesso Giove (505-507).

La vicenda di Callisto termina poi, con una coda finale, nella scena, immediamente successiva, di Giunone che, adirata per la sorte toccata alla rivale d’amore, si reca presso le divinità marine Oceano e Teti, chiedendo loro di impedire la discesa nei gorghi azzurri della costellazione dell’Orsa (508-530).

Gli dei del mare acconsentono e Giunone torna a solcare il limpido cielo alla guida del suo cocchio tirato da pavoni screziati (vv.531-534); ed è proprio da questa ultima immagine, quella cioè delle penne pictae (v.533) dei pavoni, che il poeta

545-547), come la giovane, figlia del re ateniese Cecrope, avesse disubbidito al divieto di Minerva di non aprire la cesta nella quale era custodito Erittonio (Ov. Met. 2. 553-561).

La figura di Aglauro verrà nuovamente ripresa dopo alcuni versi, quando Ovidio descriverà l'innamoramento di Mercurio per la sorella di Aglauro Erse (Ov. Met. 2. 722-736). Aglauro acconsente all'incontro tra la sorella ed il dio solo previa consegna di un quantitativo d'oro (Ov.

Met. 2. 748-751). Minerva, introdotta nuovamente da Ovidio, si reca nella dimora d'Invidia

affinché questa infetti Aglauro (Ov. Met 2. 765-785). L a fanciulla, tormentata dalla invidia/gelosia, si oppone ora con forza alla liaison della sorella con Mercurio (Ov. Met. 2. 814- 817). Quest'ultimo, infine, la muta in pietra e si allontana in volo (Ov. Met. 2. 818-835).

trova il punto di collegamento, il pretesto narrativo potremmo dire, che permette il passaggio ad una nuova sequenza narrativa, dominata dalla figura della cornacchia, nella sua triplice veste di protagonista, narratrice e nuovamente protagonista, agente all’interno di una delle storie da ella stessa narrate.

L’immagine del pavone prima candido e poi screziato ricorda infatti ad Ovidio la vicenda del corvo chiacchierone, al quale le ali, in un primo tempo bianche proprio come quelle dei pavoni, erano state rese nere da Apollo, a mo’ di punizione per una colpa commessa dall’uccello (vv. 536-541).

Proprio dal corvo avrà inizio il successivo segmento narrativo, dominato dall’incontro del corvo stesso con la cornacchia. Questa transizione (così come molte altre nel poema) è parsa, alla critica moderna, ma anche già a quella antica, ingenua ed insoddisfacente466.

Certamente non possono essere taciute o misconosciute le numerose occorrenze, all’interno delle Metamorfosi, nelle quali la transizione tra una storia e l’altra appare essere legata alle esigenze del carmen deductum, della perpetuitas carminis, configurandosi come espediente narrativo piuttosto che come effettivo collegamento tra le storie narrate. La transizione narrativa spesso è tenue, legata al movimento fisico (e, conseguentemente, narrativo) di un personaggio da una vicenda all’altra, oppure, in altri casi, da veri e propri agganci artificiali, predisposti

ad hoc dal narratore principale; tuttavia, sottolineare la marcata componente

narrativa delle Metamorfosi non comporta, necessariamente, l'enfatizzazione della loro assoluta artificiosità: Galinsky e Solodow, ad esempio, hanno sottolineato, in due opere fondamentali nell'ambito degli studi ovidiani,467 la mancanza di una qualsivoglia forma di insegnamento morale nelle vicende mitiche delle

Metamorfosi.

466 Per quel che concerne la critica antica, celebre il giudizio di Quint. Inst. 4.1.77 (giudizio, questo, incentrato sul ruolo generale delle transizioni nelle Metamorfosi): illa vero frigida et

puerilis est in scholiis adfectatio ut ipse transitus efficiat aliquam utique sententim et huius velut praestigiae plausam petat, ut Ovidius lascivire in Metamorphosesin solet; quem tamen excusare necessitas potest, res diversissimas in speciem unius corporis colligentem. Per gli orientamenti

moderni della critica, sostanzialmente concordi con il giudizio di Quintiliano, Cfr F.J. Miller, Some

Features of Ovid’s Style, CJ 16 (1920-1921), pp. 464-476; J.M.Frecaut, Les transitions dans les Metamorphoses d’Ovide, REL 47 (1968), pp. 247-263; E.J.Kenney, The Style of Metamorphoses, in Ovid, Greek and Latin studies: Classical Literature and Its Influence, Londra 1973; G.K.Galinsky, Ovid’s Metamorphoses: An inroduction to the Basic Aspects, Bekeley-Los Angeles 1975, pp.42 e

79-109.

I due studiosi hanno giustificato la loro interpretazione a-morale dei miti delle

Metamorfosi, sottolineando alcuni elementi fondamentali e ricorrenti nell'opera

ovidiana: l'alternanza, all'interno di una medesima vicenda mitica, di toni seri e faceti (Humor and seriousness)468, la concezione ovidiana degli dei, ben lontana da quella della tragedia greca d'età classica469; il passaggio, in storie come quella di Erissitone, da un'iniziale indicazione di un possibile sviluppo morale dei fatti ad una attenzione rivolta verso aspetti grotteschi e fantastici, con un sostanziale abbassamento del tono- e del tema- serio iniziale470, poi non ripreso e sviluppato compiutamente; i dubbi e le perplessità, espresse, ad esempio, nelle vicende di Dafne, Atteone, le figlie di Anio471, sul senso e la finalità effettiva della trasformazione metamorfica472; la predominanza assoluta del ruolo del narratore, con i suoi artifici stilistici, le sue tecniche narrative, la suà abilità ed arguzia stilistica, rispetto alla vicenda narrata ed ai possibili significati da essa veicolati: it

is not the substance of the myth that matters, but the way it is told. The how is more important than the what473.

Solodow, in particolare, accosta e giustifica l'assenza di un valore morale nelle

Metamorfosi ovidiane proprio con l'artificiosità dei collegamenti tra una storia e

l'altra: the difficulty in attaching meaning to the stories is deepened by the existence

of the narrator. His omnipresence provides a constant reminder that the stories have no privileged origin, but are the subjective products of a very human narrator. Freely invented, casually joined to one another, often openly queried or criticized by the poet himself, what they can mean?474

Gli aspetti sottolineati dai due studiosi sono certamente validi nel complesso dell'opera ovidiana: il trattamento del mito in Ovidio ha perso molto di quella componente educativo-formativa così presente, invece, nella tragedia greca, nell’epica arcaica nonchè, ancora ai tempi di Ovidio, nell’Eneide virgiliana. Tuttavia, questi aspetti, per quanto uniti ad una artificiosità di linguaggio, ad un concettualismo, ad un gusto per l’artificio narrativo anch’essi estranei alla

468 G. K. Galinsky, op.cit., pp.158-210. 469 G.K. Galinsky, op.cit., pp.162-173.

470 G. K. Gainsky, op.cit., pp. ; J. Solodow, op.cit., pp. 160-162. 471 J. Solodow, op.cit., pp. 158, 172.

472 J. Solodow, op.cit., 473 G.K. Galinsky, op.cit., p.5. 474 J. Solodow, op.cit., p.158.

tradizionale sostenutezza linguistica tipica della gravitas epica, non credo possano impedire di scorgere, dietro le vicende metamorfiche della sezione di nostro interesse, una chiara indicazione di natura morale. Molti, infatti, degli aspetti studiati da Galinsky e Solodow, e validi per la grande maggioranza delle vicende metamorfiche, non trovano sviluppo nella sezione narrativa del secondo libro, a cominciare proprio dal collegamento testuale tra le varie metamorfosi, ben lungi dall'essere determinato, in questo caso, da mere esigenze narrative.

Come mostrato da Alison Keith, infatti, l’intera costruzione narrativa che racchiude al proprio interno la vicenda di Aglauro è efficacemente impiegata, con una fitta rete di rimandi, paralleli, accostamenti lessicali, stilistici, tematico-contenutistici tra una vicenda e l’altra, a collegare le storie tra loro e queste, a loro volta, all’Invidia, che apparirà, icasticamente descritta e rappresentata dal narratore, proprio alla fine dell’insieme delle vicende precedentemente descritte, quasi a costituire una sorte di chiave e sigillo, di natura morale, per la comprensione finale di molte delle storie dell’intera sequenza475.

Abbiamo avuto modo di vedere, nell’analisi della Commedia dantesca, l’importanza assunta dalla voce e dalla vista nella descrizione degli effetti, delle conseguenze, delle caratteristiche stesse dell’invidia. Queste due medesime componenti, fattore visivo e fattore fonico-vocale, torneranno con grande insistenza proprio nella intera sequenza narrativa che prenderemo in esame, a cominciare, come efficacemente messo in luce da Keith476, dal collegamento testuale che permette lo

shift, il passaggio, dalle vicende di Giunone, temporaneamente abbandonata dal

narratore, a quelle del corvo.

Il passaggio, come già anticipato, tra le vicende di Callisto e quelle del corvo è fornito da un accostamento di tipo ornitologico, a sua volta giustificato da considerazioni cromatiche. L’accostamento è indicativo della mentalità fluttuante del narratore Ovidio, dei suoi desultori processi analogici477.

L’occhio del lettore, dinnanzi alla scena solenne di una divinità trainata da un carro, viene invitato a soffermarsi sul traino del carro stesso, formato da pavoni screziati, esattamente come, un tempo, bianche erano le piume del corvo:

475 A..Keith, The Play of Fictions: Studies in Ovid's Metamorphoses Book 2, Michigan 1992. 476 A. Keith, op.cit., pp. 39-46.

Di maris adnuerant. Habili saturnia curru ingreditur liquidum pavonibus aethera pictis,

tam nuper pictis caeso pavonibus Argo, quam tu nuper eras, cum candidus ante fuisses,

535 corve loquax, subito negrantes versus in alas478.

Il parallelo immediato è con l’Ecale di Callimaco, testo che costituisce la fonte, come meglio vedremo, di questa sezione specifica delle Metamorfosi.

Anche nell’Ecale troviamo, infatti, in una sezione apparentemente slegata dalle vicende principali dell’epilio ellenistico, un dialogo tra due uccelli; sempre in essa, inoltre, uno dei due interlocutori, una cornacchia (κορώνη), profetizzando la futura punizione del corvo (κόραξ), accosta l’originario candore dell’uccello alla purezza di tre elementi naturali:

15 εὖτε κόραξ, ὅς νῦν γε καὶ ἂν κύκνοισιν ἐρίζοι καὶ γάλακι χροιὴν καὶ κύματος ἂκρωι ἀώτῳ, κυάνεον φὴ πίσσαν ἐπὶ πτερὸν ούλοὸν ἓξει479

La ripresa è evidente, oltre che per gli aspetti contenutistici, anche per quelli formali. Il poeta latino, tuttavia, opera sul testo, sul suo modello letterario, sostituendo due elementi della comparazione originaria (la spuma del mare ed il latte) con altri due uccelli che, in aggiunta alla figura del cigno, l’unica conservata rispetto al modello ellenistico, costituiscono un confronto esclusivamente inerente al mondo ornitologico. Ora, proprio in questo confronto, che trova la propria origine e giustificazione in osservazioni cromatiche, possiamo trovare, in nuce, quello che diverrà l’elemento chiave e dominante della sequenza successiva, incentrata sui temi della delazione, dell’indiscrezione e dell’usus vocis.

Le oche (anseres), infatti, vengono sì introdotte e presentate come uccelli candidi, il

tertium comparationis che permette il raffronto con la natura originaria del corvo

rimane sempre quello della purezza del piumaggio; eppure, a proposito di esse,

478 Ov. Met. 2.531-535. 479 fr. 74.15-17 Hollis.

Ovidio ricorda, proiettandolo nel futuro (servaturis, v.539), l’episodio chiave della preservazione del Campidoglio dalla razzia barbara, episodio del quale, come ricordato anche da fonti storiche,480 componente fondamentale fu quella della

vigilis vox degli uccelli:

535 corve loquax, subito nigrantes versus in alas.

nam fuit haec quondam niveis argentea pennis ales, ut aequaret totas sine labe columbas

nec servaturis vigili Capitolia voce cederet anseribus nec amanti flumina cygno481.

Come giustamente sottolineato da Keith, la collocazione, a livello testuale, della

vigili voce delle oche tra le due attestazioni della loquacità del corvo explicitly contrasts the goose’s appropriate use of his vox with the raven’s inappropriate use of his lingua482.

Ovidio, dunque, introduce già, sia pur in manier indiretta, all’interno del paragone tra gli uccelli, sorto da osservazioni e considerazioni di tipo squisitamente cromatico, il tema-chiave della voce. Elemento, questo, che viene poi esplitamente presentato ed introdotto nei due versi successivi, appena terminato il confronto 540 Lingua fuit damno: lingua faciente loquaci,

qui color albus erat, nunc est contrarius albo483.

L’intera sequenza, dal verso 535 al verso 541, può essere considerata una sorta di introduzione generale alla storia che il poeta si accinge a presentare, introduzione nella quale vengono ad essere presentati e messi in luce tutti gli elementi fondamentali delle vicenda in oggetto: al verso 535 viene presentato l’attore principale con il suo attributo chiave: la storia che sta per essere narrata tratterà,

480 Cfr. Liv. 5.47.4. 481 Ov. Met. 2.536-539. 482 A. Keith, op.cit., p.46. 483 Ov. Met. 2. 540-541.

ci viene detto, di un corvus loquax; nello stesso verso, viene poi presentato l’avvenimento fondamentale che lo vede direttamente coinvolto, una sorta di metamorfosi cromatica del corvo che ha visto improvvisamente mutare le sue ali