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Polisemie di invidia in uno stesso contesto

Capitolo 2 Semantica dell'invidia latina

2.9 Polisemie di invidia in uno stesso contesto

Il termine invidia poteva avere valore attivo, passivo, dinamico; poteva indicare il sentimento bieco e gretto presentato e descritto compiutamente, nel suo corrispettivo greco, da Aristotele, ma poteva anche indicare lo sdegno ed il risentimento, sia nella forma del sentimento stesso, sia nella forma metonimica di atti come accuse, critiche che esplicitavano l'indignazione provata; invidiosus poteva avere valenza attiva (raramente), passiva e dinamica, mentre dal punto di vista semantico eredita le ambiguità del termine invidia da cui deriva. Invidere poteva indicare (principalmente) l'azione dell'invidiare, ma anche quello, derivato, di negare, rifiutare, togliere per malevolenza; poteva significare anche indignarsi e

provare ostilità; in alcuni passi poteva anche presentare il significato etimologico

originario di gettare il malocchio.

Uno schema orientativo, anche se di massima, per potersi orientare nelle possibili rese della famiglia lessicale di invidia viene fornito da Kaster.

450 V. Pöschl, “Invidia” nelle orazioni di Cicerone, in Atti del I congresso internazionale di studi

ciceroniani (Aprile 1959), vol. II, Roma 1961, pp. 119-124.

451 A. Weische, Studien zur Politischen Sprache der Römischen Republik, Berlino 1966, pp. 92-102. 452 J. Hellegouarc'h, Le vocabulaire Latin Des Relations et Des Partits Politiques sous la République,

Lo studioso, partendo sempre dalla divisione dicotomica essenziale di φθόνος e

νέμεσις script di invidia, rileva che il verbo invidere e l'aggettivo invidus si adattino,

con molta maggiore frequenza, all'accezione di invidia come φθόνος, mentre sono rare le attestazioni di invidere, ed addirittura nulle quelle di invidus453, sotto il

νέμεσις script. Invidiosus, al contrario, rientra maggiormente (non sempre), in quest'ultimo campo454, mentre invisus rientrava, pressoché esclusivamente, nella sfumatura semantica dell'indignazione.

La ricchezza semantica della famiglia lessicale di invidia ha permesso, anche nel mondo latino, lo stesso fenomeno che abbiamo già visto verificarsi in quello greco, la possibilità, cioè, di slittamenti semantici continui dei termini, spesso anche all'interno di medesimi contesti (al variare, naturalmente, del soggetto cui viene riferito il sentimento). Questo fenomeno risulta essere particolarmente intenso e presente soprattutto in due ambiti: quello, ancora una volta, politico e quello delle lamentazioni funebri.

A proposito di quest'ultimo, Kaster riporta numerosissimi esempi di invidia-

nemesi provata o aizzata contro gli dei, per la morte di una persona cara:

Una buona testimonianza è, ad esempio, fornita dall'Epicedion Drusi. Alla morte di Druso, afferma l'autore anonimo del componimento, gli dei si nascosero nei loro templi, perché avevano vergogna di incrociare gli sguardi degli officianti il funerale, temendo la loro invidia: Dique latent templis neque iniqua ad funera

vultus/ Praebent nec poscunt tura ferenda rogo:/ Obscuros delubra tenent; pudet ora colentum/ aspicere invidiae, quam meruere, metu455. Indipendentemente dalla

resa precisa del termine invidia, che può essere reso come sdegno, indignazione (a mio parere resa migliore rispetto a quella di eccitazione dello sdegno), oppure come accuse, critiche, parole piene di indignazione, è comunque evidente, in questo passo, la presenza dell'accezione di invidia come giusta indignazione che gli uomini provano contro gli dei, rei di averli privati di un caro. Qui, naturalmente, la prospettiva cui si guarda all'azione è quella degli uomini, tanto è vero che, viene

453 L'aggettivo invidus ricorre frequentemente, nella produzione latina, per qualificare il sentimento malevolo provato da entità soprannaturali (dei, demoni, diavolo, fato, morte, tempo), nonchè nelle iscrizioni, in riferimento al malocchio: cfr. ThLL 7.2; 209.71-212.33. 454 R.Kaster, invidia, op.cit., p.262.

detto, gli dei si vergognano di assistere al funerale, che è come dire, che gli dei dovrebbero vergognarsi di ciò che hanno fatto.

Questa menzione degli dei che si vergognano, o dovrebbero vergognarsi, delle loro azioni, permette di capire la motivazioni che, nella grande maggioranza delle attestazioni, sembrano muovere gli dei a causare la morte di una persona o la perdita di un qualcosa di caro. Secondo Kaster456, infatti, contrariamente a ciò che accade nella letteratura greca, dove gli dei di Eschilo ed Erodoto colpiscono principalmente chi cerca di avvicinarsi al loro status, superando i confini ed i limiti umani e, dunque, peccando di tracotanza (ma, abbiamo visto, le interpretazioni non sono univoche neppure in questo campo), ed eccezion fatta per pochissimi casi in cui la letteratura latina riprende il medesimo pensiero (tra l'altro a proposito di condottieri stranieri come Annibale ed Alessandro)457, il sentimento attribuito agli dei nella maggior parte delle fonti latine sembra effettivamente essere quello di

invidia malevola, privare qualcuno di un bene perché è un bene, o privarlo perché

non si vuole che egli ne usufruisca458; la conclusione cui giunge lo studioso mette bene in evidenza le interconnessioni tra i diversi aspetti di invidia: that the gods

are so taken to act out φθόνος script invidia makes them plausible targets of νέμεσις- script invidia459.

Un passo della Congiura di Catilina di Sallustio460 offre un esempio dello stesso processo, di natura, questa volta, politico-sociale: ea res in primis studia hominum

adcendit ad consulatum mandandum M.Tullio Ciceroni. Namque antea pleraque nobilitas invidia aestuabat,et quasi pollui consulatum credebant, si eum quamvis egregius homo novus adeptus foret. Sed, ubi periculum advenit, invidia atque superbia post fuere.

Naturalmente, adottando l'ottica dell'autore, la concezione dell'invidia provata dai nobili non potrà essere che quella dello φθόνος-gelosia; sentimento malevolo, dunque, come confermato dall'accostamento con il termine superbia, proprio di chi

456 R. Kaster, invidia.., op.cit., p. 271.

457 Cfr. Liv. 5.21.15; Val. Max. 1.5.2; Curt. Ruf. 6.2.18-19.

458 Cfr Carm.Epigr. 54. 2-3; Prop. 1.12. 7-9; Vell.Pat. 1.10.4; Sil. Pun. 4.397-400, 12. 236-238, 14 . 580-584; Val.Flacc. 2.. 375-377, 3. 306-308. Analoga la concezione dell'invidia fati, per la quale cfr.., e. g., Ov. Pont. 2. 8.57-60; Sen. Apoc. 3. 2; Phaedr. 5. 6; Plin. NH 35. 92, 35. 196; Stat. Theb. 10. 384-385; Stat. Silv. 2 .1.120-122 invidia Fortunae:

459 R. Kaster, invidia.., op.cit., p. 271. 460 Sall. Cat. 23.5-6.

non vuole condividere il proprio status con altri, custodendo gelosamente le proprie prerogative. È chiaro, però, che, assumendo la prospettiva dei nobili presentati nel testo, il sentimento da loro provato sarà stato, forse, anche quello di

φθόνος-invidia, ma certamente, in ogni caso, vista la facilità del mascheramento

emotivo dell'invidia di cui abbiamo parlato, esso si sarà configurato, nella loro ottica, come nemesi invidia.

I nobili, insomma, avrebbero visto negli homines novi pronti ad ascendere alle massime magistrature repubblicane, un segno di sovvertimento dell'ordine sociale costituito: ciò li avrebbe spinti, inevitabilmente, a provare νέμεσις -invidia contro di loro. Un altro passo che bene mette in luce le ambiguità semantiche di invidia si trova in Plinio il Vecchio461. Gaio Furio Cresimo, un liberto, riuscendo ad ottenere, dal suo piccolo podere, una quantità di frutti superiore a quella ricavata dai vicini nelle loro ampie tenute, fu oggetto della loro invidia; spinti da questo sentimento, essi finirono con l'accusare il liberto di aver praticato la magia per incrementare la fertilità dei suoi campi: C. Furius Cresimus, e servitute liberatus, cum in parvo

admodum agello largiores multo fructus perciperet, quam ex amplissimis vicinitas, in invidia est magna, ceu fruges alienas perliceret veneficiis.

Anche in questo caso, il termine invidia assume due diversi significati, a seconda della prospettiva adottata: è chiaro, infatti, che l'accusa de veneficiis implica un

νέμεσις-script di invidia; è inevitabile provare sdegno per chi si arricchisce con

mezzi illeciti e vietati. Al contempo, tuttavia, è altrettanto chiaro che questa accusa trova il proprio fondamento nello φθόνος, nel sentimento malevolo provato nei confronti di chi si trovava in una condizione di prosperità.

Un altro esempio citato da Kaster è costituito da un passo del De Humanitate et

clementia di Valerio Massimo, in cui viene descritta la clementia di Cesare nei

confronti dei suoi nemici. In particolare, sostiene Valerio, questa fu la reazione di Cesare all'udire la notizia della morte di Catone: Catonis quoque morte Caesar

audita et se illius gloriae invidere et illum suae invidisse dixit462.

Per quella che Kaster definisce come la Valerius's overall historical sensibility,

sentimental and soaked in kitsch463, il termine sarebbe da intendersi nel senso di

461 Plin. NH. 18.41. 462 Val. Max. 5.1.10.

invidia benevola, desiderio di emulazione ed ammirazione per l'altro. Se proviamo, però, continua Kaster, ad assumere la prospettiva di Cesare, si può immaginare che, quando questi affermava di invidiare la condizione del rivale, non fosse del tutto alieno dal provare invidia malevola nei suoi confronti, trattandosi pur sempre della sua (di Catone) gloria.

Lo stesso Catone, pur seguace della dottrina stoica, poteva, da essere umano, provare invidia per la gloria di Cesare. Il suo suicidio, tuttavia, rientrava, al contempo, nella tipica casistica di gesti, estremi in questo caso, che potevano eccitare l'indignazione contro qualcuno, configurandosi, dunque, come νέμεσις.