Genealogia ingonide alternativa:
Capitolo 3: gli snodi del potere
3.1.1. Un magnete per i proceres del regno
Nell’ultimo bivalve tematico di questo studio l’attenzione sarà rivolta ai poli politico- economici per eccellenza nel Piemonte nordorientale di X e XI secolo: due snodi, uno vercellese e uno novarese ̶ entrambi ugualmente connessi all’ambiente della Sesia ̶ , in grado di attirare all’acme della loro parabola storica le più influenti dinastie del regno e di determinarne le sorti: Mosezzo e Caresana.
Per quanto riguarda Mosezzo, oggi frazione del comune di San Pietro Mosezzo, conviene suddividere l’analisi in due filoni comunque spesso intersecanti: il castrum “marchionale” e la fascia territoriale circostante, adiacente alla Biandrina e costellata di fortificazioni come tra Vigevano e Gravellona Lomellina.
Il castrum, o meglio vico incastellato, di Mosezzo si trovava esattamente a metà strada della linea trasversale tra Novara e Biandrate e di quella longitudinale tra Casaleggio e Lumellogno. Non è semplice, tra l’altro, definirne l’origine: la suddivisione in quote e i loro frequenti passaggi di proprietà richiamerebbero un’origine fiscale e l’inserimento nel sistema redistributivo della mensa palatina, tuttavia non esiste il benché minimo accenno alla località nella documentazione delle cancellerie regie e imperiali; di contro, ipotizzando un’allodialità di partenza, non è chiaro se la costruzione del castello si debba attribuire alla famiglia che per prima ne risulta in possesso della totalità, oppure se ci sia stato un precedente acquisto andato perduto e in questo caso dalla proprietà di chi e quando tra IX secolo e prima metà del X la transazione sia avvenuta.
La prima testimonianza di un «vico moxicio» ̶ diversa la situazione per la cintura demico-prediale che lo circondava e che si analizzerà nel seguente paragrafo ̶ risale al maggio 941, quando il salico Garifredo figlio di Walperto di Mosezzo vendette una pecia di vigna situata alle porte del paese in cambio di 6 soldi a Manfredo «filio bone memorie»
158 di Manfredo di Mosezzo: l’azione giuridica si svolse alla presenza di diversi salici, e in modo particolare di Agiverto detto Azzo, vassallo di Manfredo686. Elemento questo, che subito mette in correlazione tale proprietario terriero a famiglie di alto rango quali gli Ingonidi. Un mese più tardi, lo stesso notaio rogò un documento «actum in suprascripto vico moxicio infra castello» con cui il prete Domenico del fu Gunfredo di Obbiate vendeva per 40 soldi di nuovo a Manfredo terre consistenti in 6 iugeri di boschi, prati, vigne e campi presso Mosezzo e Wachingo687 ̶ un’altra delle località circonvicine come Obbiate ̶ , acquisite dall’arcivescovo milanese Arderico688.
Del febbraio 953 è la testimonianza di un salto di carriera notevole per il proprietario di Mosezzo: Manfredo del fu Manfredo è detto infatti «comes loumellensis» per la prima volta in occasione della vendita al prete Alfredo del fu Garifredo di Tornaco di un manso di 8 iugeri ̶ completo di case, edifici, vitigni e meleti ̶ retto e lavorato dal massaro Gaudenzio «liber omo» a Mosezzo, al confine con altri suoi possidementi di cui si riservava la potestas; un altro vassallo del comes, di nome Fredo, appose il suo signum appena sotto la firma autografa del senior, il quale si dimostrava fornito anche di un minimo livello culturale689. Nell’aprile del 959690, il prete longobardo Domenico del fu Fiorenzo di Cerano redasse un testamento con cui restituiva in usufrutto a Guntilda, vedova di Manfredo di Mosezzo, un massaricio con casa, edifici, vitigni e alberi da frutto lavorato da tale Sabatino che aveva acquistato da lei per 3 lire con la clausola che, alla morte della stessa, la terra sarebbe passata alla canonica di Santa Maria691: ci viene quindi indicata una finestra temporale abbastanza ristretta dove situare la morte del comes, che non può essere avvenuta molto tempo dopo la stessa nomina istituzionale.
Tutte le carte elencate finora sono in un certo senso preparatorie rispetto a un momento decisivo per la storia delle elite nel Novarese altomedievale: il 3 settembre 962,
686 ASDN - FF - DCC/Q, n. 6. Il documento è rogato da Odelberto notaio e scavino.
687 Come già indicava Sergi ̶ Movimento signorile, pp. 169-170 ̶ l’originale mostra chiaramente la versione «vuachingo», compatibile con un altro vico della cintura demica riconoscibile nella successiva documentazione; la formula «vualingo» riportata in BSSS. 78, n. 47, p. 67, invece, rischia di confondere ricordando la forma grafica medievale per Olengo.
688 ASDN - FF - DCC/Q, n. 7. 689 BSSS. 77/1, n. 7, pp. 16-18.
690 ASDN - FF - DCC/F, n. 1. Tra i testimoni è presente anche un uomo di Fisrengo presso Casalvolone. 691 Il testo è «canonici de canonica sancte marie mater ecclexie situs infra civitatem novariam» di cui «marie mater ecclexie situs infra civitatem novariam» è riscritta su palese rasura; Gabotto propone come originale: «sancti gaudenci ecclesie situs foris et prope civitatem novariam» oppure «ecclesie que est fundata foris murum civitatis novarie». Tali ipotesi, significativamente, presupporrebbero uno scambio di canoniche e aprirebbero scenari controversi.
159 poco dopo l’incoronazione di Ottone di Sassonia e il suo trionfo su Berengario a Orta, Elrico «ex genere francorum» figlio della buona memoria del comes Manfredo vendeva a Guntilda del fu comes Ruggero, moglie di Amedeo del fu Anscario marchio, in cambio delle 30 lire del suo faderfio, due porzioni della metà della curtis domocoltile di Mosezzo con uguale quota del relativo castello, consistenti in 80 tavole tra sedimi interni alle mura, metà del pozzo e due porzioni del fossato circostante, a cui andavano aggiunte le due porzioni dei sedimi con case e vitigni extramuranei per un totale di 6 iugeri e 8 pertiche e le relative pertinenze costituite da 14 iugeri di terra arabile e prati e 10 di boschi e gerbidi, più due porzioni della metà dei suoi possessi a Vicolungo, consistenti in case692 e sedimi coltivati a vite per 1 iugero e 4 pertiche, 5 iugeri e 9 pertiche di arativo e prato, 6 di boschi e gerbidi; il tutto accompagnato da servi e ancelle693. Elrico dichiarava poi di aver già venduto a Guntilda, assieme alla moglie Officia, la terza porzione della metà dei beni in questione, con un atto che evidentemente non si è conservato, e di riservarsi «potestatem proprietario iuri» l’altra metà di tutto il complesso patrimoniale di Mosezzo. All’atto testimoniarono diversi alfabeti, ma ancora di più furono le personalità che presenziarono al placito del giorno successivo, molte delle quali già segnalate nelle pagine precedenti. Sul placito bisognerà tornare a breve, prima però è doveroso aprire un excursus sulla provenienza e le origini famigliari dei protagonisti dell’atto e, di conseguenza, del comes di Lomello.
La genealogia dei cosiddetti Manfredingi di Mosezzo-Lomello è stato oggetto di studio e ipotesi fin dall’erudizione tardo-ottocentesca e primo-novecentesca; in particolare, le ardite e spesso fantasiose ricostruzioni del Baudi di Vesme che influenzarono la scuola gabottiana riconoscevano nel padre del comes e nonno di Elrico la nona generazione di un gruppo fatto risalire addirittura al VI secolo: un Manfredo IX che sarebbe stato fatto accecare da re Lamberto a causa della ribellione del padre, Manfredo VIII “conte di Milano e marchese di Lombardia”694. Ovviamente, tali nessi parentali non hanno alcun fondamento concreto e sono forzati dalle similitudini onomastiche; se ricostruzioni genealogiche tanto articolate a ritroso nel tempo non sono possibili neppure per le dinastie imperiali per quanto riguarda l’età altomedievale, documenti emanati in
692 Probabilmente case coloniche per servi e massari: Andenna, Dal regime curtense al regime signorile e
feudale, p. 239.
693 ASDN - FF - DCC/F, n. 2.
160 altre aree del Regno italico consentono invece di inquadrare in dettaglio la successione di X secolo della famiglia: i Manfredingi, infatti, si rivelano legati in profondità non soltanto all’ambiente comitale del Piemonte orientale.
È del 10 luglio 955 il testamento rogato a Ronco all’Adige da Milone marchio di Verona figlio del fu Manfredo, in cui venivano lasciati in eredità a «Mainfredus comes germanus meus et Enricus item comes filio eius nepote meo» tutti i suoi beni nel regno, con enfasi particolare riferita a un’area di radicamento attorno all’Adige, una delle principali vie di comunicazione e commercio del territorio veneto, dove sorgevano i tre importanti castelli di Begosso e soprattutto Ronco e San Bonifacio, dai quali i rami dell’agnazione sorti a partire dal secolo seguente trassero l’ancoraggio identitario riconducibile a una coscienza di stirpe basata sulla comune discendenza dal capostipite Milone695. La coerenza del riferimento con il ramo manfredingo di Mosezzo è stabilita dal fatto che nel resto del documento il nipote viene detto Elrico ̶ «Egelrich» ̶ , palesando un errore iniziale o l’interscambiabilità tra i due antroponimi: Manfredo di Mosezzo sarebbe dunque il padre dei fratelli Manfredo e Milone, del quale l’Elrico del 3 settembre 962 è nipote696. Ma se la nomina comitale a Lomello avvenne soltanto negli ultimi anni di vita per Manfredo del fu Manfredo ̶ a riprova della scarsa fondatezza dell’antichissima ascendenza funzionariale proposta dal Baudi di Vesme697 ̶ , Milone poteva vantare una ben più radicata esperienza politica che, infatti, lo aveva condotto all’ufficio marchionale (nel 953).
Battezzato con un nome che richiama una possibile parentela materna con i Guidonidi spoletini698, Milone e la sua famiglia erano di nazionalità franca, «il che rispettava una consuetudine consolidata di predominio politico degli elementi
695 V. Fainelli, Codice diplomatico veronese II, Venezia, 1963, pp. 393-395. Cfr. A. Castagnetti, La titolarità del
comitato di Verona per il conte Egelrico (955-961) e l’incipiente dinastizzazione dell’ufficio da un documento del Mille, in «Studi storici Luigi Simeoni», 53, 2003, pp. 15-43: 19; Id., Le famiglie comitali della Marca Veronese (secoli X-XIII), in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo, Roma, 1996, pp. 85-111:
87; Id., Le due famiglie comitali veronesi: i San Bonifacio e i Gandolfingi-Di Palazzo, in Studi sul medioevo
veneto, Torino, 1981, pp. 43-93: 60; G. M. Varanini, San Bonifacio, in DBI, 90, Roma, 2017 (consultato
online). Sul commercio in Veneto vd. In dettaglio: A. Castagnetti, Mercanti, società e politica nella Marca
Veronese-Trevigiana (secoli XI-XIV), Verona, 1990.
696 Sergi, Movimento signorile, p. 170. I profili biografici dei tre sono riassunti anche in: Hlawitschka,
Franken, Alamannen, pp. 172-173, 233-234, 237-240.
697 Ivi, p. 172. Va detto comunque che, per quanto improbabile, la titolarità comitale avrebbe potuto essere revocata in occasione del presunto tradimento a re Lamberto; da qui la decisione di muovere verso una località non sede distrettuale come Mosezzo. Resterebbe però difficile da accettare il fatto che l’ufficio non sarebbe poi stato restituito da Berengario, al quale la famiglia e in particolare Milone suo vassallo, fu sempre fedele.
161 appartenenti alle etnie dominanti, franca e alamanna»699: al contrario della Bulgaria, il Veronese seguiva le dinamiche etniche dell’altro polo di interesse manfredingo, il «vico moxicio» confinante alla salica Biandrina700, tanto che fino all’avvento ottoniano le famiglie longobarde non beneficiarono di alcuna ripresa politica701. Attestato in qualità di vassallo regio di Berengario sin dal 910, svolse la prima parte del cursus honorum al suo seguito e la fedeltà all’unrochingio si dimostrò tale da essere accolto nella sua familia e da vendicarne l’omicidio prodigandosi per la cattura e l’impiccagione dello sculdascio Flamberto702.
La sua posizione a Verona non venne meno con re Ugo di Arles, il quale anzi vedeva di buon occhio il turnover aristocratico di homines novi iniziato da Berengario703 e lo promosse al rango comitale fin dai primi anni di regno704: fu in questa fase che Milone riuscì a porre le fondamenta patrimoniali del primo radicamento comitale in un’area, come quella veronese, in cui la notevole rilevanza strategica aveva sempre imposto la mobilità degli uffici pubblici direttamente su iniziativa regia705 e, secondo il linguaggio di Attone di Vercelli, a stabilizzarsi nel novero dei proceres del regno706.
Dopo l’appoggio iniziale, forse la crescente rete di contatti e interessi che stava coltivando in loco spinse Milone a una svolta spregiudicata nella sua azione politica e ad allontanarsi da Ugo, prendendo le parti del nuovo vescovo veronese Raterio707. Che
699 Castagnetti, Le famiglie comitali, citaz. da p. 90. 700 Supra, p. 153.
701 Castagnetti, Le famiglie comitali, p. 90. Avvenne con l’acquisizione dell’ufficio comitale da parte di Gandolfo, esponente di una stirpe longobarda piacentina già citata supra, p. 80, e sulla quale si dovrà tornare più in dettaglio nel prossimo paragrafo.
702 Liutprando ̶ Antapodosis, ed. P. Chiesa pp. 162-163 ̶ traccia di Milone un ritratto entusiastico: «Milo autem, sicut vir fidelis et rectus […] fuerunt sane in hoc viro nonnullae perfectaeque virtutes». Altrettanto positiva la descrizione del suo rapporto con Berengario: «Nutriebat sibi rex Berengarius familiariter lauteque iuvenem, immo heroem quendam, Milo nomine, memoria satis ac laude dignum. Cuius si rex fretus consiliis esset, fortunas sibi omnes non tantum adversari sentiret». Una rilettura del testo di Liutprando sui moventi che spinsero Flamberto al gesto, ovverosia la possibilità mancata di un eccezionale salto di qualità da sculdascio a vassallo regio e quindi a conte, prospettato dal re per frenare il tentativo di congiura di cui era stato messo al corrente e poi disatteso in quanto inapplicabile nel tessuto gerarchico dell’epoca, si trova in A. Castagnetti, La feudalizzazione degli uffici pubblici, in Il Feudalesimo nell’Alto
Medioevo, Spoleto, 2000, pp. 723-819: 776-780. Cfr. Castagnetti, La titolarità, p. 19; Bougard, Milone.
703 Cfr. Vignodelli, Il filo a piombo, p. 250; Castagnetti, Le famiglie comitali, p. 86; id., La titolarità, p. 19. 704 Castagnetti, Le famiglie comitali, pp. 86-87. La promozione di Milone fu decisa da Ugo a seguito di un tentativo di insubordinazione di parte dell’aristocrazia locale: Bougard, Milone.
705 Castagnetti, Le famiglie comitali, pp. 86-87. 706 Vignodelli, Il filo a piombo, p. 101.
707 Sulla concezione politica di questa notevole figura intellettuale del secolo cfr: G. Vignodelli, “Milites
Regni”: aristocrazie e società tripartita in Raterio da Verona, in «Bullettino dell’istituto storico italiano per il
medio evo», 109, 2007, pp. 97-150; Id., Il problema della regalità nei Praeloquia di Raterio di Verona, in
162 addirittura, pochi anni dopo, abbia sollecitato assieme a quest’ultimo la venuta in Italia del duca di Baviera Arnolfo ̶ parente di Raterio ̶ è possibilità concreta708, salvo poi essere tornato tra le fila di Ugo e aver pagato il doppio tradimento ̶ ben poco aderente al ritratto virtuoso del personaggio presentato da Liutprando ̶ con la cattura proprio del fratello Manfredo da parte di Arnolfo e una perdita di influenza locale a Verona, limitata comunque dal mantenimento della carica comitale709; Raterio dal canto suo fu sostituito dal nipote del re Manasse, il quale già controllava i proventi delle diocesi di Mantova e Trento e manteneva anche la dignità di arcivescovo di Arles710.
In ogni caso, il rientro nei ranghi di Milone dovette essere solo di facciata, dal momento che pochi anni più tardi ̶ sorprendentemente assieme allo stesso Manasse, che in cambio del suo voltafaccia avrebbe ottenuto l’arcidiocesi di Milano711 ̶ prese parte alla cerchia che, per timore di essere fatta fuori da re Ugo come accaduto ad Anscario II712, ne decretò la definitiva caduta e il ritorno di Berengario II713: a tal proposito, giova constatare la sottoscrizione di «Milo comes» appena accanto a quella del conte di palazzo Lanfranco nell’ostensio chartae del 13 aprile 945 sanzione della vittoria berengariana714. L’alleanza tra Manasse e Milone fu sancita ulteriormente dalla vendita della diocesi veronese al comes, il quale la girò al nipote omonimo: veniamo dunque a conoscenza di un secondo figlio del conte di Lomello Manfredo715 e fratello di Elrico, e della sua formazione ecclesiastica che lo porterà a reggere a fasi alterne la diocesi veronese per oltre un trentennio. L’atto si rivelava un ulteriore tassello alla dinastizzazione manfredinga dell’egemonia sul veronese, in termini molto simili a quelli che si sono visti per i conti di Pombia nel Novarese del secolo successivo: dall’episcopato del nipote, infatti, potevano sorgere molte meno preoccupazioni per la leadership laica di Milone,
708 Liutprando, Antapodosis, ed. P. Chiesa, pp. 236-237. 709 Bougard, Milone.
710 Bougard, Manasse, in DBI, 68, Roma, 2007 (consultato online). 711 Ibid.
712 Vignodelli, Il filo a piombo, p. 128.
713 Liutprando ̶ Antapodosis, ed. P. Chiesa pp. 352-353 ̶ pone Milone «praepotens Veronensium comes» alla testa di coloro che garantirono l’“endorsement” al ritorno di Berengario, citandolo addirittura prima del vescovo di Modena Guido che sappiamo essere stato il vero deus ex machina dell’operazione. Tuttavia, mantenendo la consueta simpatia nei confronti del comes, il vescovo si prodiga a negare la sua infedeltà, spiegando che il voltafaccia fu necessario «verum illata sibi ab eodem (Ugo) nonnulla incommoda, quae iam diu sustinere non potuit».
714 Supra, p. 103.
715 Può essere solo una coincidenza la presenza di un Milone di Mosezzo, vivente a legge salica e non ulteriormente specificato, tra i testimoni del documento ̶ ASDN - FF - DCC/Q, n. 6 ̶ del maggio 941.
163 rispetto al ritorno sulla cattedra zeniana di un Raterio o dello stesso Manasse716. Pochi anni prima della sua morte, Milone ottenne l’ultima promozione della carriera, in virtù della creazione da parte di Berengario e Adalberto della Marca Veronese, inizialmente sottoposta al duca di Baviera, con l’ulteriore opzione di ripristino della contermine marca friulana che sarebbe stata integrata nell’area di competenza del manfredingo717.
Alla sua morte, Elrico succedette all’immensa autorità dello zio nell’Italia nordorientale, integrandola per giunta alla contea paterna di Lomello718. Ma tanta fortuna non durò a lungo, poiché l’avvento di Ottone di Sassonia determinò la revoca delle cariche, delle quali Elrico risulta infatti sprovvisto nella carta del 3 settembre 962 a Mosezzo; nello stesso torno di tempo, Raterio riuscì a rientrare a Verona per la terza volta, approfittando della deposizione di Milone. I Manfredingi, dunque, emergevano come fedeli berengariani dell’ultima ora, ma la loro caduta non fu definitiva, né la rivalsa di Ottone ciecamente accanita. Una famiglia con un tale background politico su entrambi i lati dell’Italia settentrionale era merce rara da trovare e, se ben incanalata, poteva risultare molto più una risorsa che una minaccia.
Comunque sia, i primi anni dell’età ottoniana furono per loro all’insegna del ridimensionamento e lo si vedrà a breve nella stessa documentazione novarese; già però nel 968, all’alba del fallimento dell’azione riformatrice di Raterio e della definitiva partenza del presule da Verona, Milone riacquisì la carica719. Elrico, dal canto suo, «seppe restare a galla comparendo nel seguito di Ottone I»720, durante il periodo dell’assunzione comitale da parte della dinastia gandolfingia. Dal marzo 996, infatti, fece la sua comparsa
716 Pauler, op. cit., p. 189. I rapporti tra Raterio e Milone, come si legge dalle sue stesse epistole, erano ormai ai minimi termini e stavano per sfociare nell’aggressione fisica; il comes si trovava infatti allo zenit della sua influenza sulla regione e vedeva in Raterio l’unica minaccia rimasta: Bougard, Milone.
717 Cfr. Pauler, op. cit., p. 188; Bougard, Milone; Castagnetti, Le famiglie comitali, pp. 88-89. Questa tipologia di marca era comunque molto diversa rispetto a quelle piemontesi, in cui l’iniziativa del marchio non era incanalata in un quadro territoriale ripartito in comitati, ma dipendeva soltanto da una lontana supervisione tedesca: M. Nobili, G. Sergi, Le marche del Regno Italico: un programma di ricerca, in «Nuova Rivista Storica», 65, 1981, pp. 309-405: 404.
718 Pauler, op. cit., p. 189. La definizione marchionale, tuttavia, doveva essere stata ritagliata ad hoc da Berengario per Milone, in quanto da un documento del 1000, in cui la figlia di Elrico Imilda e il marito Ugo figlio di Bonserardo da Ganaceto vendettero al prete Azzo del fu Trasoaldo «habitator in castro gandazeto» per 3000 lire le loro porzioni di tre castelli con curtes nei comitati di Modena e Ferrara e due curtes in quello di Verona, tra cui quella importantissima di Soave, si viene a sapere che il padre «fuit comes comitatus veronensis»; comes dunque, non marchio: Castagnetti, La titolarità, p. 23. Il testo del documento si trova in appendice ivi, pp. 40-42. Sui “da Ganaceto”: A. Castagnetti, Dai da Ganaceto (Modena) ai da Calaone
(Padova) fra conti veronesi, Canossa ed Estensi, in «Reti medievali. Rivista», 4, 2003.
719 M. Rossi, Raterio, in DBI, 86, Roma, 2019 (consultato online); Bougard, Milone. 720 Varanini, citaz. da San Bonifacio.
164 un nuovo conte Elrico in tre placiti ̶ due a Verona e uno a Pavia721 ̶ presieduti dal duca Ottone marchio della Marca Veronese722 e nel 1009 lo si ritrova in qualità di marchio723. Con ogni probabilità, la rinnovata promozione fu conseguenza dell’allineamento di Elrico II al partito di Arduino724, visto che già a partire dalla successiva generazione tornò ad essere attestata la sola dignità comitale: la discendenza del marchio era costituita anche da un conte di nome Bonifacio, una forma di detoponimico ricavata dal castello principale