Ugo Bigger
1.5. Le normative MiFID: tutelano il risparmio e ne garantiscono la funzione
sociale?
Questo scenario complesso necessita una riflessione profonda sul senso del rispar- mio popolare e su cosa significhi tutelarlo oggi.
8 Si v. l’art.50 quinquies «Gestione di portali per la raccolta di capitale per le start-up innovative» e
l’art.100 ter «Offerte attraverso portali per la raccolta di capitali» del t.u.f.
Le normative si concentrano da anni soprattutto nel definire regole per tutela- re gli investitori cercando di ridurre l’asimmetria informativa tra risparmiatore ed intermediari finanziari. In attesa della MiFID II, in vigore dal 3 gennaio 2018, la struttura portante dell’architettura istituzionale posta a tutela del risparmiatore si ritrova nelle norme del t.u.f. che recepiscono nell’ordinamento interno quelle della Direttiva 2004/39/CE conosciuta semplicemente come MiFID.
La legislazione risulta, alla prova dei fatti, non molto efficace, come risulta evi- dente dalle cronache degli ultimi anni inerenti la vendita di strumenti finanziari ai propri clienti da parte di banche in difficoltà. Nonostante che tali norme abbiano un obiettivo decisamente condivisibile vi sono alcuni punti critici che si possono evi- denziare sia dal punto di vista della funzione sociale del risparmio sia da quello della tutela del risparmio popolare. Vediamoli nel dettaglio. Innanzitutto, la classificazio- ne della clientela e degli strumenti finanziari prescinde dall’obbiettivo e dall’impor- to dell’investimento. La propensione al rischio delle persone, delle imprese e delle istituzioni dovrebbe essere valutata anche in funzione dell’obiettivo non puramente finanziario dell’investimento e della relatività dell’importo investito rispetto al totale della propria disponibilità finanziaria. Per alcuni investitori (che sono in deciso au- mento) investire in microcredito, nelle imprese giovanili, nell’ambiente, in imprese responsabili può essere più appetibile, a parità di rischio, rispetto ad analoghe tipolo- gie di strumenti finanziari che non investono con obiettivi sociali o ambientali. Ana- logamente, la profilazione della propensione al rischio cambia in funzione dell’im- porto investito. Un investitore estremamente prudente nella gestione complessiva del proprio portafoglio può decidere di assumere dei rischi significativi a fronte di importi limitati ed obiettivi che sono di particolare interesse. Ignorare questi aspetti è un grave errore e spinge ad escludere meccanismi mutualistici o solidali dalle scelte dei risparmiatori e degli investitori. Non tiene quindi in nessun conto una scelta ed una propensione al rischio che prenda in considerazione la funzione sociale del risparmio.
Il meccanismo dell’informativa all’investitore nasconde insidie significative. Ovviamente è molto opportuno, ma non può “scaricare” la responsabilità di chi costruisce, gestisce e vende dei prodotti finanziari dato che neanche gli investitori professionali possono realmente annullare l’asimmetria informativa. Le norme sul “bail-in” riflettono questa idea nella scelta della banca a cui affidare il risparmio. È un’idea teoricamente corretta, ma solo se il gioco è leale. Se le informazioni date al risparmiatore contengono false comunicazione dei dati sociali o di bilancio allora non c’è competenza, consenso informato o propensione al rischio che tenga.
Purtroppo, ancora oggi, le normative italiane rispetto al “falso in bilancio” o alle false comunicazioni sociali, non danno assolutamente garanzia di tutela per chi de- cide un investimento a fronte di informazioni distorte o errate.
Possiamo fare un paragone con le norme di igiene per le produzioni alimentari: la tutela del consumatore prevede che sia il fornaio che deve avere la “patente” sulla ca- pacità di rispetto delle norme igieniche e che ci siano degli enti preposti al controllo. Per comprare il pane, i cittadini devono avere il buonsenso di andare da un buon pa-
nettiere non devono avere una patente. Neanche se comprano un prodotto più strut- turato e complesso come una torta che debba essere conservata in un frigorifero. La responsabilità del cittadino è nella scelta e, quindi, nell’uso successivo. Assumiamo, ad esempio, che sia stato acquistato un prodotto di risparmio: se si è acquistato un prodotto con scadenze lunghe e poi si è costretti a venderlo per necessità di liquidità la responsabilità di un eventuale perdita è chiaramente di chi ha sbagliato l’acquisto. Ma se accade che ciò che è stato comprato non corrisponde al dichiarato e quindi “si deteriora”, allora la responsabilità è di qualcun altro. In definitiva la tutela del risparmio deve essere costruita su un sistema di controlli e di capacità di intervento garantito dallo Stato (come chiede la Costituzione) e in cui la consapevolezza e la responsabilità del cittadino giocano un ruolo da “utente finale”.
Le norme stimolano una politica delle retribuzioni nelle istituzioni finanziarie che sia composta da una parte “variabile”: le incentivazioni consentono un miglior controllo del raggiungimento degli obiettivi di gestione, rendono più efficiente il lavoro e, quindi, il raggiungimento dei risultati. Però, anche in questo caso, tale principio viene applicato diffusamente, a dir poco, in modo distorto: sia in termi-
ni di livelli retributivi per i dirigenti e manager 10 sia per quanto riguarda la tutela
dei risparmiatori/investitori dato che è possibile stimolare la vendita dei prodotti a loro destinati non in funzione del loro interesse e neanche in funzione dell’utilità sociale che generano bensì in funzione degli obiettivi di profitto dell’intermediario finanziario e dei suoi collaboratori. Di fatto il combinato disposto di incentivi alla vendita del singolo prodotto ed asimmetria informativa tra venditore ed investitore è la principale causa del deterioramento nell’immagine popolare dell’onestà delle banche e della fiducia nei dipendenti bancari: i nostri nonni ritenevano il direttore di banca persona degna della massima fiducia, al pari del Parroco o del maresciallo dei Carabinieri. Oggi questa cosa non è sicuramente più vera.