I percorsi della poesia
1. Il bagno degli occhi 1 La cornice
1.1.1 Prima direttrice: Artaud e Campana
Artaud e Campana indicano a Ortesta la possibilità di una relazione feconda tra il documento clinico e il testo poetico. Grandi scrittori e grandi schizofrenici, essi gli segnalano quali siano i punti di tangenza e quelli di separazione tra il discorso comunicante e cosciente (almeno a tratti e di certo nei momenti deci- sivi) della poesia e il discorso non comunicante e inconsapevole della follia. La presenza di Artaud si manifesta in due forme negli esordi ortestiani, la prima delle quali è quella della citazione puntuale e non dichiarata. In una delle sezio- ni aggiunte al poemetto in prosa La passione della biografia nel passaggio dalla redazione del 1975 a quella del 1977, compare il seguente passaggio:
Passa senza immagine l’immagine, il membro staccato, il linguaggio di superficie senza terrore del nuovo orifizio: perdita della scrittura da cui trasuda lei che non tollera la perdita, che si dimentichi come ha voluto patirla prima di
scriverla.11 9 Ortesta 1978a, 162-63. 10 Zanzotto 2001 [1981], 89.
Nel finale è presente sottotraccia il testo della lettera che Artaud invia a Henri Parisot il 22 settembre 1945 dal manicomio di Rodez. Commentando il proprio rifiuto di tradurre la poesia nonsense Jabberwocky di Lewis Carroll (contenuta in Through the Looking-Glass), Artaud afferma che «“Jabberwocky” è
l’opera d’un vile che non ha voluto patire la propria opera prima di scriverla»,12
contrapponendo all’opera dello scrittore inglese «le poesie degli affamati, dei malati, dei paria, degli avvelenati: François Villon, Charles Baudelaire, Edgar Poe, Gérard de Nerval e le poesie dei suppliziati del linguaggio che si perdono nei loro scritti».13
L’influsso di Artaud riguarda la sua scrittura privata (le lettere) più che quella creativa e critica, e come tale si manifesta, in modo meno puntuale ma non meno produttivo, nel rilievo accordato da Ortesta al primo componente dei
composti bio-grafia e vita-scrittura.14 Già nella corrispondenza con Jacques Ri-
vière (1923-24) la relazione tra vita e scrittura appare chiaramente sbilanciata a favore della prima, che in qualche modo resta sempre il vero oggetto del discor- so nelle lettere di Artaud, il quale in più di un punto contrappone alle ragioni
letterarie del critico della «Nouvelle Revue Française»15 l’intima necessità di
impedire, attraverso la scrittura e la pubblicazione, la dissoluzione del proprio sé, che alla pagina scritta e resa pubblica, visibile agli altri, s’affida come a un vero e proprio supporto identitario:
Il mio pensiero mi abbandona a tutti i gradi. Dal fatto semplice del pensiero fino al fatto esterno della sua materializzazione nelle parole. Parole, forme di frasi, direzioni interne del pensiero, reazioni semplici dello spirito, io sono alla ricerca costante del mio essere intellettuale. E dunque quando posso cogliere una
forma, per quanto imperfetta, la fisso, nel timore di perdere tutto il pensiero.
Sono al di sotto di me, lo so, ne soffro, ma vi acconsento per paura di morire completamente. […]
M’importa molto che le poche manifestazioni d’esistenza spirituale che ho potuto dare a me stesso non siano considerate inesistenti per colpa delle macchie e delle espressioni venute male di cui sono costellate.16
12 Artaud 1966, 167.
13 Ivi, 168. La presa di contatto di Ortesta con il testo epistolare artaudiano va in realtà almeno in parte ricondotta alla mediazione di Gilles Deleuze. Su questo cfr. infra, pp. 60-61. La stessa espressione artaudiana ritornerà poi a distanza di anni nel momento in cui Ortesta dovrà riaprire, con una nota d’autore, l’ultimo atto della propria biografia poetica, ovvero il volume donzelliano del 2006, anch’esso intitolato La passione della biografia (Ortesta 2006a), cfr. infra, pp. 186-87. 14 Vitascrittura compare come sottotitolo di La passione della biografia in Ortesta 1975, ma sarà eliminato nelle successive edizioni del testo.
15 «Mi ero dato a Lei come un caso mentale, una vera anomalia psichica, e Lei mi rispose con un giudizio letterario su poesie a cui non tenevo, a cui non potevo tenere» (lettera di Antonin Artaud a Jacques Rivière del 29 gennaio 1924, in Artaud 1966, 9).
Sono in particolare due lettere successive, risalenti al 25 maggio e al 6 giu- gno 1924, a tematizzare in modo ricorrente la vita. In esse Artaud risponde, di fatto negativamente, alla proposta fatta da Rivière di pubblicare il loro scambio di lettere, con l’aggiunta di alcuni scritti letterari,17 affermando che il valore dei
propri scritti dipende interamente dal loro testimoniare una sorta di verità asso- luta, inalienabile dalla vita, il che rende necessario il mantenimento di ogni con- tingenza e accento personale, come di ogni punto esteticamente meno risolto:
perché mentire, perché cercare di porre sul piano letterario una cosa che è il grido stesso della vita, perché dare apparenza di finzione a ciò che è fatto della sostanza inestirpabile dell’anima, che è come il lamento della realtà? Sì, la sua idea mi piace, mi rallegra, mi appaga, ma a condizione di dare a chi ci leggerà l’impressione di non assistere a un lavoro prefabbricato. […] occorre assolutamente che il lettore pensi di avere in mano gli elementi di un romanzo vissuto.18
Delle ragioni di ordine generale che motivano un possibile accostamento tra Artaud e Dino Campana abbiamo già detto. Vedremo come la definitiva con- ferma ci venga da un fatto microscopico, nello specifico una spia lessicale. Nel 1978 Ortesta cura per Guanda la riedizione della Vita non romanzata di Dino
Campana di Carlo Pariani, lo psichiatra che ebbe con Campana un certo numero
di colloqui presso il manicomio di Castel Pulci fra l’8 novembre del 1926 e il 16
aprile del 1930.19 Il discorso del medico, che ospita oltre alle sue considerazioni
la trascrizione parziale dei colloqui avuti con il ricoverato, è, nel testo curato da Ortesta, attorniato da un’ampia mole di materiali: ai margini del libro, una breve
17 «Ci sarebbe solo da fare un piccolissimo sforzo di trasposizione. Voglio dire che potremmo dare al destinatario e al firmatario nomi inventati. Potrei forse redigere una risposta sulla base di quella che le ho mandato, ma più ampia e meno personale. Potremmo forse anche inserire un frammento delle sue poesie o della sua prosa su Uccello. L’insieme potrebbe formare un piccolo romanzo fatto di lettere che potrebbe risultare assai curioso» (lettera di Jacques Rivière ad Antonin Artaud del 24 maggio 1924, in Artaud 1966, 21).
18 Lettera di Antonin Artaud a Jacques Rivière del 25 maggio 1924, in Artaud 1966, 22. Ancora sullo stesso tema: «Bisogna che il lettore creda a una vera malattia e non a un fenomeno dell’epoca, a una malattia che tocca l’essenza dell’essere e le sue possibilità centrali d’espressione e che si applica a tutta una vita» (ivi, 23). A proposito, poi, dell’impotenza a concentrarsi su un oggetto che Artaud riscontra nella letteratura francese del tempo (Tzara, Breton, Reverdy), egli afferma: «Questa inapplicazione all’oggetto che caratterizza tutta la letteratura, in me è una inapplicazione alla vita» (Ibid.). La lettera di Artaud del 6 giugno è egualmente ripiena di accenni alla vita: «Hanno [le mie debolezze] radici vive, radici d’angoscia che toccano il cuore della vita; ma non possiedono lo scompiglio della vita, non vi si sente quel soffio cosmico di un’anima scossa alla base. […] una volontà superiore e cattiva attacca l’anima come vetriolo, attacca la massa parola-e- immagine, attacca la massa del sentimento, e lascia me ansimante, come sulla soglia della vita. […] Queste opere azzardate che spesso sembrano il prodotto di uno spirito non ancora in possesso di sé e che forse non si possiederà mai, chi sa quale cervello nascondono, quale potenza di vita, quale febbre pensante che le sole circostanze hanno ridotto» (Artaud 1966, 24-25).
Premessa e una lunga Postfazione dello stesso Ortesta, una sintetica Notizia sulla vita e le opere e una Nota bibliografica, infine una corposa appendice di testi-
monianze (di Ravagli, Soffici, Papini) e lettere. Proprio le lettere, insieme alla presenza di una Nota autografa di Dino Campana, sembra abbiano per scopo di farci udire la voce (per quanto scritta) di Campana stesso non filtrata da quella dello psichiatra. L’intera operazione di Ortesta si configura, a partire da questo indizio, come una vera e propria revisione critica dello studio di Pariani, il quale ha commesso il grave errore di scindere follia e poesia, affidando alle risposte fin troppo pulite del paziente “addomesticato” alle proprie domande il compito di chiarire genesi e funzionamento dei Canti orfici e mancando di interrogare, allo stesso fine, il linguaggio schizofrenico del poeta-malato:
Si è privilegiata, invece, la chiarezza e la ragionevolezza della parte meno pericolosa, quella in cui il discorso del poeta recluso si conforma all’ordine delle cose per poter parlare della poesia.
Pensiamo che il discorso della follia e il discorso della poesia abbiano modalità diverse, ma crediamo anche che entrambi riguardano sempre un solo oggetto: l’unicità del corpo, il suo movimento, il suo desiderio.20
A partire da questo presupposto, Ortesta propone nella Postfazione una let- tura dei Canti orfici che ne fa la risposta a una minaccia di perdita del sé. Come suggerito da Charles Mauron nella sua Introduction à la psychanalyse de Mallar-
mé, un nodo di dolore determina l’opera, che pur non potendo prescinderne si
realizza superando tale condizionamento nella libertà della creazione artistica. Rispetto al rischio di scissione che minaccia l’io, «Il libro è, quindi, negazione e affermazione al tempo stesso: negazione rivolta contro la minaccia che mira a infrangere l’identità dell’io; affermazione di una realtà scissa, di cui l’io si fa
portatore ’registrandola’ nella scrittura».21 La strada seguita è quella della mi-
mesi del male: attraverso la messa in scena di una schizofrenia simulata, l’io è esautorato della sua facoltà di reggere il discorso e tale compito è affidato a una
terza persona (lo stesso io dislocato e spossessato)22 che può coincidere con gli
organi stessi:
Dopo la stretta delle Chimere minacciose e folgoranti, non è più l’«anima» (l’unità della coscienza) che scrive, ma gli organi: la testa, la penna-prolungamento della mano; e scrivere diventa “scorrere” e “stridere”. La scrittura degli organi è registrazione dell’assenza dell’io, registrazione della mancanza del momento
20 Ortesta 1978a, 8. 21 Ivi, 162.
22 «Il viaggio a ritroso che si compie nel libro è viaggio verso la propria identità, che comporta una modificazione, un dislocamento dell’io dal piano lirico-monologante al livello di funzione ’registrante’ leggi che sono quelle del sogno e dell’inconscio» (ivi, 163). L’esempio portato da Ortesta è quello della scansione enunciativa della Notte.
unificante della parola che evoca o designa un’identità esterna o interna che sia.23
Ciò che è più significativo, però, è che nel momento di definire tale mimesi
psicotica Ortesta faccia ricorso al verbo artaudiano patire (souffrir)24 sperimen-
tato solo l’anno prima nel poemetto:
In Campana […] la minaccia della schizofrenia è scongiurata nella misura in cui essa viene ’patita’, mutilazione che rende scenario e rappresentazione sia l’esterno (la minaccia) sia l’interno (l’io). La forza visionaria, di cui si è parlato a proposito della poesia di Campana, è appunto la messa in gioco di questo doppio scenario generato dallo sdoppiamento d’identità.25