3.7.2 I concetti di habitus e di pratica
4. REGGIO CALABRIA: UNA RICOSTRUZIONE STORICA
4.4. Reggio nella seconda metà del ventesimo secolo
4.4.1 Le condizioni socio- economiche
Secondo i dati del primo censimento post-bellico, effettuato nel 1951, la popolazione reggina contava 140.734 abitanti. Rispetto al 1936, si era verificato un incremento di circa 21mila persone, corrispondente ad un tasso di crescita del 17,4%. La popolazione raggiungerà nel 1971 165.882 residenti (di cui il 68% abitante in città), con un incremento di circa 25 mila abitanti rispetto al 1951. Incrementi significativi si verificavano anche per quanto riguarda il livello d’istruzione122 ma dal punto di vista economico la situazione era meno favorevole. Infatti, la partecipazione al mercato del lavoro, misurata dal tasso di attività, risultava molto bassa (33%), vi era un alto tasso di disoccupazione riguardante oltre 10mila persone (20%) e 4.100 reggini erano in cerca di prima occupazione (pari all’8% della popolazione attiva). Un altro aspetto di rilievo riguarda la specializzazione settoriale degli attivi. Si verificava un’espansione del settore terziario, specialmente nei comparti della Pubblica amministrazione, dei trasporti e delle comunicazioni, mentre erano sottodimensionati il settore primario e quello dell’industria manifatturiera123. Agli inizi degli anni cinquanta, dunque, ricorda Cersosimo (1993), Reggio presentava una struttura demografica ed economica urbanizzata ma erano acuti i problemi sociali legati al lavoro, essendo diffusi la disoccupazione ed i rapporti di lavoro nero e precario124. Questi caratterizzavano specialmente il settore dell’edilizia che si trovava in una fase congiunturale negativa. La situazione non migliorò nel corso degli anni cinquanta: l’espansione edilizia ed ancor più la realizzazione di opere pubbliche, infatti, furono modesti a causa delle precarie condizioni delle finanze comunali.
Il comparto delle costruzioni, anche se ancora non era adeguato alle esigenze abitative, si mostrò, comunque, come uno dei più dinamici e con una maggiore crescita occupazionale125. Sempre nel corso degli anni cinquanta, le attività economiche non produttive del commercio e dei pubblici esercizi mostrarono una positiva capacità di espansione, fino ad occupare oltre 8.000 lavoratori. Erano in crescita anche le attività di trasporto e di comunicazione (con una forte presenza dei
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Nel 1951 ben 2.358 reggini (pari al 1.92% dei residenti con oltre sei anni di età) era in possesso di laurea, contro lo 0.7% in Calabria e l% in Italia. Il tasso di analfabetismo era pari al 18,9% a Reggio ed al 31.8% in Calabria.(Cersosimo, 1993: 369)
123 Meno di un quarto (24.6%) della popolazione attiva faceva capo all’agricoltura, rispetto al 63,4% ed al 42.2% che
erano, la percentuale calabrese e quella italiana. Quasi la metà della popolazione attiva (46.6%) era assorbita dal terziario, pubblico e privato, rispetto al 15% ed al 25% che erano le quote degli attivi nel terziario in Calabria ed in Italia. Il 28.8% degli attivi era presente nel settore industriale e tra essi ben il 60% nel comparto delle costruzioni edili (ibidem:369-370).
124 Il 55% degli attivi reggini nelle attività extragricole non risultava occupato. Nel settore edile risultavano circa 1.100
addetti a fronte di 7000 attivi (ibidem).
125 Nel settore edilizio, che divenne l’attività a maggior assorbimento di forza lavoro, nel 1861 risultarono oltre 8000
lavoratori delle ferrovie), la Pubblica amministrazione e l’area dell’intermediazione creditizia. Così, agli inizi degli anni sessanta, si delineava “(…) un modello di crescita sempre più incentrato sul binomio blocco edilizio-terziario, ovvero sulle capacità dei ceti dominanti reggini di intercettare e catturare risorse e occasioni finanziarie esterne in grado di sostenere i redditi e la domanda aggregata locale, senza peraltro riuscire ad attivare meccanismi di sviluppo endogeno”(Cersosimo, 1993: 370). Il settore primario mostrava una forte diminuzione attrattiva, mentre si accentuava la spinta alla terziarizzazione degli assetti occupazionali, tanto da far parlare di un caso, quello reggino, di terziarizzazione precoce126. Il modello di sviluppo, basato sui trasferimenti esterni e sulla crescita dei consumi, durante gli anni sessanta, subì una forte accelerazione anche se, agli inizi del decennio, erano state alimentate le speranze di una maggiore crescita produttiva; il Governo, infatti, aveva adottato due provvedimenti che interessavano l’area reggina: innanzitutto l’avvio della costruzione dell’autostrada nel tratto Reggio Calabria – Villa San Giovanni e poi l’insediamento dell’Omeca (Officine Meccaniche Calabresi), stabilimento industriale per la produzione di materiale ferroviario. Questi investimenti, però, non costituirono l’occasione per il decollo dell’industrializzazione reggina127.
4.4.2. I fenomeni insediativi negli anni cinquanta
La città presentava una struttura nord-sud, parallela alla linea di costa, disegnata dopo il sisma del 1908 che favorì la realizzazione di un continuum urbano con i comuni contermini; alcuni di essi, come già detto, conseguirono l’autonomia, altri rimasero annessi alla città, come le grandi frazioni di Gallina, Catona e Pellaro, a sud e a nord della città.
Si assisteva in questo tempo ad una notevole espansione demografica, dovuta soprattutto all’arrivo di quote crescenti di popolazione dall’intorno provinciale di Reggio. Queste ponevano anche la domanda di nuove abitazioni, fabbisogno abitativo che si aggiungeva a quello già esistente dovuto alla riparazione dei danni provocati dalla seconda guerra mondiale ed al completamento dei lavoro di sbaraccamento. Nel 1953, ancora 107 famiglie rimanevano nelle baracche, permanevano aree di forte degrado abitativo e di esclusione sociale (Sarlo, 2004: 57).
La città pertanto iniziò la sua espansione estendendosi inglobando aree prima destinate all’uso agricolo; gli interventi realizzati saranno spesso il risultato di logiche contingenti e spontanee
126 Nel 1961, il settore primario assorbiva solo il 14,6% della popolazione attiva, mentre nei servizi pubblici e privati
gravitava circa il 53% della popolazione attiva, una percentuale di molto superiore a quella nazionale e ancor più a quella regionale (ibidem: 373)
127 Per quanto riguarda le Omeca, la previsione di circa 2000 occupati non si realizzò; vennero occupati solo 813
lavoratori, per molti dei quali, inoltre, nella seconda metà degli anni Ottanta, si ricorse alla Cassa integrazione guadagni, data la crisi delle commesse industriali (ibidem: 373-374).
(Sarlo, 2004: 59). A Sud della città, la cosiddetta “area dei giardini, al di là della fiumara Calpinace, nel dopoguerra iniziò ad essere interessata da fenomeni insediativi. Negli anni cinquanta dal quartiere Ferrovieri ( costruito negli anni quaranta nei pressi dello stadio, allora punto terminale della città) partì un processo di espansione edilizia che porta alla congiunzione con il Rione Ceci (costruito negli anni trenta e di recente abbattuto). Altri insediamenti, inoltre, vennero realizzati lungo la vecchia SS 106 (attuale via Sbarre centrale) saldandosi con le costruzioni di tipo rurale già esistenti. Un sistema di macro isolati sarà poi realizzato in connessione con la via Sbarre superiori. (Sarlo58). Tra le opere realizzate dall’intervento pubblico in questi anni è opportuno ricordare la realizzazione di costruzioni a carattere economico e popolare nei rioni di San Brunello, Viale V°, Gebbione e Modena (1955-65) .
A Nord, la fiumara Annunziata, era stata già superata negli anni trenta con la realizzazione del quartiere S. Caterina. In quest’area i processi di espansione edilizia si realizzarono con la presenza di costruzioni poste lungo la SS18, che via via andavano riempiendo gli spazi vuoti; i centri abitati costieri di Gallico e Catona, poi, subirono anch’essi un’espansione con la realizzazione di edifici che mantenevano il tradizionale impianto a scacchiera. Il processo di espansione edilizia si verificò anche nell’area adiacente al margine est della città. Gli insediamenti realizzati verso l’interno non seguirono più le linee guida del piano poste come criterio d’ordine e come tutela da possibili terremoti; la realizzazione delle costruzioni piuttosto seguirà i percorsi accidentati del territorio.In questo periodo, inoltre, iniziò un processo di espansione le strade di collegamento con i centri interni, piccoli nuclei abitati ai margini città (Spirito Santo, San Cristoforo, Eremo, San Giorgio, ecc). Questi processi insediativi successivamente si dilateranno ed oggi sono in realtà i quartieri di prima periferia della città. Si avvertì anche necessità di servizi e infrastrutture pubbliche, ma la gestione comunale non riuscì a realizzare politiche adeguate alla nuova realtà insediativa caratterizzata soprattutto dalla dicotomia tra centro e frazioni. Le principali questioni riguardavano innanzitutto l’approvvigionamento idrico (ancora oggi aspetto problematico della città), la viabilità e la dotazioni dei servizi soprattutto nei centri rurali (Sarlo, 2004).
Così, uno degli intervistati (Intervista 3) ricorda che la città di Reggio Calabria, pertanto si trasforma. La città, fortemente caratterizzata dalla presenza del latifondo (la proprietà non era diffusa), cambia completamente; cambia la città e cambia la società. Si forma una nuova classe borghese, costituita da professionisti, che conquista uno spazio sempre maggiore nella città
4.4.3. La forte espansione edilizia degli anni sessanta
Reggio appariva, formata da un nucleo storico attorno al quale si era via via aggiunta una cintura urbana composita; al di là delle fiumare sorgevano i primi quartieri popolari, vi erano i tradizionali
insediamenti agricoli ma anche fasce di baracche, residui del grande terremoto, e le casette popolari, definite “quartieri minimi” che in realtà sembravano prolungare la logica delle baracche. Inoltre, si verificavano condizioni di sovraffollamento fino alla presenza di tre anche quattro persone per stanza.. I rioni Marconi, Modena e Cusmano erano quelli particolarmente degradati e a questi si aggiungevano le zone sorte sulle pendici collinari negli anni sessanta secondo le nuove disposizioni antisismiche (Soriero, 1993).
Dopo gli insuccessi in ambito industriale, lo sviluppo di Reggio Calabria, nel corso degli anni sessanta, si caratterizzò per una forte crescita dell’edilizia residenziale. E’ negli anni sessanta che si realizzò, infatti, la più forte spinta all’edilizia abitativa. Nel decennio 1961-1971 furono costruite circa 13000 nuove abitazioni (+ 37.3%) un incremento importante se si tiene conto che nel quindicennio 1946-1960 ne erano state costruite poco più di 10mila. Le nuove abitazioni costruite ed occupate da famiglie furono circa 10.000, cosicché nel 1971 si contavano quasi 43mila unità abitative. Si verificò anche una crescita delle abitazioni non occupate che, nel periodo 1961-71, passarono da 1.281 a 4.302 unità. Si trattava del fenomeno della costruzione di case fine a se stesse, le quali non rispondevano a fabbisogni abitativi: oltre alla costruzione di seconde case sulla costa, l’edilizia abitativa divenne, per un nucleo di grandi e medi costruttori locali, l’attività principale volta al raggiungimento di obiettivi di valorizzazione ed accumulazione del capitale. Sempre negli anni sessanta le abitazioni furono provviste di maggiori servizi interni e si ridusse il numero di coloro che vivevano in condizioni di estremo disagio, cioè in ruderi ed in tuguri128.
Tuttavia questa crescita edilizia non costituiva una risposta alla domanda di alloggi di natura economica e popolare. A tal fine fu elaborato un Piano di acquisizione delle aree fabbricabili, il quale prevedeva interventi di edilizia economica e popolare in tre aree: a Sud della città, nel quartiere di Sbarre, si costruiranno fino agli anni 80 abitazioni di questo genere; altri interventi riguarderanno il quartiere Modena ed a Sud la zona di Archi dove nel 1961 venne avviata la costruzione di un quartiere residenziale coordinato (CEP)129. Non vennero invece realizzati i lavori di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio nei quartieri ultrapopolari; si procedette
128 Dal 1961 al 1971, gli alloggi atipici si ridussero da 3.764 a 189 e coloro che vi risiedevano passarono da 13.613 a
709. L’allacciamento alla rete elettrica fu reso disponibile alla quasi totalità della popolazione, l’acqua potabile raggiunse il 90% delle case rispetto al 68% di dieci anni prima e quasi i due terzi delle abitazioni risultarono fornite di servizi igienici rispetto ad un quarto del 1961. Dal 1961 al 1971, gli alloggi atipici si ridussero da 3.764 a 189 e coloro che vi risiedevano passarono da 13.613 a 709. In complesso, si raggiunse un grande miglioramento dato che solo 55 abitazioni rimanevano sfornite di tutti i servizi rispetto alle 1.578 del 1861. (Cersosimo, 1993: 375-377).
129 Il quartiere CEP di Archi divenne un quartiere pervaso dalla presenza della mafia ed in cui si manifestarono
processi di forte degrado sociale. Successivamente, l’unico piano integrato di edilizia sociale nel rispetto del piano regolatore fu realizzato in viale Calabria, nella zona sud, alle spalle del Colopinace. Nei quartieri antistanti, invece, si aprirono spazi di edilizia abusiva, spesso per lungo tempo in stato di completamento. (Intervista 1).
soltanto al riscatto dei vecchi alloggi sulla base di criteri valutativi accettati dagli individui (Sarlo, 2004: 60-61)130.
Parallelamente all’intervento pubblico, la città continuava a crescere in assenza di regole stabilite. Tale crescita fu anche favorita dalla nuova legge sismica nazionale del 1962 ; essa consentiva nuove altezze per le strutture in cemento armato, sopraelevazioni per i fabbricati esistenti e concedeva la possibilità di ricostruire o costruire nuove abitazioni nei vecchi centri abitati, “dando indicazioni di natura squisitamente tecnica e non di organizzazione urbana”. gli effetti di questa legge saranno evidenti nella cosiddetta città chiusa (corrispondente al perimetro urbano fissato dal piano De Nava) e nelle zone di nuova espansione dove si realizzeranno concentrazioni insediative ad alta densità. Nella città chiusa, in assenza di un piano regolatore, alcuni isolati del piano De Nava saranno sostituiti da nuovi edifici alti sei piani, pari al massimo dell’altezza consentita e avranno origine processi spontanei di sopraelevazione (Sarlo, 2004: 61-62). Reggio, dunque, negli anni sessanta, fu interessata da un’enorme espansione urbanistica e da profondi sconvolgimenti degli assetti territoriali. In assenza di vincoli ed indirizzi, la città si dilatò in tutte le direzioni, soprattutto nelle zone periferiche e sulle colline, “(…)in modo disordinato e caotico (…)ricoprendo aree verdi di enorme valore paesaggistico provocando strozzature irreparabili nel sistema viario e insediativo, senza riservare aree destinate alle attrezzature collettive e ai servizi pubblici Così i nuovo insediamenti hanno costituito agglomerati edilizi che non possono assolutamente definirsi quartieri o unità urbane; si tratta in realtà, esclusivamente, di edifici accatastati l’un contro l’altro senza alcuna logica e senza alcuna visione unitaria, altimetrica o planimetrica” (Sarlo, 2004: 63).”. Si verificò una trasformazione fisica della città che si intrecciava con una trasformazione sociale. L’alta aristocrazia agraria, come detto prima, si era stabilita in città intorno agli anni venti, realizzando grandi palazzi, continuando ad incassare i proventi dell’attività agraria ed avviando nuove attività in città; dopo un po’ cominciò a partecipare al governo della città stabilendo accordi con le fasce della pubblica amministrazione e dell’alta borghesia professionale che andavano consolidandosi. Quote crescenti di popolazione dai dintorni di Reggio continuarono ad arrivare in città, trovando occupazione soprattutto nel settore dell’edilizia e stabilendosi in tutte le zone adiacenti al centro storico. Nell’ambito del nucleo storico si costruirono perlopiù palazzi secondo le regole e secondo certi canoni di decoro e di prestigio ma in tutte le zone intorno al centro si avviò una forte propensione all’edilizia abusiva che poi diventò anche occasione di speculazione. Nelle immediatezze del centro storico sorgevano quartieri inizialmente popolari a cui
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Nel decennio 1960-70 furono realizzati quartieri di edilizia economica e popolare: il quartiere CEP di Archi, l’area Gescal di Gebbione, il PEEP di Sbarre, il quartiere Marconi ed il quartiere Modena.
si mescolavano palazzi con caratteristiche qualitative migliori, destinati ad una domanda con maggiori possibilità economiche (Intervista 1).
Nonostante ciò continuava a rimanere in vigore il vecchio piano regolatore del 1914. La discussione sul nuovo piano costituiva “(…) un alibi per gli amministratori indisponibili a intaccare gli interessi privatistici sul territorio o almeno a limitarne gli effetti (…) eppure l’esigenza di avere un piano per Reggio era impellente. (…) Ma le forze che amministravano la città tendevano a svuotare i poteri pubblici di ogni capacità di controllo sull’uso del territorio (…)” (Soriero, 1993).
4.4.4. Il piano negato
Alla fine degli anni ’60, la città di Reggio appariva distinta sia dal territorio agricolo che la circondava sia dagli altri centri abitati, capoluoghi di comune autonomi prima di confluire nella “Grande Reggio”. Nel 1970 fu adottato il nuovo piano regolatore della città, redatto dall’architetto Quaroni, approvato nel 1975 ma mai attuato131. La città, infatti, mostra oggigiorno un assetto completamente diverso da quello previsto nel piano. “Alla realizzazione del piano si è sostituita “(…) una grande macchia di residenza abusiva, spesso di pessima qualità architettonica ed ambientale” (Ziparo, 1995: 15). La città è cresciuta in assenza di ogni regola urbanistica. L’incapacità di gestione e di controllo dell’espansione urbana è dimostrata da dati relativi al fenomeno dell’abusivismo: 22.000 casi nel 1992 e ben 45.000 nel 1995 (Sarlo, 2004).
Il piano del 1970 è stato definito il “piano negato” alla luce delle costruzioni realizzate in contrasto con le sue previsione ed in mancanza di autorità politiche o d’interessi atte a sostenerne l’attuazione. La classe politica che aveva legittimato del piano fu sostituita in seguito agli sconvolgimenti politici e sociali provocati dai moti di Reggio del 1970. Da allora, processi di edificazione hanno investito tutta la fascia costiera e l’entroterra senza criteri di zonizzazione a livello sia di lungo che di breve periodo. “Parlo di edificazione – scrive d’Orso Villani - perché di questo si tratta e non di urbanizzazione: edifici in prevalenza per abitazioni, costruiti su terreni agricoli senza nessuna mediazione tecnico-politica di natura urbanistica”. A Reggio Calabria sembrano intravedersi due città: la Reggio del Piano De Nava corrispondente al decoroso ambiente costruito nei primi del novecento, dopo il terremoto, l’altra, appena fuori da questo contesto, appare tutto il contrario della prima. “Sembra un’altra città. Separata dalla vecchia, ha dilagato in ogni direzione a partire dalle strade e dai piccoli abitati, invadendo senza nessuna regola urbanistica (e civile) la campagna circostante. Una città cresciuta con un continuo e progressivo accostarsi di iniziative senza legge e senza qualità. Piccoli fabbricati l’uno diverso dall’altro, molti a più piani,
131 Tra le scelte contenute nel piano vi era l’idea di inserire la città nell’area metropolitana dello Stretto, dando vita ad
costruiti alla rinfusa sui frazionamenti e sui vecchi tracciati agricoli, quasi tutti non finiti e abitati solo in parte”. Tra gli edifici, inoltre, rimangono residui di vecchi appezzamenti (Francesco Paolo d’Orso Villani: 338). Questa seconda città progressivamente si allinea alla città regolare (dove si insediano le infrastrutture pubbliche) diventandone la periferia. Ai fabbricati di medie e piccole dimensioni, più o meno completati, si sono poi aggiunti, i grossi condomini ed i complessi residenziali formati da più edifici che concorrano a definire il volto della periferia. Il disordine edilizio creatosi nella città ha origine anche nel determinarsi di un rapporto di tipo privatistico del singolo cittadino con il territorio al di là di ogni logica orientata la bene comune.
Dopo l’approvazione del piano, paradossalmente, avvenne, in tutte le zone adiacenti al centro, una crescita accelerata dell’abusivismo che venne sancito dallo stesso potere locale per molti anni. Non esistevano altri settori in cui investire, non c’era capitale economico; gran parte del piccolo risparmio accumulato fu investito nel settore delle costruzioni, in cui mancava ogni controllo normativoSi costruiva ovunque, sparivano i giardini, gli spazi verdi dove giocavano i bambini; quelle che una volta erano campagne aperte, come Gebbione, divenivano insediamenti con migliaia di abitanti, realizzati in assenza di strumenti di regolazione e al di fuori dell’idea dello spazio come bene collettivo. Anzi, si verificava pure un «conflitto generazionale, tra padri e figli»: i primi occupavano gli spazi dove giocavano i propri figli, superando, così, pure i legami affettivi personali. L’abusivismo presentava in molti casi forti connotazioni mafiose, altre volte era un abusivismo, detto di necessità, messo in atto da singoli proprietari di terreni che costruivano per sé una casa spesso completata solo in parte. Questa trasformazione sregolata del territorio ha sancito il degrado paesaggistico ed urbanistico, ha finito col cancellare i contenuti culturali urbani, col rendere più radicata la tendenza all’illegalità e col favorire la presenza della criminalità (Intervista 1).
Lo sviluppo urbanistico di Reggio, come quello delle altre città calabresi, in questi decenni fu caratterizzato dagli esiti delle politiche incentrate sulla funzione delle opere pubbliche come volano di sviluppo. Il meccanismo dei lavori pubblici si intensificò e determinò un certo dinamismo nei ceti legati all’edilizia, influenzò gli orientamenti politici e diede vita a nuove strategie di mediazione del consenso. “Erano questi gli effetti di predominanza di quel ceto pubblico urbano che aveva fatto dell’edilizia il perno di un processo di erogazione assistenziale dello Stato verso le popolazioni calabresi. La stabilità di questo ceto viene pagata dallo Stato, oltre che col trasferimento di risorse sempre più cospicue nel settore delle costruzioni nelle città, con il mantenimento di larghe fasce di emarginazione sussidiata nelle campagne” (Soriero, 1993: 765). Per tutto ciò non si progettarono né si realizzarono piani di sviluppo ed il centro urbano crebbe in modo disordinato, “a metà tra il