• Non ci sono risultati.

3.7.2 I concetti di habitus e di pratica

4. REGGIO CALABRIA: UNA RICOSTRUZIONE STORICA

4.3. Reggio nel periodo fascista

4.3.1 L’espansione edilizia

Negli anni Venti, Reggio si caratterizzava per un’economia agraria nella mani di pochi latifondisti. La classe media era invece priva di iniziative imprenditoriali. La ricostruzione della città non era stata ancora completata. Il problema della casa insieme a quello dell’occupazione costituivano i principali nodi problematici di quel tempo.

All’avvento del fascismo Reggio si trovava in una condizione di grave crisi economica, caratterizzata dall’arresto del processo di ricostruzione dovuto, soprattutto, alla contrazione dei trasferimenti finanziari pubblici. E’ nel 1925 che, con la ripresa dei finanziamenti, l’attività di costruzione pubblica e privata riprese il via con una forte accelerazione. Alla fine dello stesso anno, il fabbisogno abitativo della popolazione reggina risultava evidente: ancora 4350 famiglie, ossia 17mila abitanti, vivevano nelle baracche dell’Ente Edilizio, ma si ritenevano necessarie abitazioni per 18mila persone.

Un piano quinquennale, redatto dall’Ente, prevedeva per due terzi la costruzione di case popolari e per il rimanente terzo case economiche e per gli impiegati. Il Piano di Massima (approvato nel 1925) prevedeva la realizzazione di quartieri popolari sulla base delle differenti categorie sociali a cui questi edifici erano destinati. Nelle periferie estreme sarebbero sorti i quartieri popolari, mentre, a ridosso del centro storico sarebbero sorti i quartieri economici per gli impiegati ed i dipendenti statali. In particolare, erano previste quattro zone. Nella prima zona, a nord della città, oltre il torrente Annunziata, veniva insediato un quartiere esclusivamente popolare. La seconda zona era compresa tra la fiumara Annunziata ed il torrente Caserta (rioni Borrace, Tremulini, Annunziata e Americano) ed era destinata a quartiere popolari nei pressi del Torrente Annunziata e a monte del prolungamento del Corso Garbali, mentre nelle aree più prossime a quest’ultimo (via De Nava e via Veneto) trovava insediamento un quartiere economico impiegatizio. La terza zona, dal torrente Caserta alla via B. Camagna (rioni Caserta, S. Lucia, Friuli, S. Marco, Scordo), prevedeva insediamenti economici per impiegati superiori e di concetto. Infine la quarta zona da via B. Campagna al torrente Calopinace (rioni Crocefisso, Gabelle e Mezzacapo), era destinata in parte a insediamenti per i cosiddetti “impiegati subalterni”, e in parte insediamenti popolari (Sarlo, 2004).

L’attuazione del Piano, anche a causa di numerose modifiche attuative, richiese un numero di anni maggiore rispetto a quelli previsti. Il triennio compreso tra il 1926 ed il 1929 fu il periodo (di maggiore apertura del governo fascista nei confronti del meridione) più ricco di trasferimenti finanziari per l’edilizia di tutto l’intero ventennio fascista, cosicché tra il 1927 ed il 1930 vennero realizzati 1.033 alloggi economici, pari al 30% delle abitazioni totali realizzate dall’Ente tra il 1924 ed il 1952. Alla fine degli anni trenta, quando gran parte dei lavori di sbaraccamento erano stati

completati. l’Ente edilizio aveva costruito circa quattromila alloggi. La realizzazione di abitazioni fu rivolta soprattutto ai bisogni abitativi medio-bassi: furono, quindi, pensate le case per gli impiegati dello Stato e quelle per le fasce più svantaggiate della popolazione reggina. Le prime furono localizzate in zone abbastanza centrali dove sorsero fabbricati in cemento armato composti da due o tre piani. Le seconde, cosiddette case popolari, vennero costruite sulla base di due moduli diversi: su isolati più o meno centrali furono costruite le case popolari a tipo intensivo, costituite da edifici di due o tre piani di proprietà dell’ente; ai margini del piano regolatore furono costruite le case ultre-popolari dette “rurali” o “minime” ad un solo piano, concesse a fitti bassi. Alcune di esse erano dotate di piccoli orti circostanti e, così, si costituirono veri e propri villaggi rurali come il Villaggio Marconi, con 219 alloggi (Cersosimo, 1993; Bevilacqua, 1985; Menozzi, 1983)

Nella seconda metà degli anni venti, all’intensa crescita dell’edilizia residenziale sovvenzionata si accompagnò una notevole crescita dell’edilizia privata120, delle opere pubbliche (tra cui lo stadio, nel 1932, nel rione ferrovieri e l’aeroporto, nel 1937, nella zona Ravagnese) e degli edifici di culto cosicché apparve delineata la nuova immagine della città.

Sintentizzando, tra gli anni Venti e Trenta, si era configurato il nuovo volto della città. Agli edifici costruiti nel primo dopoguerra e agli alloggi realizzati per gli impiegati e per una parte di quanti vivevano nelle baracche, si erano aggiunti nel tempo rioni di edilizia economica e ultrapopolare e altre strutture pubbliche, identificate come “opere del regime”, quali la stazione ferroviaria, il Museo nazionale, nodi di cerniera tra centro e periferia cittadina, e l’ex Federazione fascista (Cingari, 1988; Menozzi, 1983). “In modo contrapposto all’area centrale della città si estendevano le periferie organizzate sulla base di rioni socialmente distinti con una scansione fisica dell’insediamento in termini di distanza dalla parte centrale cui corrispondeva una scansione delle diverse categorie sociali, da quello impiegatizio, più vicino al centro, a quello ultra-popolare, fuori dal perimetro del piano 1911121” (Sarlo, 2004: 56).

Per quanto riguarda gli effetti dell’attività edilizia sull’economia della città, Cersosimo (1993) fa osservare che negli anni venti si attivò un dinamico trend economico ed occupazionale proprio grazie alla rapidità dello sviluppo edilizio, all’intensa opera di demolizione delle baraccopoli ed al ripristino ed all’ampliamento del capitale fisso sociale. Il ciclo edilizio assunse una funzione ambivalente: da un lato esso costituì l’unico motore della crescita economica reggina dando opportunità di occupazione e di reddito, dall’altro, essendo esso la risorsa principale dell’economia

120 L’edilizia privata, ad opera soprattutto del ceto dirigente della città, anche se inizialmente lenta, si sviluppò lungo il

corso Garbali e nelle vie parallele, a monte e a valle, comunque nella zona centrale del Piano De Nava. (Sarlo, 2004)

121 Così viene commentata la Reggio degli anni venti: “ (…)benché ricostruita solo in parte, doveva essere una città di

provincia gradevole; le note dei viaggiatori di allora rilevano le sue caratteristiche, le decorazioni, i colori, i tetti, i rapporti, gli spazi. La luce del mare filtrava dalle perpendicolari in pendenza, mai bloccata da una palizzata oscurante” (Menozzi, L., cit. p. 108).

cittadina, accentuò la dipendenza dello sviluppo economico dai trasferimenti finanziari esterni indebolendo le potenzialità interne di attivazione.

Dopo il 1927 ci fu una restrizione dei finanziamenti a favore dell’edilizia pubblica, il che comportò una crisi occupazionale e lasciò irrisolto il problema delle abitazioni. L’interesse del governo fascista si spostò dalla città al territorio proponendo interventi di bonifica di grande portata nelle zone malariche e spesso colpite da alluvioni. Ma risultati di tale tentativo furono del tutto insoddisfacenti a causa della struttura del latifondo. Contrasti e dissidi animavano le vicende tra quanti volevano mantenere i rapporti di proprietà preesistenti e quanti erano a favore di una trasferimento di buona parte delle terre bonificate ai contadini. I legami tra i latifondisti e gli esponenti del governo fascista non consentirono la realizzazione di grandi cambiamenti. Sempre a cavallo degli anni trenta il fascismo si dedicò anche alla realizzazione nel centro cittadino di scuole ed ospedali (Menozzi, 1983).

Successivamente all’opera di ricostruzione portata avanti dall’Ente edilizio grazie al maggior impegno del governo fascista, la città di Reggio, composta in gran parte da un insieme di isolati tutti uguali (allineati sul filo stradale ed esternamente omogenei si differenziano al loro interno) e da lunghe strade intervallate da piazze, mostrava una sua riconoscibilità rilevabile “nel rapporto tra strada e isolati, tra spazio pubblico e spazio privato, tra costruito e non costruito. La strade è spazio servente per eccellenza, “connettivo urbano” unico tra le diverse attività. Ciò fa sì che la città ricostruita divenga testimonianza profonda di una esperienza sistemica dello spazio, in particole dello spazio aperto collettivo, e dei suoi rapporto con i volumi edificati [Questa particolare organizzazione] (…) fa sì che la città dei quadratini divenga sufficientemente flessibile per accogliere con indifferenza di accessibilità e dimensioni le diverse attività, cosicché la mixitie si realizza in modo adeguato e la contiguità relativa tra le funzioni e la strada “disimpegno” comune consente l’accadimento della vita sociale” (Campanella, 2004: 49-50). In seguito l’assenza di regolamentazione urbanistica viene riconosciuta come la chiave per comprendere le trasformazioni della città. Quello del 1911 sembra esser l’ultimo piano che ha determinato la trasformazione della città e la sua configurazione in quella che oggi costituisce l’area centrale della città (Campanella, 2004; Sarlo, 2004).

4.3.2 La «Grande Reggio»

La città si espandeva lungo il litorale, sia a sud che a nord, ma le sue possibilità espansive erano limitate dalla disseminazione, lungo la fascia dello Stretto, di numerosi comuni autonomi. Il policentrismo esistente era ritenuto una delle cause principali del mancato sviluppo di Reggio; si

considerava insufficiente il territorio della città rispetto alle esigenze di crescita economica, urbanistica ed anche rispetto alle moderne necessità di potenziamento dei servizi pubblici (Bevilacqua, 1985).

Nel corso degli anni venti, tra gli amministratori reggini e gli esponenti del governo fascista, sorse l’idea di inglobare nell’amministrazione unica di una «Grande Reggio» ben 14 comuni, immaginando il sorgere di una continuità urbanistica e la creazione di un legame organico, funzionale ed estetico tra i nuclei abitati lungo la costa; così, il 7 luglio del 1927 un Regio Decreto stabiliva tale aggregazione. In seguito alla dilatazione del perimetro comunale, Reggio diventò una “grande” città che si estendeva per 35 chilometri in lunghezza e comprendeva circa 120 mila abitanti. L’obiettivo di questa operazione fu quello di costituire un’importante unità incentrata sullo sviluppo industriale e commerciale dell’area dello Stretto. Ci si aspettava, dalla “Grande Reggio”, l’opportunità per avviare il processo industriale, essendo, fino ad allora, l’attività produttiva cittadina concentrata troppo sui settori dell’agricoltura e dell’edilizia; si sarebbe dovuto costituire anche un ampio bacino per dare occupazione alla forza lavoro crescente (Cersosimo, 1993).

Fu quella in realtà, una scelta in gran parte forzata, che gonfiava artificialmente le dimensioni

della città e ingigantiva, nei fatti, i problemi amministrativi e di governo di realtà molteplici e diverse. Ed essa, infatti non ebbe lunga vita: molti dei comuni inglobati sarebbero più tardi tornati alla loro autonomia” (Bevilacqua, 1985: 362). Villa San Giovanni, insieme a Cannitello, Campo di Calabria e Fiumara riconquistarono l’autonomia amministrativa. Alla gracilità dell’economia reggina si affiancavano le difficoltà gestionali dell’ampia superficie territoriale; fallirono, così, gli obiettivi di espansione industriale e di sviluppo economico ed urbanistico. Le speranze andarono deluse e anziché assistere al decollo industriale, la nuova istituzione comunale dovette fronteggiare una grave e lunga crisi economica. La realizzazione del progetto si scontrò con le debolezze economiche e le contraddizioni del contesto; ancora oggi il paesaggio urbano reggino mostra le cesure (soprattutto tra centri urbani e centri rurali) legate alla scelta di dilatare così artificiosamente la dimensione urbana di Reggio. L’operazione della “grande reggio”, dice uno degli intervistati, “portò ad avere una città in cui c’è un centro, un perimetro ristretto del territorio che è attrattore di tutte le funzioni, calamita di tutte le funzioni, di servizi, di scuole, (…), a cui fa da contrappunto una indistinta periferia luogo della marginalità” (Intervista 2). I comuni annessi, continua a dire l’intervistato, “, non hanno una loro identità precisa delineata, non sono diventati mai del tutto città, perchè basta dire che anche quando da questi comuni ci si sposta per venire verso il centro si dice “vado a Reggio”, vado in un paese altro, in un luogo altro” (ibidem). Anche altri intervistati riconoscono il generarsi di forti sperequazioni tra il centro e la periferia (Intervista 7).