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La regola sabiniana Evoluzione normativa e approcci ricostruttivi della sua ratio

Il recepimento dell’antica regola sabiniana, di origine romanistica 153 , all’interno dell’ordinamento italiano, ha conosciuto, nel tempo, diversi gradi di apertura, interessando dapprima le condizioni impossibili ed estendendosi, poi, anche a quelle illecite, per essere mantenuta fino ad oggi, pur non senza atteggiamenti di critica e malcontento, nell’ambito della disciplina testamentaria.

Sotto il vigore del codice civile del 1865 la regola sabiniana era riprodotta, attraverso l’art. 849 c.c., nella sua formulazione pura ossia in modo da non poter mai attentare alla validità della disposizione cui accedeva. Tale disciplina positiva, però, non sembrava rispondere pienamente alle esigenze emergenti in sede di tutela del voluto testamentario cosicché gran parte delle dottrina e della giurisprudenza ritennero di dover invocare, in simili casi, anche il dettato dell’art. 828 cod. civ 1865, che definiva prive di effetto le disposizioni universali o

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Sono considerate ormai valide e legittime le disposizioni testamentarie e donative compiute in favore di figli aduleterini o del convivente more uxorio: GARDANI CONTURS LISI, Donazioni, in Giur. sist. Civ. e comm.

diretta da W. Bigiavi, Torino, 1967, p. 224 ss.; Cass, 30 giugno 1950 n. 1678; Cass, 18 maggio 1963 n.1290

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In epoca giustinianea la scuola dei Proculiani e quella dei Sabiniani furono parti di una nota disputa, sostenendo, i primi, che in presenza di una condizione impossibile apposta ad una disposizione testamentaria, quest’ultima dovesse considerarsi del tutto priva di effetti, affermando, invece, i secondi, che gli atti inter vivos accompagnati da una simile condizione dovessero considerarsi pienamente efficaci, mentre, per quelli mortis

causa, la condizione andava considerata pro non scriptis. Il prevalere di tale ultima regola, determinato

dall’appartenenza di Giustiniano alla scuola sabiniania, non ricevette un immediato riscontro in termini legislativi, conoscendo piuttosto una progressiva applicazione in via interpetrativa.

particolari fondate su una causa erronea ed espressa la quale avesse assunto valore determinante per il testatore nonché dell’art. 1119 cod. civ. 1865, che prevedeva l’inefficacia dell’obbligazione priva di una causa o fondata su una causa falsa o illecita 154 . Successivamente il legislatore ha assunto una posizione propria rispetto alle scelte operate in altri sistemi europei155 rinunciando ad una regola sabiniana pura e stabilendo, attraverso il disposto dell’art. 634 cod. civ., la nullità dell’intera disposizione testamentaria qualora la condizione impossibile o illecita dovesse rappresentare motivo unico e determinante della

voluntas e ciò risulti dal testamento.

Si è così assistito, in virtù del collegamento con l’art. 626 cod. civ., al richiamo del principio

vitiatur et vitiat riconosciuto per la condizione contrattuale dall’art. 1354 cod. civ.. Detto

richiamo, intervenendo su di una norma di carattere eccezionale, quale si presenta l’art. 634 cod. civ., ne lenisce tale natura poiché la riporta sui binari della disciplina contrattuale arrivando a consentire, come detto, la pronunzia di nullità sull’intera disposizione ed anzi prestandosi ad una soluzione di maggior rigore rispetto a quanto stabilito in sede contrattuale dove, in presenza di una condizione risolutiva impossibile apposta ad un atto inter vivos, si consente la salvezza dell’atto al contrario di quanto è previsto per il negozio mortis causa. La ricerca di una esauriente e convincente giustificazione della regola sabiniana consacrata nell’art. 634 cod. civ. è risultata, già sotto il vigore dell’abrogato codice e, ancora oggi, con il suo abbandono, da parte del nuovo codice, della sua versione pura, particolarmente ardua e tortuosa.

La maggioranza delle voci dottrinarie italiane156, ancor prima della riproduzione della regola all’interno dell’attuale legislazione, stentava a ritrovarne un adeguato supporto razionale,

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DEIANA, I motivi nel diritto privato, Torino, 1939, I, 979; DEGNI, Illiceità dei motivi e illiceità della

causa rispetto ai negozi fondati su rapporti immorali, in Riv. dir. comm., 1911, II, p. 433; In giurisprudenza:

Cass. 7 giugno 1935 n. 2165, in Foro it., 1935, I 979. Il richiamo al concetto di causa illecita e non a quello di motivo illecito è dovuto alla mancanza, nel codice del 1865, di una norma analoga all’attuale art. 626 cod civ. 155

Negli ordinamenti europei l’accoglimento della regola sabiniana è avvenuto in modo non omogeneo, registrandosi, conseguentemente, diverse soluzioni disciplinari in materia di condizioni impossibili o illecite. In Francia l’art. 900 del codice civile del 1804 accoglieva il principio in modo immutato estendendolo altresì agli atti di liberalità pur consentendo, tuttavia, la dichiarazione di nullità della disposizione ove fosse accertato il valore impulsivo e determinante della condizione sulla liberalità. Nessuna regolamentazione normativa è prevista, invece, in Germania dove il BGB non contiene regole specifiche per le condizione testamentarie illecite o impossibili. La regola sabiniana viene qui veicolata in campo applicativo per il tramite della dottrina, in ossequio al favor testamenti, distinguendo, da un lato, le condizioni illecite o immorali e le condizioni sospensive potestative di natura potestativa, che rendono nullo il testamento e, dall’altro, le condizioni risolutive impossibili che si considerano come non apposte: DIETZ, Erbrecht, Bonn, 1949, p. 60; COING, Bedingung.

Zeitbestimmung, in Staudingers Kommentar zum B.G.B., Allgemeiner Teil, Vorben, Berlin, 1957 p. 916 ss.;

LEHMANN-HUBNER, Allgemeiner Teil des burgerlichen Gesetzbuches, Berlin, 1966, p. 282. 156

VITALI, Delle successioni legittime e testamentarie, IV, Napoli, 1909, p. 363; COVIELLO, Manuale del

diritto civile italiano, Parte generale, Roma, 1915-16, DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, Napoli,

1921, I, p. 275 ss; RAMPONI, Le condizioni di celibato e di vedovanza nei testamenti e nei contratti, Firenze, 1893, p. 22 ss; In epoca più recente: GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954;

ravvisando, tutt’al più, un atteggiamento di attaccamento e di fedeltà da parte del sistema verso la tradizione romanistica. Tale avversione non impedì, tuttavia, l’ingresso della regola nel nuovo codice pur se si passò da una versione pura della stessa ad una connotata dal richiamo al motivo illecito onde colpire, con la nullità, tutte quelle disposizioni testamentarie nelle quali la condizione fosse assurta a motivo determinante e ciò per adeguare il trattamento della condizione illecita a quello del motivo illecito.

Nella ricostruzione della ratio giustificatrice della regola sabiniana ha da sempre assunto ruolo preponderante il principio del favor testamenti, in ragione del quale giustificare una scissione della condizione illecita o impossibile dalla relativa disposizione testamentaria e giungere, così, a salvaguardare la validità ed efficacia di quest’ultima dal contagio della prima.

Invero, in coincidenza con l’evolversi del concetto di testamento, si è assistito, nel tempo, ad un corrispondente mutamento del concetto di favor testamenti, il cui significato, dapprima, fu letto in una chiave puramente oggettiva per poi assumere, in seguito, una valenza prevalentemente soggettiva. Nel sistema romano, infatti, al testamento era affidata la primaria funzione di designare l’erede, inteso quale soggetto con cui dare risposta ad interessi personali più che patrimoniali; competevano, invero, a quest’ultimo i compiti di dare continuazione al culto familiare, alle tradizioni, al nome, alle attività economico-giuridiche. Da ciò si comprende quanto fosse sentita l’esigenza di far salve le ultime volontà del de cuius e, in particolare, l’istituzione di erede anche se, a tal fine, si fossero rese necessarie manovre interpretative particolarmente ardite e sottili capaci di forzare e stravolgere il senso delle disposizioni pur di scongiurare l’apertura della successione legittima.

In una simile cornice il favor si atteggiava quale strumento di protezione, non tanto della

voluntas defuncti, quanto dell’heredis institutio e, in tale direzione, erano chiamati ad operare

i principi quali la regola sabiniana o il brocardo semel heres sempre heres. Obbiettivo era quello di eludere tutte quelle disposizioni testamentarie capaci di ostacolare la successione dell’erede e tra queste, evidentemente, rientravano le condizioni impossibili o illecite157. Quando la connotazione del negozio testamentario divenne prevalentemente patrimoniale, la volontà del testatore assunse un ruolo predominante e a porsi quale preoccupazione CIRILLO Disposizioni condizionali e modali, in Successioni e donazioni a cura di Rescigno, I, Padova, 1994, p. 1060.

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PEREGO, Favor legis e testamento, Milano, 1970; DE CUPIS, Il principio di conservazione

nell'interpretazione dei testamenti, in Dir. e giur., 1947, p. 85; BIONDI, Successione testamentaria - Donazioni,

Milano 1943, p. 3 ss.; D’ORTA, Saggio sull’heredis institutio. Problemi di origine, Torino, 2000, p. 165; VISMARA, Appunti intorno alla heredis istitutio, in Scritti di storia giuridica, 6, Le successioni ereditarie, Milano, 1988, p. 39 ss; FADDA, Concetti fondamentali del diritto romano ereditario, I, Napoli, 1900, p. 292.

principale degli interpeti non fu più la salvezza dell’istituzione ereditaria, ma la tutela dell’ultima volontà. Si è arrivati così, fino ad oggi, col riconoscere nel favor testamenti una regola di ermeneutica diretta ad esaltare e ad estendere il dato volontaristico assicurandone adeguata salvaguardia e, proprio in tale solco, si pone il disposto dell’art. 634 cod. civ. Prima dell’entrata in vigore del codice del 1942 la maggior parte della dottrina scorgeva nella regola sabiniana uno strumento diretto a tutelare, in tutte quelle ipotesi in cui il disponente fosse stato all’oscuro della illiceità o impossibilità della condicio, la sua volontà presunta, ritenendosi, cioè, che questi avrebbe preferito mantenere in vita la disposizione, pur se depurata della condizione, piuttosto che vederla completamente svuotata della sua validità. Tale ragionamento presuntivo, però, era aperto ad una diversa dimostrazione, restando ferma l’inefficacia del testamento ove fosse risultata con certezza la volontà del suo autore di non scindere la disposizione dal meccanismo condizionale viziato o allorquando fosse stato lo stesso de cuius a prevedere espressamente l’inefficacia dell’atto mortis causa in presenza di illiceità o impossibilità della condizione158.

La tendenza a declinare il favor testamenti in una chiave soggettiva, pur giustificandosi con l’intento di assicurare, mediante una benigna interpretatio, la conservazione di una volontà giocoforza irripetibile e diversamente destinata alla sterilità sul piano giuridico, veniva nondimeno raggiunta dalla considerazione critica secondo cui, per tale china, si arrivava a tutelare non già il reale voluto testamentario, bensì qualcosa di diverso e distante da esso in spregio alla sua sacralità. In altri termini, scindere la volontà dalla condizione avrebbe significato scavalcare il principio di inscindibilità della volontà condizionata finendo per forzare la volontà privata e stravolgerne il senso.

Tale approccio critico restava, nell’ambito del panorama dottrinario, minoritario, muovendosi invece, l’orientamento prevalente, nella direzione di giustificare la regola sabiniana, in versione pura, mediante il richiamo al concetto di scindibilità della volontà testamentaria rispetto alla condizione. Tale convinzione intingeva, secondo alcuni, nella considerazione che il testatore avrebbe comunque voluto eseguire il testamento anche se reso orfano degli elementi accidentali appostivi; secondo altri la ragione di tale scindibilità non era di carattere soggettivo, ma oggettivo, legandosi all’intento legislativo di fare salve le disposizioni mortis

causa altrimenti invalide. Non mancava chi invocasse la disciplina del contratto per

sottolineare come in tale contesto la determinazione del concreto regolamento negoziale, e

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BARASSI, La successione testamentaria, cit., p. 342; CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1948, p. 565; COVIELLO, Corso completo del diritto delle successioni, Napoli, 1914 -15; G. BRUNETTI, Le condizioni impossibili o illecite nei testamenti, in Scritti giuridici vari, IV, Torino 1925, p. 202; In giurisprudenza: Cass. 30 maggio 1953 n. 1633.

quindi anche la scelta di introdurvi una condizione, era sempre il frutto della concorde volontà di tutte le parti, mentre in ambito testamentario, l’apposizione di una condicio e, in genere, l’intero impianto delle ultime volontà, rifletteva il volere del solo testatore sicchè non sarebbe apparso congruo lasciare che il beneficiario della disposizione soffrisse la perdita del lascito a causa della illiceità di una condizione appostavi senza alcun concorso da parte sua159. In ultimo, si affermava come la condizione testamentaria – nell’ambito dei soli atti mortis causa - fosse in grado di creare, di fianco alla tipica volontà dispositiva, una volontà ulteriore e aggiunta, diretta a scopi e finalità diverse, la quale, grazie al funzionamento della regola sabiniana, avrebbe potuto essere soppressa per assicurare la conservazione della volontà testamentaria.

Gli apporti teorici espressi dalla dottrina, se da un lato valsero a vivacizzare il dibattito, dall’altro non riuscirono a rivoluzionarne le conclusioni, restando queste imperniate sul principio della inscindibilità della volontà condizionata quale assioma insuperabile e per questo fonte di non poche difficoltà nella comprensione della regola sabiniana. Di fronte al suo valore derogatorio, infatti, è risultato arduo fornire risposte esaurienti e, in tal senso, neppure il principio del favor testamenti, in tutte le sue declinazioni, è riuscito ad offrire soluzioni condivise.

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